sabato 24 maggio 2014

Agghiacciante il capitalismo!
























Siamo affetti da scientismo manipolatorio, da prometeismo dissolutore per cui tutto ciò che c’è di solido si liquefa o si volatilizza. Anche la democrazia si scioglie in mediocrazia (questa è del sopraggiunto Nietzsche) e nella modernità liquida di Zygmunt Bauman. “Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e i concetti antichi e venerabili[…]. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo di stabile, profanata ogni cosa sacra”. E’ l’autodistruzione innovativa del capitalismo di Marx, della contemporaneità di quell’esperienza della modernità che faceva scrivere nel suo magnifico libro (1982), All that is Solid Melts into Air. The Experience of Modernity, a Marshall Bermann, nel commento del passo marxiano famosissimo del Manifesto del Partito comunista: “ - […] dagli abiti che indossiamo ai telai e alle follatrici che ne tessono le stoffe, agli uomini e alle donne che lavorano alle macchine, alle abitazioni e ai quartieri in i lavoratori vivono, alle aziende e alle corporazioni che sfruttano i lavoratori, ai paesi e alle città alle intere regioni e persino nazioni, che li riuniscono tutti - tutto ciò viene creato per essere domani distrutto, schiacciato, sgretolato polverizzato o dissolto, così che possa essere riciclato o sostituito la settimana successiva e il continuo processo possa dunque ripetersi nel tempo, possibilmente all’infinito, in forme sempre più vantaggiose” (traduzione italiana della pubblicazione de il Mulino del 1985). Ma non tutto si scioglie per effetto della globalizzazione mercatoria e del capitalismo. Da qualche parte il capitalismo ha cercato inutilmente di impedire che - contro il compiacimento apocalittico di Marx - la neve si sciogliesse. Il capitalismo nivale si muoveva secolarmente controcorrente, contro la sua natura, esperiva altre sue potenzialità, evocando dalle sue risorse, tutte orientate alla volatilizzazione di ogni cosa incontrata, l’insospettata capacità di solidificazione, a rendere, cioè, solido il fiocco di neve e a prosperare nella sua solidificazione per il mercato del ghiaccio che ebbe in Europa una lunga stagione di fasti fino agli anni Cinquanta del secolo scorso. E’ di Antonio Patanè (I viaggi nella neve, Palermo 2014) il racconto di questa strana avventura che esaltò la neve, raccolta dai nevajuoli, custodita nelle neviere, in grotte, anfratti, ripari naturali, commerciata dagli arrendieri, appaltatori, consumata nelle afose estate della città di pianura per l’ “usanza del bere annevato”, per la frutta gelata, per i gelati e le granite, per i sorbetti o gli sciroppi freddi della mensa dei monaci e dell’aristocrazia, per la conservazione dei cibi, per gli ospedali a scopo medicinale contro emorragie e febbri, in groppa ai muli in viaggi notturni, caricata sulle navi (per Malta dalla Sicilia),contrabbandata, controllata alla dogana, alle postazioni daziarie. E attorno alla neve interessi, mestieri, alleanze politiche, lotta di classe, proverbi, modi di dire, modi di fare, modi di vivere in Francia, come in Ispagna, a Catania come a Milano, a Cagliari come a Roma. Il capitalismo, per fortificarsi, lavorava nel frattempo “contro” se stesso. Per liberarsi dalla schiavitù della Natura diede vita all’industria del ghiaccio, della refrigerazione dei corpi e dei cibi. Capitalismo nivale e capitalismo antinivale, ora l’uno ora l’altro? In tutto questo, a non funzionare è il “capitalismo”, il concetto di capitalismo, la filosofia del capitalismo, il Capitale che pensa o che viene pensato. E figurarsi se il Capitale voglia perdere il suo tempo a pensare! Il Tempo è  denaro, non perde se stesso appresso all’Essere!

giovedì 22 maggio 2014

La fiction della psicanalisi: Giocasta era una Milf o una urban cougar!












