mercoledì 21 agosto 2013

Il déjà vu non è un atto mancato, incompiuto freudiano ma il tempo storico della melenzana.













Pro-memoria per la melenzana, inviato da Friedrich Nietzsche, Aurora, Libro quinto, 473: la patria identitaria è il luogo "dove si deve costruire la propria casa. Se nella solitudine ti senti grande e fecondo, stare in società ti renderà piccolo e sterile: e viceversa. Possente mansuetudine, come quella di un padre: - laddove ti senti in questa disposizione d'animo, getta le fondamenta della tua casa, sia nel tumulto, sia nella solitudine. Ubi pater sum, ibi patria".

C'è un'altra identità (e un'altra patria): l’identità del cane costruita sulla salvaguardia del territorio fisico, marcato dal piscio. L’essere siciliano: l’Etna, Monte Pellegrino, le arance, il mare: “L’importanza esagerata che si dà al fatto di trovarsi in un luogo piuttosto che in un altro risale all'età delle orde di nomadi, quando bisognava tener bene a mente dov'erano i terreni a pascolo" (Robert Musil, L'uomo senza qualità).

 L'identità fondata o fissata sul territorio è la garanzia della commestibilità, è la denominazione d'origine controllata degli ortaggi e dei suoi derivati, della frutta, delle carni animali e dei pesci. L'uomo è anche un artificio, una costruzione continua, non "è un essere fisso [...], non ha una natura definita e vincolante;[...] la sua ininterrotta trasformazione storica rende impossibile determinare che cosa in lui vada considerato 'naturale' e che cosa 'innaturale'[...]. Mentre, a quanto sembra, ogni genere o specie animale porta in sé il suo schema fisso di vita o di società[...], l'uomo porta in sé soltanto una socialità generica, per così dire un assegno in bianco, che egli deve riempire successivamente in qualche modo se vuole funzionare". Nel mondo costorico dell'uomo e della macchina, o meglio dell'animale-uomo e dell'animale-macchina, l'uomo fisso come una specie ortiva sarebbe l'uomo antiquato (che è il titolo delle acute e, a volte, contraddittorie considerazioni sull'anima nell'epoca della seconda rivoluzione industriale e dell'avvento della bomba atomica del saggio di Guenther Anders edito dalla Bollati Boringhieri 2010, p. 41, 289,290. A pagina 3 del secondo volume de L'uomo antiquato. La terza rivoluzione industriale della Bollati Boringhieri del 1992 si legge. "[...] la storia ora si svolge nella condizione del mondo chiamata tecnica; o meglio la tecnica è ormai diventata il soggetto della storia con la quale noi siamo soltanto costorici").

L'identità (di passato e futuro) vuole il futuro come il passato, identico l'uno all'altro, e ciascuno  in tutti suoi momenti identico. E' il déjà vu del Sonetto 123 di William Shakespeare commentato da Remo Bodei in un portentoso saggio di filosofia poetica. Da un verso del componimento poetico dell'immenso Shakespeare  trae Bodei il suggerimento per il titolo, Piramidi di tempo.Storie e teoria del dèjà vu (Il Mulino 2006):
 "No, Time, thou shalt not boast that I do change!
Thy pyramids built up with newer might
To me are nothing novel, nothing strange;
They are but dressings of a former sight.
Our dates are brief, and therefore we admire
What thou dost foist upon us that is old.
And rather make them born to our desire
Than think that we before have heard them old.
Thy registers and thee I both defy,
Not wondering at the present nor the past;
For thy records and wahat we see doth lie,
Made more or less by the continual haste.
      This I do vow, and this shall ever be:
       I will be true despite thy scythe and thee"
(traduzione di Bodei:"No, Tempo, tu non ti vanterai che io muti!Le tue piramidi costruite con rinnovata potenza non sono per me nulla di nuovo, nulla di strano:soltanto rivestimenti di uno spettacolo già visto. I nostri giorni sono brevi, e perciò guardiamo stupiti quello che ci propini già vecchio, e lo crediamo nato per il nostro desiderio invece di pensare di averlo già udito raccontare. I tuoi registri e te insieme io sfido, non meravigliandomi del presente né del passato, perché i tuoi annali e ciò che vediamo mentono, resi più grandi o più piccoli dalla tua continua fretta. Di questo faccio voto, e questo sarà sempre: io resterò costante, malgrado te e la tua falce").

