martedì 23 luglio 2013

La Chiesa del Pesce: Cristo non moltiplicò le melenzane, ma i pesci!













Guardando le lussureggianti fotografie di Monica Laurentini, raccolte in  'A Piscarìa, un mercato sonoro e distogliendo lo sguardo da Serge Latouche de Il Pianeta dei naufraghi (Bollati Boringhieri 1993): "Un giorno di mercato - racconta monsignor Valaro, presidente della Caritas, una organizzazione assistenziale cattolica, - a Madagascar, un contadino povero s'installa già all'alba con cinque pomodori, due pesci e un chilo di patate dolci. Passò di lì uno straniero che volle comprargli subito tutta la merce a buon prezzo. Dopo un momento di silenzio il vecchio rispose: «No, sono venuto qui innanzi tutto per avere notizie degli amici dei parenti. Se prendo i 
tuoi soldi ora, non potrò restare al mercato per godermi la giornata con gli altri. Ridere con loro permette di dimenticare la miseria, il dono del tempo va assaporato, è un dono del cielo»." 
E sarebbe da mandare Latouche al mercato norvegese del pesce di Bergen, un luogo di incontro e di contrattazioni aleutiche internazionali dove i pescivendoli mantengono agli studi universitari i ricercatori, gli intellettuali. Per scoprire che un pescivendolo  di salmone o di granchi vale più di un professore universitario se è vero quel che narra nel suo Il pescivendolo italiano in Norvegia Massimo Toffoletto (Aurelia editori 2010). Il protagonista, pescivendolo e studioso di letterature russa, norvegese, inglese, a lungo indeciso tra libri e merluzzi ( i primi comprati con il ricavo della vendita dei secondi), tra halibut, lupa di mare (che non è la mamma dei lupini dei Malavoglia di Verga, raffinato mangime per i porci), stoccafisso e progetti di ricerca dell'Istituto di Lingue e letterature straniere dell'Università di Bergen, sceglierà la pescheria, dopo avere "lasciato tutto, compresa la carriera universitaria"  per farsi imprestare la bancarella del pesce dal suo amico e datore di lavoro, il pescivendolo Runar.  Un Latouche in meno!