Un romanzo noto per le pagine iniziali dove si racconta della crisi di questi anni in Nord America, con ragazzi di lavoro precario, squatter, intelligentissimi, coltissimi, sfigatissimi. A me piace tutta la storia e, particolarmente, la pagina finale: "Si preme il ghiaccio sulla mano gonfia, e guardando la mano pensa al soldato senza le mani nel film [I migliori anni della nostra vita]* che visto l'inverno scorso con Alice e Pilar, il giovane reduce dalla guerra che non poteva spogliarsi e andare a letto senza l'aiuto di suo padre, e ora sente di essere diventato come quel ragazzo, che non riesce a fare nulla senza l'aiuto del padre, un ragazzo senza le mani, un ragazzo che dovrebbe essere senza le mani, un ragazzo cui le mani hanno portato solo disgrazie nella vita, le sue mani arrabbiate che sferrano pugni, le sue mani arrabbiate che spintonano, e poi gli torna in mente il nome del soldato nel film, Homer... Homer come il poeta Omero che scrisse quella scena fra Odisseo e Telemaco...". Sono le battute conclusive di Sunset Park (2010) di Paul Auster. Il protagonista è Miles Heller. 

Mi chiedo: cosa sarebbe la psicoanalisi senza la letteratura omerica, senza la mitologia classica? La risposta è quella di Karl Kraus che riteneva si dovesse usare la psicanalisi per smascherarne l'autoreferenzialità, la natura di dispositivo giustificazionista del coatto a ripetere e, insieme, "gesto di vendetta, per mezzo del quale l'inferiorità si dà un contegno, se non addirittura un'aria superiore...].Esser medico è più che essere paziente e perciò oggi non c'è babbeo che non tenti di curare ogni genio [...]. La psicoanalisi è quella malattia mentale di cui ritiene di essere la terapia". Fu per questo che di Edipo - incestuoso a sua insaputa - fu nascosta la sua pederastia, l'abuso sessuale e letale nei confronti di Crisippo che per l'affronto si diede morte. E invece siamo tutti lì a menarla con Giocasta, Laio... E se Giocasta fosse stata una Milf? O una urban cougar?


*The Best Years of Our Lives è un film del 1946 diretto da William Wyler. 

martedì 20 maggio 2014

Il postumano: Nietzsche è antiquato!








"La Tecnica è un servitore che fa un tale chiasso mettendo in ordine la stanza accanto che i signori non possono far musica" (Karl Kraus)



Presentare Frammento e sistema (Mimesis 2014,pp. 242) di Roberto Fai nel Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Catania è una provocazione: vi si celebra la morte della politica, prima e più che della scienza politica (che è già una presuntuosa mostruosità). Dovevamo parlare di corda in casa dell’impiccato. Non se n’è fatto niente. Ma neppure con torme di studenti sarebbe successo alcunché, data la folla autistica degli intellettuali, prodotto ultimo della globalizzazione mercatoria che,assieme alla sua ombra, il disagio, è tema del saggio.

Con l’esplosione dominatrice della Tecnica, tutti i medici - buon ultimo il nostro Roberto Fai -  accorsi al capezzale dello Stato nazionale, della democrazia, della sovranità popolare e della politica non hanno potuto non constatare che la politica è morta, lo Stato è larvale, la democrazia è chiacchiera per i talkshow o degli avventori del bar rionale. I becchini sono tanti, divertenti tutti da Le Pen, a Grillo, a Berlusconi, a Crocetta o a Putin (poco divertente, molto inquietante). Siamo in attesa dell’adveniens, del nuovo Messia, della sua Parousìa. Se ne intravvedono i tratti facciali quelli mixati di terribilità di un feroce comico o di una divertente tutta-d'un-pezzo Merkel o di un inespressivo, inaffidabile Putin o dell’ebetino Fonzie.Tutto questo perché siamo al tramonto dentro cui, anzi, sulla cui soglia dobbiamo stare vigili come appena desti all’aurora.