Nulla di nuovo, ogni cosa ribadisce la costanza del suo profilo: il dèjà vu come storia e storiografia della melenzana o dell'uomo trasformato in ortaggio, ostaggio di ortaggio, per l'incapacità di dominare l'"accelerazione del tempo storico, che restringe in età moderna l'area dell'esperienza e abbassa simultaneamente l'orizzonte dell'attesa. In altre parole, per effetto dell'accresciuta velocità con cui gli eventi si susseguono, l'esperienza - ossia il passato significativo, quello meritevole dì'essere conservato - diventa sempre più povera e obsoleta". Passato povero, futuro incerto: la qualità del tempo è identica, quella dello squallore!

Nulla di nuovo, un'antica malattia: pensavamo bonariamente sulla scorta di Freud che con il già veduto "viene toccato qualcosa che si è già vissuto una volta, soltanto che questo qualcosa non può essere ricordato coscientemente perché cosciente non è mai stato[...], una fantasia inconscia" (Psicopatologia della vita quotidiana, Boringhieri 1970, vol. 4, p.286)!

Nulla di nuovo, il girasole di Benjamin: "Come i fiori volgono il capo verso il sole,così, in forza di un eliotropismo segreto, tutto ciò che è stato tende a volgersi verso il sole che sta salendo nel cielo della storia[...]. La vera immagine del passato passa di sfuggita. Solo nell'immagine, che balena una volta per tutte nell'attimo della sua conoscibilità, si lascia fissare il passato[...]un'immagine irrevocabile del passato che rischia di svanire ad ogni presente che non si riconosca significato, indicato in esso"(Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi 1995, p. 77

Nulla di nuovo,la nostalgia leninista del passato comunitario, dell'obscina rurale.

Un girasole non è una melenzana che abbia un capo da volgere verso il sole!

Ma a Ulisse che le chiede "chi sei?", la Donna risponde. "Chiedi al cerchio dove inizia? Alla sfera dove ha il sopra[...] Io sono il confine di ogni andare". L'identità è come prevedere e predeterminare il futuro, vedere più in là degli dèi:"E tu vuoi vedere più in là degli dèi? Sarebbe come rivoltare il cielo per farlo specchiare in un altro cielo[...].Tu che sei così saggio, Ulisse,dovresti saperlo:nessun disegno è compiuto prima che la tinta sia asciutta".(Sergio Claudio  Perroni, Nel ventre, Bompiani 2013). Quanto precede vale quel che segue di Ernst Jünger, Eumeswil“Precisare ciò che è vago, definire sempre più nettamente l’indefinito, è questo il compito di ogni evoluzione, di ogni fatica esplicata nel tempo. In tal modo si rivelano, nel corso degli anni, sempre più distinte le fisionomie e i caratteri […]. Ciò che è vago, indefinito, anche nelle scoperte, non è falso. Può essere errato, ma non necessariamente insincero. Un’asserzione – vaga ma non falsa – può venir chiarita frase per frase, finché la faccenda si assesta e si centralizza".

L'ideale ( o imperativo) umano della coerenza è il reale inorganico della pietra:un fastidio persino per don Abbondio che se lo scostava dal cammino, spingendolo ai lati della strada ("buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero").

Se José Ortega y Gasset  (Historia come sistema) aveva letto Manzoni: "Una pietra è già quel che una pietra è. Tutti suoi cambiamenti e mutamenti saranno, per i secoli dei secoli, combinazioni determinate dalla sua struttura fondamentale. La pietra non sarà mai qualcosa di nuovo e di diverso. Tale struttura, fissa e data una volta per tutte, è ciò cui ci riferiamo di solito quando parliamo dell'essere di una cosa. Esprimiamo lo stesso concetto anche con un altro nome: natura[...]. Ebbene, ogni entità, il cui essere consiste nell'essere identico, possioede in modo evidente e immediato tutto ciò di cui ha bisogno per essere. Ecco perché l'essere identico è l'essere che sta sotto o sostanza, l'essere che basta a se stesso, l'essere sufficiente. Questo è la cosa. Lo spirito non è però una cosa [...] L'uomo non è una cosa, ma un dramma [...]. Essere libero significa mancare costitutivamente d'identità, non essere inscritti in un essere dato, poter essere altro da ciò che si era e non potersi stabilire una volta per tutte in un essere determinato. L'unica cosa che è fissa e stabile nell'essere libero è la costitutiva instabilità".  E ancora: "[...] l'unica cosa che l'uomo possiede come essere, come natura, è ciò che è stato. Il passato è per l'uomo il momento d'identità, quel che lo rende cosa, ciò che è inesorabile e fatale. Ma, se così è, se l'eleaticità dell'uomo è quella relativa a ciò che è stato, il suo autentico essere quello  che in effetti è - e non solo è stato -, è altro dal passato, consiste esattamente ed essenzialmente nell'essere ciò che non è stato, in un essere non eleatico[...]. Non diciamo, quindi che l'uomo è, ma che vive". La mulinciana non diviene, non vive. E' noiosa, banale e insignificante come il principio di identità. A=A.


martedì 6 agosto 2013

“Dove fioriscono - se fioriscono - le melenzane…”. Pipa, pallone e cocks!




