domenica 9 giugno 2013

Kaos o Epimeteo a Venezia, la mummia e i vermi

Interrare la laguna e pedonalizzare il mare e ai margini mette a coltura tante, tante melenzane. Che poi saranno colte!
Kaos ora e sempre!Kaos uno e Kaos due: sembrano due contenitori a scala diversa.La cosmetica del caos.O  questa contemporaneità(il contenitore dei rifiuti rovesciato sull'asfalto stradale) o quella colta dalla foto precedente (il contenitore dei consumatori dei residui del passato, innalzato sulla strada del mare). Questa è la contemporaneità:la contestualizzazione del disordine come la Tecnica devastante l'ordine presepiale, la cartolina turistica di Piazza San Marco, l'intrusione della Storia(le titaniche navi-crociera) nella post-storia di Venezia turistica (la mummificazione verminante del suo passato) e la contestazione del disordine, disordinare il disordine, la cosmetica del caos, l'armonia del caos, l'ubiquitarietà del kaos. Noi preferiamo, dei due, il kaos azzardato della nave crociera che si prende il caffè a Piazza San Marco! Con i pittori e i poeti futuristi Boccioni, Carrà Marinetti e altri, previggenti di ponti metallici (Calatrava) e opifici chiomati di fumo (le navi crociera),: "Noi ripudiamo l'antica Venezia, estenuata e sfatta da voluttà secolari, che noi pure amammo e possedemmo in un gran sogno nostalgico. Ripudiamo la Venezia dei forestieri, mercato di antiquari falsificatori, calamita dello snobismo e dell'imbecillità universali, letto sfondato da carovane di amanti, semicupio ingemmato per cortigiane cosmopolite. Noi futuristi vogliamo guarire questa tediosa città ammalata. Siano colmati i suoi più fetidi canali con le macerie dei suoi palazzi lebbrosi; la rigida geometria dei ponti metallici e degli opifici chiomati di fumo abolisca le curve cascanti delle vecchie architetture, e la divina Luce Elettrica liberi finalmente Venezia dal suo venale chiaro di luna da camera ammobigliata". Epperò, un equivoco va estirpato come fosse un callo mentale: i luddisti conservatori sono i difensori del logoro piazzasanmarchismo contro la novità delle architetture e dell'antropologia contemporanee. I talebani sono i critici d'arte a-quattro-un-soldo, i mummificati antagonisti della contemporaneità. E se Piazza San Marco fosse un cliché?  La nuova, la nostra architettura è quella inestricabilmente intrecciata tra paesaggio naturale - per natura s'intende anche l'architettura passata a fare parte dell'identità di questo o quel luogo (e solo in natura c'è identità fissa, solo la natura è identica a se stessa, come la melenzana o un qualsiasi ortaggio o una mummia o Piazza San Marco consegnata al cliché o al luogo comune nel tempo e nello spazio). Resta il fatto che la contestazione alla contemporaneità vien praticata nei paesi islamici con il kalashnikov della modernità da chi è escluso - oppure offeso nei suoi antichi valori - dalla modernità; a Venezia la contestazione della Storia - che entra nella post-Storia come attività turistica - è ingaggiata dagli esclusi o dai non beneficiari dell'attività turistica, unica forma di vita del disfacimento di un luogo, i vermi dei cadaveri. Da questa parte i talebani colti, anzi coltissimi (sono da leggere i testi dei grandi intellettuali integralisti dell'Islam), dall'altra la contemporaneità che convive problematicamente e intelligentemente con i resti del passato. Calatrava ha fatto il Ponte della Costituzione sul Canal Grande, il simbolo del coraggio e della intelligenza che fa convivere antico e moderno, che pone la contemporaneità come convivenza ( e conflitto) fra antico e moderno. Forse nel caso della nave crociera che emerge a piazza San Marco, in quell'oceano pieno di edifici e di luoghi comuni, c'è dell'altro forse:  l'inquietante natura della nave sottolineata ne Il nemico di tutti (Quodlibet 2010) di Daniel Heller-Roazen che cita Herman Melville di Benito Cereno: "[...]la casa come la nave - l'una per mezzo delle pareti e delle persiane, l'altra delle murate alte come bastioni - nascondono alla vista i loro interni fino all'ultimo; ma nel caso della nave c'è questo in più, che il vivente spettacolo da essa contenuto ha nella sua repentina e integrale apparizione, in contrasto con il vuoto oceano che la circonda, l'effetto quasi di un miraggio. La nave sembra irreale[...]".