L’Occidente è popolato da occidentali, da tramontanti: il tramonto è la sostanza , la qualità dell’Occidente, il tramonto è occidente, occaso. Pertanto, a noi occidentali nulla di nuovo è accaduto dopo il dilagare della Tecnica: siamo stati sempre occidentali sin dalla nascita del sistema solare.
Prima domanda: se siamo stati sempre occidentali perché la scoperta (1918-1922) di Oswald Arnold Gottfried Spengler  (“l’andata sotto della terra della sera”: traduzione letterale di Der Untergang des Abenlandes) dovrebbe segnare la nascita dell’Occidente alla data della pubblicazione del suo libro o a quella dell’esplosione della Tecnica seguita - come dai cuccioli la mamma - dalla “grande trasformazione” della rivoluzione industriale?(Per inciso, ricordo 1°-  che occidente e tramonto sono sinonimi astronomici e un sinonimo non può auto-specificarsi se non per creare un brusio, un insensatezza, un flatus vocis insignificante; 2°-  che un tramonto non è un punto di poco tratto, ma una linea di durata lunga quanto i secoli che compongono una civiltà; 3° - che dopo Copernico non siamo occidentali, anzi, ad onor del vero astronomico non lo siamo mai stai: il Sole è occidente,tramonta, od oriente, si leva soltanto nella presunzione geocentrica di Tolomeo).


Un saggio “denso” e “inedito” direbbe Fai di questo lavoro per sottolinearne l’eccellenza (“densità”, “condensazione”, “addensamento” e relativi apparentamenti semantici, o  “inedito”  con la variante “inaudito” o “tagliare” “fessurare” “de-cidere”, “soglia” sono i lemmi più frequenti di Fai in questo lavoro, i tic linguistici il cui esame per uno come Leo Spitzer avrebbe chiesto lo spazio di un volume di uguale mole del Frammento e sistema).
 Un saggio denso ma non definitivo che come tutte le buone opere non chiude ma apre questioni.
E cominciamo da Heidegger che  -assieme a Jϋnger e a Schmitt - è il principale attore del teatro filosofico allestito da Fai sul cui impiantito sono chiamati tanti altri personaggi da Nietzshe a Derrida a Cacciari, a Esposito a Bodei a Curi.

Heidegger ovvero l’ossessione della Terra,della terra,delle radici (ma l’uomo ha i piedi, è mobile, itinerante, non stanziale come un vegetale). Heidegger il filosofo-Bauer e mi chiedo se Heidegger in un paese solare come lo scintoista territorio nipponico che - è un maritorio, più che un territorio - abbia mai avuto accoglienza, la devozione tributatagli nel  territorio occidentale.
Heidegger lo leggevo- qualche anno ora è - e alla fine mi rimaneva una forte sensazione di terra e sangue, di terra (Boden) più che di sangue (Blut) e pensavo che mai sugli orizzonti mentali, tolemaici, geocentrici di Heidegger è giunto a stagliarsi (altro tic linguistico di Fai) Copernico, l’eliocentrista.
Il Giappone è “occidentale” dalla Restaurazione Meji del 1868, dalla sconfitta dell’ultimo shogun o, prima, dal 1853 quando il commodoro statunitense Perry attraccò con le sue navi nella baia di Edo. E’ “occidentale” ma è orientale e ha come bandiera distintiva un disco rosso, il disco solare del nonno dell’imperatore e del padre della dea del sole, un disco di esplosiva luce aurorale. Ecco: la Cina, l’India, il Giappone sono atopici mi chiedevo leggendo dell’atopia di cui sarebbe affetto/infetto l’Occidente (pagina 147) ? A me pare che siano ubiquitari, ipertopici! Fai in questo saggio ci presenta una mole immane di riferimenti bibliografici: tutti occidentali, eccezion fatta per quell’ apostata nippoyankee di Fukuyama: non si trova un pensatore orientale manco a peso d’oro (escludiamo Derrida che è un franco algerino, più francese che nord-africano)