“Dove fioriscono - se fioriscono - le melenzane... *

Tutto il Catania minuto per minuto dalle origini al 2011 (Geo edizioni 2011) di Antonio Buemi, Carlo Fontanelli, Roberto Quartarone, Alessandro Russo, Filippo Solarino, è un saggio storiografico, una raccolta di documenti d’archivio che imprimono il “marchio di storicità” al racconto degli autori, cinque ragazzi che fanno venire in mente i vecchi cantastorie con davanti un retablo e la bacchetta indicativa. Illustrato da fotografie, ovunque reperite,  vi si snoda il lungo arco temporale assai significativo della storia del paese e di questa nostra città dell’Elefante. Intendiamoci, il calcio è geertzianamente deep play, "un gioco profondo", "un fatto sociale totale", un luogo - per dirla con Alessandro Dal Lago - ove "un numero enorme di attori sociali investe passioni ed emozioni, proietta più o meno consapevolmente immagini del mondo [...] riorganizza stabilmente o periodicamente il significato di una parte non trascurabile della propria esistenza" (Descrizione di una battaglia, Il Mulino 1990, p. 25).

C’è chi come Simon Martin (Calcio e fascismo, Mondadori 2004) ha detto, a ragione, che il calcio è un gioco fascista, lo sport politicamente fascista per eccellenza e non solo per l’interesse che il regime ebbe ad alimentarlo nel periodo tra le due guerre, ma anche e principalmente per la gestione di quel fenomeno indotto di una politica che cerca il consenso  e che la sociologia definisce “nazionalizzazione delle masse”. Inderogabile necessità in un paese che aveva avuto come elettori al momento dell’unificazione solo l’1,8%  della popolazione (ma con lo 0,9% dei votanti alle elezioni del gennaio del 1861) e che alle politiche del maggio del 1921, precedenti la “marcia su Roma” dell’ottobre del 1922, vide i nostri  11.457.164 elettori (il 31% dei 37.43 8.000 abitanti) andare  in 6.701.496, dimezzati quasi, al voto.
L’attaccamento alla nazione, la lealtà del cittadino italiano a favore delle istituzioni erano (erano?) un cruccio a denunciare il rimarchevole deficit di consenso, sorretto anche da un limitato diritto al voto di cui si rese responsabile la cultura politica e censitaria del notabilato post- unitario liberale  e, ovviamente, fascista, poi. Il calcio fu “l’invenzione” fascista che esaltò la politica della diffusione capillare degli stadi quali  “teatri di massa” (contro o a complemento dei teatri dell’Ottocento borghese filodrammatico e musicofilo) dove rigenerare il popolo fisicamente,  moralmente e spiritualmente (ma di allargare il diritto di voto non se ne parlava!)  e dove nutrire o creare il senso dell’identità collettiva. Il calcio come forma, appunto!, di devozione laica che prendesse il posto delle sagre paesane e delle feste religiose. Lo stadio, quindi, teatro e Chiesa: quello di Cibali fu inizialmente intitolato all'intrepido aviere, Italo Balbo, abbattuto nei cieli libici dal fuoco “amico”, e infine, ad Angelo Massimino (1927-1993) a cui il giornalismo semianalfabeta soleva addebitare il fatto di non essere un collega di Noam Chomsky (non era un linguista e non ne avrebbe avuto il tempo e non ne sentivamo il bisogno a petto anche degli strafalcioni concettuali e lessicali di insigni intellettuali radunati da MarcoTravaglio in un sapido libretto mondadoriano del 1993, Stupidario del calcio e altri sport). Gli stessi colori della casacca sono “fascisti”, un omaggio a Leandro Arpinati (un lavapiatti, apprendista elettricista, “lampista” nelle ferrovie dello Stato, anarchico,  infine, fascista e podestà di Bologna nel 1929, già presidente della “Federazione Italiana di Atletica Leggera” dal 1925 e, poi, presidente del CONI dal 1931 al 1933) e alla sua Bologna i colori della cui divisa erano e sono il rosso e blu. La prima casacca catanese  - come si vede dalle illustrazioni testuali - era verde a bande orizzontali.