Un pescivendolo - narrava Sir Walter Scott – al posto di vendita era solito dire ai suoi clienti che mercanteggiavano: “Non è pesce quello che state comprando: è la vita stessa degli uomini”. Il passo è l’epigrafe di una parte della ricerca di Mark Kurlansky, Merluzzo (Mondadori, 1999). Verissimo e dispettoso anche nei confronti di chi - come Pedrag Matvejevic - racconta nel suo Mediterraneo che “ il cristianesimo non stimolò la navigazione” (ma quando mai!? Si legga Fagan.) la pescheria è una chiesa cristiana: comunità del pesce, ICHTHYS, l’acrostico che sta per Iesous Christos Theou Yios Soter (Gesù Cristo, di Dio Figlio, Salvatore). Aringa o merluzzo, stocco o baccalà, il pesce ha salvato il mondo ma l’ha anche cambiato. Senza volerlo. Lo si inseguiva, il merluzzo, per tutti i mari del nord Europa fino a Cape Cod (Capo Merluzzo) del continente nord americano e  si tracciava una rotta settentrionale che sarebbe servita a scoprire l’America, a disincagliarsi dalla civiltà mediterranea paralizzata dal suo passato, a consegnarsi  al futuro dell’Oceano Atlantico e poi dei Mari del Sud, del Pacifico di Vasco de Gama , di Magellano. Inseguire il merluzzo, pescarlo, essiccarlo sulla punta di un bastone (stockfish) o salarlo come un baccalà da conservare per i giorni invernali, lunghi e numerosi. Più che il roastbeef  il piatto nazionale identitario inglese fu (è?)il fish and chips, un fritto di merluzzo e patatine, servito in cartoccio che si mangia nei luoghi di mare inglesi, servito in ristorantini realizzati dalla trasformazione delle capanne di deposito degli attrezzi e ordigni di pesca (consigliamo - per esperienza diretta - Hastings). Sulle tracce del merluzzo l’Oceano diveniva familiare. Scoprire il mondo inseguendo le aringhe per salarle, essiccarle, affumicarle e fare fronte alla fame dei mesi freddissimi e delle annate agricole scarse. Cibo quaresimale, l’uno e l’altra. La dieta alimentare della Chiesa cattolica che vietava l’ingestione della carne in alcuni giorni della settimana- e non solo il venerdì - raccomandava l’aringa, sì da fare scrivere a Brian Fagan nel suo Il lungo viaggio delle aringhe (Corbaccio, 2007) che “dopo l’XI secolo le dottrine della Chiesa cattolica e le domande insaziabili da parte degli eserciti di vettovaglie leggere, facilmente trasportabili, crearono un commercio enorme di pesci di mare. Un commercio internazionale rapidamente crescente …”. Catania il cui mare era/è scarsamente pescoso non aveva aringhe, aveva pochissimi miruzzi (sia pure) do’ conzu; ricchissimo era di sarde, masculini (acciughe) e cozzuli (non di Messina o,meglio, di Ganzirri, ma da praia). Le barche erano diversamente definite: varca ‘i sardi, ragni a vela, varca ‘i conzu, varca ‘i lacciara, varca ‘i nassi (per le seppie), varca ‘i nassi di jammuru russu, varca ‘i sciabbicavarca ‘i ‘ncannata, cinciolu, paranza, tartaruni. Con l’ausilio del preziosissimo testo di Salvatore Lo Presti, La pesca e i pescatori nel golfo di Catania, pubblicato nel 1936 da Romeo Prampolini, glorioso editore catanese, vediamo da vicino il mondo lontano della pesca catanese i cui attori gravitavano attorno ai quartieri della Civita, degli Angeli Custodi, del Porto, di Ognina e del comune di Acitrezza, riatteri, pisciara, sammareddi, cuzzulara e patruni  ‘i varca: “Per la ripartizione degli utili della pesca, tra proprietari di barche (patruni) e pescatori (marinara) vigono gli usi seguenti: Varca ‘i sardi- Il ricavato viene diviso in dieci parti. Sei parti vengono date agli uomini dell’equipaggio (una per ciascuno); tre parti al patruni per avere apprestato la barca e le reti occorrenti; l’ultima parte, dette parti ‘i puppa viene divisa, in aggiunta, all’equipaggio. Il proprietario della barca è tenuto a fornire all’atto della partenza, il pane all’equipaggio (mezzo chilo per ciascuno). A pesca  ultimata, sul ricavato di questa, gli vengono corrisposte lire quattro di spisa per ogni marinaru: egli trattiene una lira a testa per il pane e distribuisce a ognuno le tre lire che sopravanzano”. Pescatore-pescivendolo:il tratto di congiunzione era rappresentato dal riatteri che raggiungeva in mare con una sua barca i pescatori di ritorno per farsi consegnare tutto il pescato da portare ‘o sgabellu (mercato all’ingrosso) ove rivenderlo ai dettaglianti, ai pisciara che per Catania erano i cosiddetti “sammareddi” , i quali per la vendita della loro merce percorrevano giornalmente  venti, trenta ed anche più chilometri. E chiudiamo con un omaggio a Salvatore Lo Presti: “Sempre a piedi nudi, sia d’estate che d’inverno, senza mai stancarsi, con un passo caratteristico, celere e ritmico nello stesso tempo, che sembra dar lena e giocondità al corpo e allo spirito. Partendosi dal mercato all'ingrosso, con i panieri accoppiati sulla testa, protetta da una specie di cercine fatto di un sacco cadente sulle spalle, egli gira di sobborgo in sobborgo […]. Allorché echeggia il suo rallegrante grido le comari si affacciano leste sulle soglie degli usci con i bianchi piatti pronti nelle mani …”.

Non molto tempo addietro! E, comunque, non erano mulunciane, melenzane né gli spassosissimi lupini di Giovanni Verga, protagonisti del mare a Vizzini!

                                                                          




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