Fai affronta la questione del mare, del mare Mediterraneo per sposare in matrimonio - ma senza consumare, senza pervenire alle ultime conseguenze - le tesi di quanti sostengono la centralità - sia pure - di ritorno del Mediterraneo all’arrivo dell’adveniens che - come il Messia per gli ebrei – sarà il vindice della civiltà mediterranea contro cui la Storia s’è accanita, rivelandosi come impostura, imposizione di tramonti estranei e precoci. In realtà, con buona pace di Pedrag Matvejevic, di Fernand Braudel e di Franco Cassano il Mediterraneo è un quasi lago, acqua di risulta degenere degli Oceani, una traccia residuale quasi lacustre, appunto, un quasi stagno della Panthalassa che alla deriva dei Continenti si è concentrata negli Oceani dove si è scatenata la Tecnica, assunti gli Oceani come suoi campi di Marte. Il Mediterraneo è stata la nursery dell’arte nautica,vale a dire della Tecnica per eccellenza, la culla dei mari veri come sosteneva Joseph Conrad ripreso recentemente da Simon Winchester in Atlantico (Adelphi, per il  Pacifico disponiamo da tempo della trilogia di O.K. Spate pubblicata in italiano - ora è tempo -  da Einaudi). Il punto gli è che non si può parlare bene, fare l’elogio del Mediterraneo in presenza di filosofi iperterragni o baltici come Hegel, Kant, Marx, Heidegger, Junger, Schmitt, o l’Hobbes pre-industriale -  solo per fare i nomi più noti di questa lunghissima attraversata di Robero Fai per l’oceano della contemporaneità -. Sinceramente disarmato, non vedo il nesso tra Cassano e Jϋnger, tra Bari e Amburgo, tra la "napoletanità" di Croce e la "tedeschità" di Sloterdjik. In vero, il nesso tra queste distanze geofilosofiche è imprestato da Massimo Cacciari, un pensatore "tedesco", oceanico, figlio di una Venezia ipermediterranea, nauticamente (ex)imperiale. Non trovo coerente in un argomentare filomediterraneistico indicare la Cindia (Cina e l’India,due continenti di natura oceanica, alimentati e posti in essere  dal Mare Cinese e dall’Oceano indiano) quale erede dell’Occidente, dell’Occidente atlantico che è il padre sostanziale dello snervato figlioletto cacciatosi tra le … terre, di nome Mediterraneo, infeudato al gigante Anteo, re dei luoghi comuni.

Roberto Fai ci raccomanda di essere giusti con Marx. Ma Fai ci chiede troppo, chiede di essere indulgenti. Marx, come Federico De Roberto per Antonino di San Giuliano, è stato responsabile del dileggio, della sottovalutazione e della dimenticanza di un pensatore robusto e, quindi, scandaloso come Max Stirner che, recuperato dopo averlo sottratto alla furia del frullatore marxengelsiano dell'Ideologia tedesca, sarebbe il vero protagonista delle pagine di Fai, di quella lunga  rappresentazione della desertificazione europea operata dalla globalizzazione mercatoria. Se c’è uno spettro che si aggira per le pagine di Fai quello appartiene all’Unico (Der Einzige und sein Eigentum, 1844) di Max Stirner, in anticipata prefigurazione dell’individuo sopravvissuto al crollo della sovranità popolare, alla cancrena della democrazia, al collasso della politica, all’implosione della comunità, della communitas, al totalitarismo della democrazia di massa - per dirla con Ernst Jϋnger per il quale, in uscita “stirneriana”, totalitarismo e democrazia di massa “sono due esperienze che obbediscono al principio agonale dei contrari: quanto più si radicalizza un estremo, tanto più affiora quello opposto. A rigore, dal punto di vista dell’Anarca, del grande Solitario, totalitarismo o democrazia di massa non fanno molta differenza. L’Anarca vive negli interstizi della società, la realtà che lo circonda in fondo gli è indifferente, e solo quando si ritira nel proprio mondo, nella propria biblioteca ritrova la sua identità. In ogni caso è raccomandabile la freddezza: su una palude ghiacciata si avanza con maggiore sicurezza e rapidità”(in Antonio Gnoli- Franco Volpi, I prossimi Titani. Conversazioni con Ernst Jϋnger, Adelphi 1997, p.108). Per Stirner l'uomo raggiunge, scopre se stesso, rivela la sua iità, la sua "biblioteca", liberandosi di ogni astratta rappresentazione dell'uomo (l'umanità): la derelizione o deiezione dell'individuo di Heidegger  e & in Stirner e & è unicità ricca di qualità, forte di proprietà. Certo, c'è da chiedersi (ma è altra faccenda) se l'Io di un uomo può predicare la sua non umanità. Non è come scuoiarsi a vivo e apparire come un disegno anatomico che mostra sotto la pelle i muscoli, la carne, le ossa?