 Massimino, un muratore che con duro lavoro aveva fatto fortuna in Argentina, ritornò a Catania  per proseguire l’attività edilizia. Nel 1969 fece il suo “sessantotto” nella storia del calcio a Catania, assumendo la presidenza del club etneo, introducendovi spirito imprenditoriale assieme a un personalismo dirompente: fu il primo imprenditore moderno del “Catania Calcio” a trattare lo spettacolo calcistico come un’impresa su cui fare investimenti economici di capitali privati, tirati fuori dalla  tasca propria, fu il primo a dismettere l’uso spudoratamente e costitutivamente politico del football a Catania, ghiotto boccone per tutti i politici (antifascisti, postfascisti, ma calcisticamente fascisti) che governarono la città fino all’anno (1969) in cui Massimino assunse la presidenza. 

Negli ultimi anni (fino a quando?) il Catania Calcio ha acquisito un profilo alto nel panorama del football nazionale. Dei giocatori mitici, di Vavassori,  di Quoiani , di Michelotti, di Prenna,di  Bonfanti, di Ghiandi, di Bassetti, di Limena, di Grani, di Cinesinho, di Calvanese, di Cantarutti e di quelli, tanti, valorosi che non citiamo e di quelli ancora in attività non se ne parla nella presentazione di questo volume appassionato di enciclopedica fattura e di puntigliosi aneddoti. Quei miti hanno giocato e giocano. Hanno svolto e svolgono un altro gioco: quello di interpretare i sogni, ingenui fino all’oltranza e all’irresponsabilità a volte, ma sempre frequentati dagli antichi eroi dell’Odissea o dell’Iliade o del ciclo carolingio dei Pupi Siciliani, di Rinaldo e Orlando.

Con dei paradossi: la squadra di calcio, i colori della divisa, indossata da calciatori provenienti da tutto il mondo, luccicano di abbagliante identità locale, localistica,  mentre il mondo si fa sempre più transnazionale, con identità ossimoricamente plurime, da naufrago, da disperso, da giramondo transnazionale (uno nasce in un posto, lavora in un altro, passa i week-end in un altro posto ancora, ha famiglia in un posto diverso dagli altri precedentemente elencati). Siamo uomini di mondo, transanazionalisti: “il transnazionalismo è un modo di vivere che lega assieme famiglia lavoro e consapevolezza di avere più di un territorio nazionale” scrive nella sua storia periegetica del "naufragio" secolare italiano, Emigranti , Donna R. Garbaccia (Einaudi 2000). 

Eravamo uomini (homo/humus) perché nati dall'argilla biblica, dalla terra, in un “paese”, in campagna, in country, nei quartieri che si fanno la guerra tutt'ora a Siena, nel Palio ad esempio. Sembra preistoria dell’appartenenza  o greve strumentalizzazione politica il tifo sportivo del calcio. Ma c’è ancora chi reclama o difende, giustamente, lo ius soli: altro paradosso per i transnazionalisti! Forza Catania e Forza Italia! 
"Forza Italia" appunto!