I contestatori delle navi-crociera a Venezia: Prometeo, “quello che capisce prima” e si diede da fare per rubare il fuoco della Storia agli dei dell’Eternità immodificabile, ha un fratello, Epimeteo, “quello che capisce in ritardo”, il ritardato, il cretino, la melenzana. E sposò Pandora che aprirà il vaso, che partorirà tutti i malanni di cui fu capace la stupidità rancorosa, sovrumana, pre-umana di Zeus, punitore e invidioso di Prometeo! A Epimeteo non interessavano gli uomini, ma le bestie, “gli esseri privi di ragione”. Il testo greco del Protagora di Platone nella traduzione di Giovanni Reale recita: “orbene, Epimeteo che non era troppo sapiente, non si accorse di avere esaurite tutte le facoltà per gli animali”, a favore di tutti gli esseri privi di ragione”, τά άλογα, i senza logos, gli irragionevoli del creato, animali, frutta e verdura. Le melenzane: τά άλογα per eccellenza.

Di seguito un’altra traduzione e parziale commento tratti da Internet
Nel "Protagora", il noto sofista di Abdera illustra la propria tesi col mito di Epimeteo e Prometeo: Zeus, per render loro possibile vivere in società, ha distribuito aidos e dike a tutti gli uomini. Gli uomini hanno bisogno della cultura e dell'organizzazione politica perché sono creature prive di doti naturali, come artigli, denti e corna, immediatamente funzionali ai loro bisogni. Tutti partecipano di queste due virtù "politiche". Ma esse non vanno viste come connaturate all'uomo, bensì come qualcosa di sopravvenuto, qualcosa che è stato trasmesso in maniera consapevole, e non semplicemente attribuito in un processo cieco, "epimeteico", del quale si può render conto soltanto ex post: per questo è possibile insegnare aidos e dike agli uomini, mentre non si può "insegnare" a un toro ad avere corna e zoccoli. 
Ci fu un tempo in cui esistevano gli dei, ma non le stirpi mortali. Quando giunse anche per queste il momento fatale della nascita, gli dei le plasmarono nel cuore della terra, mescolando terra, fuoco e tutto ciò che si amalgama con terra e fuoco. Quando le stirpi mortali stavano per venire alla luce, gli dei ordinarono a Prometeo e a Epimeteo di dare con misura e distribuire in modo opportuno a ciascuno le facoltà naturali. Epimeteo chiese a Prometeo di poter fare da solo la distribuzione: "Dopo che avrò distribuito - disse - tu controllerai". Così, persuaso Prometeo, iniziò a distribuire. Nella distribuzione, ad alcuni dava forza senza velocità, mentre donava velocità ai più deboli; alcuni forniva di armi, mentre per altri, privi di difese naturali, escogitava diversi espedienti per la sopravvivenza. [321] Ad esempio, agli esseri di piccole dimensioni forniva una possibilità di fuga attraverso il volo o una dimora sotterranea; a quelli di grandi dimensioni, invece, assegnava proprio la grandezza come mezzo di salvezza. Secondo questo stesso criterio distribuiva tutto il resto, con equilibrio. Escogitava mezzi di salvezza in modo tale che nessuna specie potesse estinguersi. Procurò agli esseri viventi possibilità di fuga dalle reciproche minacce e poi escogitò per loro facili espedienti contro le intemperie stagionali che provengono da Zeus. Li avvolse, infatti, di folti peli e di dure pelli, per difenderli dal freddo e dal caldo eccessivo. Peli e pelli costituivano inoltre una naturale coperta per ciascuno, al momento di andare a dormire. Sotto i piedi di alcuni mise poi zoccoli, sotto altri unghie e pelli dure e prive di sangue. In seguito procurò agli animali vari tipi di nutrimento, per alcuni erba, per altri frutti degli alberi, per altri radici. Alcuni fece in modo che si nutrissero di altri animali: concesse loro, però, scarsa prolificità, che diede invece in abbondanza alle loro prede, offrendo così un mezzo di sopravvivenza alla specie. Ma Epimeteo non si rivelò bravo fino in fondo: senza accorgersene aveva consumato tutte le facoltà per gli esseri privi di ragione. Il genere umano era rimasto dunque senza mezzi, e lui non sapeva cosa fare. In quel momento giunse Prometeo per controllare la distribuzione, e vide gli altri esseri viventi forniti di tutto il necessario, mentre l’uomo era nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi. Intanto era giunto il giorno fatale, in cui anche l’uomo doveva venire alla luce. Allora Prometeo, non sapendo quale mezzo di salvezza procurare all’uomo, rubò a Efesto e ad Atena la perizia tecnica, insieme al fuoco - infatti era impossibile per chiunque ottenerla o usarla senza fuoco - e li donò all’uomo. All’uomo fu concessa in tal modo la perizia tecnica necessaria per la vita, ma non la virtù politica. [322] Questa si trovava presso Zeus, e a Prometeo non era più possibile accedere all’Acropoli, la dimora di Zeus, protetta da temibili