Un' ultima osservazione relativa alla vegetalità contadina di Heidegger riferita all’ ”abitare nell’universale sradicamento”. Heidegger scrive(riportato da Fai a pagina 191): “Il modo in cui tu sei e io sono, la maniera con cui noi uomini siamo sulla terra è il Buan, l’abitare. Essere uomo significa: essere sulla terra come mortale; e cioè: abitare”. Mi permetto di affermare che l’essere non è l’abitare se non per una ditta di trasporti, per il postino, così come uno non è quintopianista ché abita al quinto piano. L’habitat determina l’essere vegetale, quello del pomodoro di Pachino o del carciofo di Niscemi o del tartufo di Alba. Gli studiosi di storia del territorio o della città sanno che la delimitazione dello spazio a scopi abitativi o la norma edificale sono ispirate a utopie celesti, a supposte armonie divine come ha ben dimostrato Joseph Rykwert ne L’idea di città. I comunisti non nascono dalla comunità, non sono tali perché abitanti della polis comunitaria ma dalla messa in comune dei beni prodotti o sgraffignati: il modello comunista – come è stato scritto - è in Marx quello dei pirati,di uomini di ventura di mare.

Schmitt ha individuato in un lampo balenante la figura del Grifo quale portatore o cifra simbolica del futuro. Come a dire: la terra è stata la nursery, la culla della umanità, il cielo sarà la prova della sua maturità che dovrebbe spingerla al "transumano" di Attali, al "postumano" che Trotzsky additò, immaginandolo come l’operaio nicciano, l’Arbeiter di Jϋnger, l’uomo della Tecnica o la Tecnica antropizzata, un nuovo Prometeo più i Soviet, il colonizzatore dei mondi oltre la terra, l’astronauta. L’uomo dapprima cacciatore, poi pastore contadino, poi marinaio, poi astronauta. Quale sarà la forma politica della comunità degli astronauti del comunismo di Trotzsky dove l’uomo diverrà “incomparabilmente più forte, più saggio, più acuto. Il suo corpo si farà più armonico, i suoi movimenti più ritmici, la sua voce più musicale, le forme dell’essere acquisteranno una dinamica rappresentatività. La media dell’umanità sarà al livello di un Aristotele, di un Goethe, di un Marx. Oltre queste altezze si eleveranno nuove vette” (Letteratura, arte, libertà 1958 Milano). E la nuova Utopia, congedatasi dal Comunismo, sarà la pratica del Cosmismo. Insomma, oltre la Terra il Sole che non tramonta, fisso nel suo splendore a illuminare il Cosmo, l’habitat del postumano!
Jϋnger parlando del suo Al muro del tempo e del giudizio lusinghiero di Hermann Hesse: “ […] una delle idee che io esprimo in quel libro, e che lo colpì, è che per capire ciò che avviene bisogna per così dire spostare lo sguardo dalla storia umana alla storia della terra, bisogna volgersi dalla considerazione del tempo storico a quella del tempo cosmico, della natura. L’umanità è parte dell’accadere del cosmo”(Gnoli-Volpi, citato sopra, p. 90).

venerdì 16 maggio 2014

Non sappiamo cosa pensasse di De Roberto e de I Vicerè, rancoroso ritratto di Consalvo-San Giuliano. Non lo sappiamo perché assai probabilmente Antonio Di Sangiuliano che pure era un consumatore bulimico di letteratura, da Dante a Goethe in lingua originale,non degnò neppure di uno sguardo quel romanzo che - a detta del più recente biografo di San Giuliano, Gianpaolo Ferraioli (Politica e diplomazia in Italia fra XIX e XX secolo. Vita di Antonino di San Giuliano Rubbettino 2007)  - "una volta diffusosi a Catania, divenne per tutti la narrazione letteraria, ma nella sostanza fedele, della cinica carriera politica del marchese. Il capolavoro di De Roberto, quindi, fu accolto come una sorta di appello al partito monarchico catanese, affinché emarginasse il narciso San Giuliano, che aveva dimostrato in tredici anni di permanenza in Parlamento [fu eletto nel 1883] di sfruttare il programma della conservazione nel progresso per allungare la sua trasformistica carriera" (p. 121 ).