Il partito degli "Azzurri di "Forza Italia" è il protagonista di un libro sul calcio (Alfio Caruso, Un secolo azzurro. Cent'anni d'Italia raccontati dalla nazionale di calcio, Longanesi 2013) che non parla di calcio ma di "combattimenti di galli", cockfight, (i polli stanno a Bali come i calciatori in Italia!)  nel solco degli studi di Clifford Geertz e della sua antropologia culturale per cui un combattimento di galli a Balì non è un passatempo insensato ma un "gioco profondo" e un pallone di calcio non è un sfera di "cuoio vuota all'interno e gonfiata ad aria sufficientemente perché possa rimbalzare e usata per un gioco a squadre di 11 contro 11". Mussolini nel 1938,vinto il campionato mondiale di calcio, pensò da ingenuo precorritore geertziano che quel primato pedatorio indicasse un altro primato mondiale, quello geopolitico, e si preparò alla guerra. Berlusconi pensò - a mezzo secolo di distanza - che il suo primato politico dovesse essere costruito su quello calcistico e fondò "Forza Italia" e rilanciò la squadra del Milan. Con Mussolini il calcio è stato un oppio delirante, per Berlusconi una pozione magica, un oppio... di ricino da fare ingollare al Parlamento per salvare il suo impero economico, "satellitare". Il primo che non capiva nulla di football è stato "usato" dal calcio per nazionalizzare le masse e darsi da fare per una guerra mondiale, il secondo ha "usato" il calcio per ri-nazionalizzare le masse a favore dei suoi interessi personali per una notorietà mondiale. Questa è una delle tesi del testo di antropologia culturale condotto da Fredi Caruso sul modello di una ricerca storiografica: un libro di storia scritto da un giornalista che vede o annichilisce la Storia di presunzione accademica attraverso la Cronaca, nella larvalità essenziale dei singoli spogli, ma "astuti" eventi (invero, un evento "astuto", rappresentato con astuzia, con intelligenza, con un senso è un fatto). Da qui ne deriva la specificità del racconto, centrato su episodi, straordinari e perfidamente gustosi, disseminati per tutte le cinquecento quaranta pagine di cui è composto il libro. Episodi che valgono il costo del libro: alla vigilia della partenza per la sede di uno dei campionati mondiali, gli "Azzurri" sono ricevuti dal Papa che porge la mano per farsi baciare l'anello. Il terzo  portiere, Casari, ultrastrafottendesone ingenuamente del cerimoniale, stringe la mano di Pio XII e dice: "Piacere, Casari"!). E prima, quando Felice Levratto, centravanti-ala sinistra, con una cannonata abbattè il portiere E'tienne Bausch, stordito, con il sangue alla bocca: "secondi di paura, Levratto è il più disperato di tutti: in genovese ripete U l'ho matou (l'ho ammazzato). La situazione è meno angosciante. Bausch aveva la lingua tra i denti, per il contraccolpo ne ha avuto una parte tagliata. Sommariamente medicato, torna tra i pali. Dopo cinque minuti si ritrova di fronte Levratto. Con un balzo si allontana dalla porta, si accuccia per terra, si copre il volto con le mani. Levratto si mette a ridere, tira fuori dalla porta sguarnita tra gli applausi del pubblico". Con battute che valgono più degli aforismi di pensatori di professione, e Gianni Agnelli che assume Luciano Moggi perché "lo stalliere del re deve conoscere tutti i ladri di cavalli", e Giampiero Boniperti per il quale "vincere non è importante, è l'unica cosa che conta". E il marcamento a zona, tutti attaccanti e tutti difensori, che definisce nella desolazione delle ideologie la Destra "per la ridondanza  dei comportamenti, per gli eccessi, gli sprechi di qualità che a volte comporta", contro la Sinistra catenacciara e contropiedistica, la chance dei poveri, " di chi è stato meno dotato dalla natura, per la rinuncia alla spettacolarità in funzione del risultato". E l'aereo di Pertini che all'insaputa del Presidente della Repubblica trasporta oltre trecento mila dollari in contanti per "dribblare gli agenti della dogana, le norme sull'importazione di valuta, le tasse da versare al fisco". Non è un pallone. Non era una pipa. Se n'era accorto Magritte! (Ma oltre l'antropologia della ricchezza simbolica quanta malizia si nasconde nel cockfight, sapendo che cock è termine popolare per indicare l'attrezzo sessuale maschile?).

                                                            



*E’ una parafrasi della famigerata battuta di  Johann Wolfgang von Goethe (wo die Zitronen blühm : “là dove fioriscono i limoni”) del Viaggio in Italia. Famigerata più che famosa, perché - a sua insaputa - il grande intellettuale tedesco ha contribuito alla creazione dello stereotipo della Sicilia, regione a statuto antropologico, anzi, botanico, speciale. E’ noto che Goethe venne nell’isola per tante ragioni, compresa quella forse determinante, relativa alla ricerca della pianta primigenia, la Urpflanze. Non era la melenzana  - ma si resta sul terreno, appunto, della botanica - che venne introdotta in Sicilia agli albori dell’età moderna. Nulla di più estranei al mondo vegetale della Sicilia sono l'arancia o il limone o il fico ... d'India, appunto, o la melenzana. Identità ortive e, per sovrammercato,importate!

lunedì 5 agosto 2013

Salutamu, Gianluca!