guardie. Entrò allora di nascosto nella casa comune di Atena ed Efesto, dove i due lavoravano insieme. Rubò quindi la scienza del fuoco di Efesto e la perizia tecnica di Atena e le donò all’uomo. Da questo dono derivò all’uomo abbondanza di risorse per la vita, ma, come si narra, in seguito la pena del furto colpì Prometeo, per colpa di Epimeteo. Allorché l’uomo divenne partecipe della sorte divina, in primo luogo, per la parentela con gli dei, unico fra gli esseri viventi, cominciò a credere in loro, e innalzò altari e statue di dei. Poi subito, attraverso la tecnica, articolò la voce con parole, e inventò case, vestiti, calzari, giacigli e l’agricoltura. Con questi mezzi in origine gli uomini vivevano sparsi qua e là, non c’erano città; perciò erano preda di animali selvatici, essendo in tutto più deboli di loro. La perizia pratica era di aiuto sufficiente per procurarsi il cibo, ma era inadeguata alla lotta contro le belve (infatti gli uomini non possedevano ancora l’arte politica, che comprende anche quella bellica). Cercarono allora di unirsi e di salvarsi costruendo città; ogni volta che stavano insieme, però, commettevano ingiustizie gli uni contro gli altri, non conoscendo ancora la politica; perciò, disperdendosi di nuovo, morivano. Zeus dunque, temendo che la nostra specie si estinguesse del tutto, inviò Ermes per portare agli uomini rispetto e giustizia, affinché fossero fondamenti dell’ordine delle città e vincoli d’amicizia. Ermes chiese a Zeus in quale modo dovesse distribuire rispetto e giustizia agli uomini: «Devo distribuirli come sono state distribuite le arti? Per queste, infatti, ci si è regolati così: se uno solo conosce la medicina, basta per molti che non la conoscono, e questo vale anche per gli altri artigiani. Mi devo regolare allo stesso modo per rispetto e giustizia, o posso distribuirli a tutti gli uomini?« «A tutti - rispose Zeus - e tutti ne siano partecipi; infatti non esisterebbero città, se pochi fossero partecipi di rispetto e giustizia, come succede per le arti. Istituisci inoltre a nome mio una legge in base alla quale si uccida, come peste della città, chi non sia partecipe di rispetto e giustizia». [323] Per questo motivo, Socrate, gli Ateniesi e tutti gli altri, quando si discute di architettura o di qualche altra attività artigianale, ritengono che spetti a pochi la facoltà di dare pareri e non tollerano, come tu dici - naturalmente, dico io - se qualche profano vuole intromettersi. Quando invece deliberano sulla virtù politica - che deve basarsi tutta su giustizia e saggezza - ascoltano il parere di chiunque, convinti che tutti siano partecipi di questa virtù, altrimenti non ci sarebbero città. Questa è la spiegazione, Socrate. Ti dimostro che non ti sto ingannando: eccoti un’ulteriore prova di come in realtà gli uomini ritengano che la giustizia e gli altri aspetti della virtù politica spettino a tutti. Si tratta di questo. Riguardo alle altre arti, come tu dici, se qualcuno afferma di essere un buon auleta o esperto in qualcos'altro e poi dimostri di non esserlo, viene deriso e disprezzato; i familiari, accostandosi a lui, lo rimproverano come se fosse pazzo. Riguardo alla giustizia, invece, e agli altri aspetti della virtù politica, quand’anche si sappia che qualcuno è ingiusto, se costui spontaneamente, a suo danno, lo ammette pubblicamente, ciò che nell’altra situazione ritenevano fosse saggezza - dire la verità - in questo caso la considerano una follia: dicono che è necessario che tutti diano l’impressione di essere giusti, che lo siano o no, e che è pazzo chi non finge di essere giusto. Secondo loro è inevitabile che ognuno in qualche modo sia partecipe della giustizia, oppure non appartiene al genere umano. Dunque gli uomini accettano che chiunque deliberi riguardo alla virtù politica, poiché ritengono che ognuno ne sia partecipe. Ora tenterò di dimostrarti che essi pensano che questa virtù non derivi né dalla natura né dal caso, ma che sia frutto di insegnamento e di impegno in colui nel quale sia presente. Nessuno disprezza né rimprovera né ammaestra né punisce, affinché cambino, coloro che hanno difetti che, secondo gli uomini, derivano dalla natura o dal caso. Tutti provano compassione verso queste persone: chi è così folle da voler punire persone brutte, piccole, deboli? Infatti, io credo, si sa che le caratteristiche degli uomini derivano dalla natura o dal caso, sia le buone qualità, sia i vizi contrari a queste. Se invece qualcuno non possiede quelle qualità che si sviluppano negli uomini con lo studio, l’esercizio, l’insegnamento, mentre ha i vizi opposti, viene biasimato, punito, rimproverato".


(Platone, Protagora, 320 C - 324 A)

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