domenica 11 maggio 2014

Il socialismo a spese altrui


Il vicerè socialista. Giuseppe De Felice Giuffrida, sindaco di Catania

Il saggio di 327 pagine di Pippo Astuto, Il vicerè socialista. Giuseppe De Felice Giuffrida, sindaco di Catania (Bonanno 2014) conclude una lunga parabola di studi sulla Sicilia Ottocentesca (del secondo Ottocento, prevalentemente).
Una lunga traiettoria, intramezzata da studi sulla formazione dello Stato russa in età moderna e del costituzionalismo russo, e che ha finito con l'avere la meglio sulle iniziali ricerche di Astuto, studioso di Inchieste meridionali attraverso le quali paradossalmente si cercava di conoscere un gran parte del territorio nazionale, ignorata dalla cultura istituzionale, solo dopo averla inglobata a forza, violentemente al suo interno. Come mettersi a tavola per ingoiare alimenti di ignota qualità.
Nel Meridione, in Sicilia prima dei ministri, degli amministratori civili e della politica - che dovrebbe essere sorretta previamente dall’informazione  orientata alla costruzione del progetto politico e istituzionale - prima sono arrivati i militari, quali amministratori e ricercatori sociali territoriali. L’esercito garibaldino e, poi, quello dei Savoia hanno avuto il privilegio, la primazia di suggerire alla politica le tecniche amministrative del territorio meridionale che sulle prime furono repressioni e stati d’assedio, la politica - vale a dire dei militari -. E’ così che il furetto conosce il coniglio: azzannandolo e dilaniandolo.
Stanca ma instancabile di violenza, la ruling class, il ceto di governo post-risorgimentale  fece ricorso al Prefetto che in tempo di pace è il soldato o il generale, o l’uno e l’altro, esecutore e suggeritore dei progetti istituzionali del centro, come nella tesi altrove elaborata da Astuto.

L’istituto prefettizio è stato dopo le Inchieste l’argomento-principe degli studi di Astuto dal cui magistero è sortito un altro bel saggio d’ambito istituzionalista pubblicato dalla casa editrice Bonanno e scritto dalla brava allieva Elena Faraci, I prefetti della Destra storica: Le politiche dell'ordine pubblico in provincia di Palermo (1862-1874), Bonanno 2014.
 C’è un lontano debito che si fa credito cospicuo di Astuto verso quella storiografia marxista che, salpando dai "ribelli primitivi", dai delinquenti del grande studioso inglese Eric J. Hobsbawm, dagli antagonisti senza fabbrica,fuori o contro il sistema delle industrie, dal "movimento operaio attraverso i suoi Congressi" dell’indimenticabile maestro, Gastone Manacorda, si era autonomamente, per spinta propria, consegnata all’antropologia di Ernesto De Martino e all’identificazione-trasposizione del ruolo rivoluzionario e ri-compositivo della società disgregata dei meridionali e subalterni. Quel ruolo era stato individuato nello sciamano-intellettuale organico gramsciano-Partito comunista. Lo sciamano, il mago, il fattucchiere meridionale diventano in mano ad Astuto il Prefetto o Crispi o De Felice. Ecco: De Felice è il Prefetto dei poveri, concorrente e antagonista dei Prefetti di Stato. De Felice è il Prefetto-sciamano contro il Prefetto-Prefetto istituzionale.

