«La relazione è la fenditura dell'essere nella quale prendiamo forma e dentro la quale costruiamo i castelli dei nostri sogni e dei nostri obiettivi». Potrebbe essere la frase riassuntiva di Gianfranco Damico, coach, de Il codice segreto delle relazioni (Urra, Milano 2013) dove viene teorizzata la eterocrazia o eterolatria, il potere o la religione dell'altro: l'altro è nostro padrone e signore.
L'altro – e non nel senso di Rimbaud che il 15 maggio del 1871 comunicava da Charleville a Paul Demeny che Je est un autre («Io è un altro») e continuava: «Se l'ottone si sveglia una tromba, non è affatto colpa sua» (Si le cuivre s'éveille clairon, il n'y a rien de sa faute).
L'altro – e non nel senso politicamente corretto del bulgaro Tzvetan Todorov, altro per i francesi presso cui è andato a lavorare e a vivere e per il quale il senso della contemporaneità dopo la scoperta dell'America, anzi La conquista dell'America (1982), è la question de l'autre. Todorov consacrerà in Noi e gli altri l'eterologia che l'aveva fatta da tiranna dominatrice sin dalle primissime battute nel lavoro (sopracitato) dedicato agli Atzechi, a Cristoforo Colombo, ai feroci conquistadores spagnoli quali Cristòbal de Olid, Ferdinand Cortès, Nino de Guzman. Con quel libro in mano, prevedendo costumi sessuali liberi e copricapo piumati, pronto a salpare per le Americhe, anzi per le Indie, Todorov – che sembra Damico, utente del cervello per arrivare al cuore – ci incatena a noi stessi/altri, scrivendo: «Voglio parlare della scoperta che l'io fa dell'altro. L'argomento è vastissimo. Non appena lo abbiamo formulato nei suoi termini generali, lo vediamo subito suddividersi in molteplici categorie e diramarsi in infinite direzioni. Possiamo scoprire gli altri in noi stesi, renderci conto che ognuno di noi non è una sostanza omogenea e radicalmente estranea a tutto quanto non coincide con l'io: l'io è [e qui siamo in territorio rembaldiano] un altro. Ma anche gli altri sono degli io...». Insomma, l'iità o ipseità è alterità! (L'altro è sempre il prodotto di una rinascita mistica, governata da un coach-sacerdote, come insegna Mircea Eliade in La nascita mistica. Riti e simboli d'iniziazione, Brescia Morcelliana, 2002: «Un insieme di riti e insegnamenti orali, che persegue la modifica radicale dello statuto religioso e sociale del sottoposto a iniziazione [...]. Al termine delle prove il neofita gode di tutt'altra esistenza rispetto a prima dell'iniziazione: è diventato un altro». Insomma, l'ha piantato di essere se stesso come raccomanda Damico nel suo precedente Piantala di essere te stesso!).
A questo punto, se l'altro è in me o se è, addirittura, l'io stesso, potremmo chiudere il libro, ritenuto concluso il viaggio. Ma sarebbe un cattivo proposito perché ben altre sorprese ci riserva il viaggio di Gianfranco Damico il cui testo è egemonizzato terminologicamente dalla parola "altro" (non se ne ha idea di quante volte lo si incontra l'altro: un'ossessione così incombente, così indiscreta da portare la mano al tagliacarte e farne un pugnale omicida, liberatore).
Una prima sorpresa: l'altro di cui si parla è sempre un pazzo. O meglio, scrive Damico, siamo tutti «ALIENATI MENTALI forse non nei riguardi di un preciso assetto storico-sociale e culturale, ma certamente nei riguardi di una più generale realtà, sempre aliena. E alieni lo siamo ancor di più gli uni agli altri, in quanto portatori di un'irriducibile diversità che rischia sempre di chiudersi in sé e di difendersi...» (p.193). È un passo di commento alle storie da pazzi che racconta Richard Bandler con la sua terapia del Ricalco Contenutistico che guarisce un allucinato uditivo e un Gesù Cristo incrocifissabile.
Il libro di Damico si presenta bene con il suo attacco al Cartesio del corpo e dello spirito reciprocamente antagonisti, con il suo antidealismo autistico del vescovo Thomas Berkeley, con l'espulsione in fuorigioco di Freud e di tutto il suo catarroso pansessualismo, con l'assenza del padre (una sola volta se ne parla a p. 85 ed è un pietoso Anchise, non un Mosè di terrificante autoritarismo), ché nel romanzo di formazione che è la vita sempre decisivo è Ulisse per Telemaco, Ettore per Astianatte, Anchise per Enea, Crono-Saturno per tutti e mai che si misuri l'importanza di Andromaca o di Penelope nella formazione del carattere del figlio. Poi tra neuroni a specchio e mandorle cerebrali (amigdala), di empatia in empatia, di relazioni in relazioni («sono le relazioni a costruire il soggetto», p. 67) ci allontaniamo dalla «fenditura dell'essere» e dai giochi ottici per ritornare – e colmare la fenditura dell'esserci – alla ragazza mai incontrata in quell'adolescenzialmente immaturo tempo di solitudine, dove però c'era il gigantesco nonno omerico, c'era il povero epilettico Jascin. Dove c'era, insomma, il cuore delle cose incomplete e insensate fino a quando non le si racconti: «Non sono i fatti a determinarci, è la narrazione di quei fatti che ci struttura, è il senso compiuto che diamo a quei fatti... Un evento ha il suo statuto ontologico esclusivamente nella narrazione che ce ne facciamo» (pp. 78, 80). Miele per le mie orecchie ammaliate da quella musica da sirena di Hayden White, del principio di indeterminazione di Heisenberg o degli Esercizi di stile di Queneau!
Meno dolce, anzi senz'altro amara, la frase sottolineata nel testo: «ciò che ci appare simile è amico, ciò che ci appare dissimile è nemico» (p.183). Un mondo di esseri simili l'uno all'altro sarebbe una teoria di specchi, popolata dalla propria unica immagine riflessa all'infinito: lo specchio di Narciso. Folle, come il Cristo di Bandler! «Avere torto: che meraviglia!» scrive Damico. Il torto come risorsa! Ma se è una risorsa avere torto, non è ispirato a generosità dare torto all'altro? Un uomo ragionevole, di ragioni pieno e faticosamente a lungo elaborate, è davvero un pavone prigioniero di se stesso come quello che si intuisce nelle pareti del ristorante La foglia di Ortigia? Non mi pare agevolmente comprensibile l'altro. Non mi resta che stare odiosamente e noiosamente con me stesso che sono l'altro da me, il mio altro più vicino, il mio prossimo! Come citare i propri libri, rimandare a se stessi mentre si predica l'eterocrazia! Insomma, ognuno è Narciso. A modo proprio!
Tino Vittorio
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