Figlio e orfano a 9 anni di un delinquente, ucciso durante una rapina,educato in ospizio, all’uscita fa di tutto, esercita strani mestieri (escluso quello dell’astrologo o dello sciamano). Astuto ce li ricorda: marito e padre a 17 anni, inizia diciannovenne con un impiego in Prefettura, ovviamente, da cui dopo tre anni viene mandato via a causa della pubblicazione di un giornale antigovernativo,  - “salato e pepato” lui lo definisce  - Lo Staffile, quindi, fa il suonatore di bombardino, il lavorante tipografo, il commerciante di vini, il piazzista di macchine da cucire. Questo aspetto picaresco-sciamanico, decisamente völkisch, non lo perderà il Nostro se anni dopo, alla vigilia della sindacatura catanese del 1902, lontano dall’eco dei fasci, dalla condanna a 16 anni, ma amnistiati a due dal governo Di Rudinì, la Kuliscioff scriverà da Catania a Turati (1899) quella notissima lettera che  Astuto ha posto ad apertura del suo libro: " Basta dirti che il De Felice è la sintesi, l'espressione vera e genuina, della qualità e dei difetti di quell'immensa popolazione. Anzi, direi che egli come tipo dell'ambiente riassume in sé in modo esagerato le tendenze basse  ed elevate;perché il bello e il brutto si toccano e si confondono là con un armonia meravigliosa. De Felice è il vero vicerè; i baroni e principi lo ossequiano, i facchini del porto lo abbracciano, gli operai delle zolfare si rivolgono a lui come al redentore, le ragazze allegre lo festeggiano al suo passaggio" ( p. 9). Dove non si capisce della meraviglia della Kuliscioff se lo scandalo sia nelle riverenze aristocratiche verso un socialista, sfracellatore di classi superiori, o nei modi affettuosi di cui il compagno, erede dell'alta filosofia tedesca culminata in Marx, godeva tra puttane e facchini!

Da qui, in un confronto serrato con autori, colleghi e maestri come Giuliano Procacci, Giuseppe Barone, Giuseppe Giarrizzo, Saro Spampinato, Giovanni Schininà ed altri elencati nella esaustiva bibliografia, prende abbrivo la ricerca di Astuto che riempie un grande vuoto nella storiografia della città siciliana e un vuoto nella storiografia del movimento operaio e socialista nazionale.

Necessariamente - parlando di De Felice - non si può non richiamare alla memoria il marchese Antonino di San Giuliano della cui biografica politica si occupa Gianpaolo Ferraioli in un ponderoso ma imperdibile volume di quasi mille pagine, pubblicato nel 2007 da Rubbettino con il titolo Politica e diplomazia in Italia tra XIX e XX secolo. Vita di Antonino Di Sangiuliano (1852-1914). Sono quasi coetanei: De Felice nasce nel 1859 e muore nel 1920, di San Giuliano nasce nel 1852 e muore nel 1914. L’impressione che se ne ricava mettendo in comparazione ravvicinata le due biografie è quella secondo cui l’uno è il rovescio dell’altro,con profili di coincidenza sorprendenti. San Giuliano, eletto sindaco nel 1879, giovanissimo, mette in piedi un programma di forte deficit spending, incentrato sui lavori pubblici e infrastrutturali, sull’ammodernamento del porto innanzitutto, e poi sul rifacimento delle strade cittadine. Con San Giuliano, “riformista dall’alto” ( Io sono scettico, ma ciò nonostante ho una specie di culto per la Sinistra [che] per me vuol dire democrazia e progresso, ed io sono per convinzione profonda, democratico e progressista, benché molti non ci credono, dal Diario, 1892), Catania si offre come un grande cantiere grazie al quale dare occupazione a quegli operai che infittiscono speranzosi e minacciosi le fila del movimento di De Felice, pericoloso “riformista dal basso”.

San Giuliano, autodefinitosi "socialista", ha un’intuizione che poi sarà ripresa quale elemento distintivo di buona amministrazione cittadina da De Felice sindaco (dal 1902, Antonino di San Giuliano, deputato parlamentare, viaggia in quegli anni per l'Albania e l'area adriatica dei Balcani avendo come meta il Ministero degli Esteri che avrà nel 1904): la municipalizzazione della panificazione che avrebbe dovuto tenere basso il prezzo dell’elemento base e irrinunciabile di una alimentazione povera, della povera gente sedotta dalla sirene che militavano dalle parti del defelicianesimo. 
De Felice nella guerra di Libia, orchestrata da San Giuliano ad alleggerimento del sovraccarico demografico meridionale e in difesa degli interessi economici del Banco di Roma, dell’Ansaldo e della Fiat, si schiererà a favore dell’impresa anti-turca che dava l’opportunità alla Sicilia e ai suoi porti di divenire il crocevia dei commerci dell’area mediterranea.

Provenivano da storie diverse, opposte, l’aristocratico marchese, ministro degli Esteri, e il proletario alfabetizzato De Felice: ma avevano l’identico progetto e di gestione municipale, ambedue keynesiani ante litteram, e di collocamento dell’Italia, con funzione egemone, nel Mediterraneo. Un unico progetto e lo stesso antagonista denigratore: Federico De Roberto de I viceré.

Il libro di Astuto composto di 8 capitoli di cui ben quattro sono dedicati alla questione dei Fasci, alla repressione, ai conseguenti processi dei leader. E qui ritorna - dai precedenti lavori di Astuto - e  riappare prepotentemente l’altro uomo straordinario della Sicilia politica post risorgimentale: Francesco Crispi. 

Ma cos’è stato il socialismo di De Felice, questa sorta di socialismo municipale teorizzato così: " Il municipio dovrà diventare il centro attivo di tutta la vita cittadina, il Consiglio comunale dirigerà le grandi imprese urbani, i cittadini ne saranno gli azionisti, il dividendo sarà rappresentato dalla migliorata igiene, dai più comodi e pronti servizi pubblici, dall'accresciuto benessere, dalla felicità dell'intera cittadinanza. Epperò, non soltanto deve provvedersi alle ville pubbliche, alle biblioteche e pinacoteche e musei, ma soprattutto agli acquedotti, all'illuminazione generale, alle tramvie ( che sono le carrozze di tutti), alle provviste sanitarie, all'apprestamento dei mezzi di alimentazione a buon mercato" (p. 216)?
Si può dire che sia stato una sorta di socialismo per decreto regio, un socialismo che usava l’amministrazione municipale per demonarchizzare dall’interno il paese, che usava i bisogni sociali come dispositivo lanciato contro il potere finanziario, contro gli ovvi criteri della contabilità comunale.Un socialismo che non doveva rendere il conto, pagare il conto!

 Nella strategia di questo socialismo, finanziariamente allegro, si ricorreva strategicamente all'indebitamento, ai mutui bancari che viaggiava su alte cifre di anno in anno sempre più crescenti. Ma il deficit spending o il socialismo a-spese-di-altri non fu misura solo dell’amministratore socialista se il San Giovanni Battista del keynesismo ante litteram fu il di San Giuliano nel 1879. Dagli anni settanta in poi, per tutto il lungo emiciclo di Kontradieff che copre il venticinquennio 1870-1896 gli amministratori a Catania spendono furiosamente alla cieca, anzi, a ben vedere. Sistematicamente facendo il gioco delle parti l’opposizione (qualsiasi opposizione) rimprovera alla Giunta in carica (qualsiasi Giunta) il disavanzo, lo sperpero del denaro, l'erronea compilazione dei bilanci, lo sfacelo dell'amministrazione daziaria,clientelismo e sovraoccupazione nell'impiego pubblico.

 Letta questa biografia che è anche la biografia del municipio cittadino resta una semplice certezza: le città meridionali non hanno mai avuto sufficienti risorse interne per sostenere i costi della civiltà delle buone maniere, della buona amministrazione. Crispi, De Felice San Giuliano sia pure con  motivazioni diverse sanno che Catania o la Sicilia o il Meridione o l’Italia intera debbono ritagliarsi un ruolo internazionale se non vogliono sprofondare nella marginalità. E, considerato l’interventismo nella prima guerra mondiale di De Felice e il consenso alla guerra di Libia di qualche anno prima, non si può non riflettere sul fatto che con Crispi e San Giuliano, il più dinamico e intelligente ministro degli esteri della storia d’Italia, la politica internazionale dell’Italia ebbe a prendere  una curvatura meridionale, riclassificando le gerarchie territoriali della nazione  che, nata in Piemonte e in Francia, con Camillo Benso di Cavour e Napoleone III di Francia, doveva essere riposizionato nel Mediterraneo, nei suoi porti, nelle sue città pena la marginalità contro cui lavorò De Felice, interventista "democratico" nella prima guerra mondiale e imperialista demografico nella guerra di Libia.