Uno si trova a Ferrara e che fa? Si perde tra i dipinti e gli enigmi di Palazzo Schifanoia. E, melanconico di genialità male impiegata, bulimico di sensazioni e visioni (altro che al cinema: Max Weber i cercatori di visioni del mondo, qui, doveva mandarli!), si fa scorpacciate di Aby Warburg e dei warburghiani per trovarsi tra le mani il bel saggio, "dilettantique",* con un bellissimo titolo, rubacchiato con spavalda onestà a Baudelaire e a Benjamin,di Marco Bertozzi, Il detective melanconico  (Feltrinelli 2008). Un manualetto di citazioni strepitose - ed è un'arte geniale quella delle citazioni - come le seguenti, tratte da Aby Warburg :"La sostituzione della causalità mitologica con quella tecnologica elimina lo sgomento provato dall'uomo primitivo. Ma non ci sentiamo di asserire senz'altro che liberando l'uomo dalla visione mitologica lo si possa davvero aiutare a dare risposte adeguate agli enigmi dell'esistenza[...]. L'evolversi della civiltà verso l'era della razionalità sarà contrassegnato [...] dal graduale trascolorare della grezza, concreta pienezza vitale in astrazione matematica". Oppure: [...] la civiltà delle macchine distrugge ciò che la scienza naturale derivata dal mito aveva faticosamente conquistato: lo spazio per la preghiera, poi trasformatosi in spazio per il pensiero. Il moderno Prometeo e il moderno Icaro, Franklin e i fratelli Wright, inventori dell'aeroplano: sono loro quei funesti distruttori del senso della distanza che minacciano di far piombare il mondo nel caos. Il telefono e il telegrafo distruggono il cosmo. Il pensiero mitico e il pensiero simbolico nel loro sforzo per spiritualizzare il rapporto tra l'uomo e il mondo circostante, creano lo spazio per la preghiera o per il pensiero, che il contatto elettrico istantaneo uccide" (Warburg, 1923). Epperò, per de Santillana l'uscita dal Caos ci ha introdotto nella Storia, nel non-essere, nel divenire, nel Tempo abitato dai mostri demitizzati!

* "Il termine 'dilettantique' che si trova nel testo di Benjamin [Il viaggiatore solitario e il flaneur. Saggio su Bachofen, Il Melangolo 1998], è la fusione di 'dilettante' e 'scientifique".

L'autostrada di Annibale e delle melenzane, trasportate dai ricordi elefanteschi!










Si diceva che la storia - la storiografia, ovviamente - era inutile e dannosa. Poi si convenne che la storiografia è in correlazione negativa con la Storia (più sei fuori della Storia, più sei dentro la Storiografia, più non "fai" Storia, più produci storiografia, meno numerosi sono i personaggi storici, più affollato è il novero degli storiografi). Poi venne la post-Storia con la storiografia dei o per i turisti, dai luoghi della Storia alle cartoline-souvenir. Che la Storia dovesse servire a legittimare un imbroglio colossale quale la costruzione (1962-1974) della Salerno-Reggio Calabria ci viene raccontato da Leandra D'Antone (Senza pedaggio, Donzelli 2008) che indica nel socialista cosentino, Giacomo Mancini e nel democristiano cosentino, Riccardo Misasi, i due agenti storici dell'Autostrada del Sole (tracciato meridionale). E storiografo fu il geologo Giuseppe Rogliano. Non è un'autostrada, ma che importa? E' la strada percorsa da Annibale e dai suoi elefanti nella guerra dei Punici contro Roma per il predominio del Mediterraneo: "un itinerario romano che nel II secolo a.C. aveva messo in comunicazione Roma con la Campania, la Lucania, la Puglia, la Terra Brutia (la Calabria) e la Sicilia". Ma lasciamo la parola a Rogliano: " L'itinerario medesimo, sommamente celere, e così breve nel suo percorso, fu utilizzato da Annibale sia per il servizio logistico strettamente legato all'esercizio belligerante e sia per l'approvvigionamento dei mezzi strumentali e delle derrate alimentari da inviare a Cartagine. Attraverso la Vallata del Savuto, infatti, Annibale, uno dei più grandi strateghi e soprattutto progettisti di strade [...]". Ai tempi di Annibale non si pagava il pedaggio nelle sue elefan-strade o melenza-strade. E noi che siamo un concentrato di Storia, discendenti direttamente o obliquamente dalla famiglia Barca, siamo esentati. Tutto sul conto di Annibale!
 Le melenzane non pagano il pedaggio come lo zolfo nel raccontino di Sciascia:"Iu surfaru sugnu. Io sono zolfo. All'origine del detto è un mimo. A un carrettiere che trasporta zolfo dalla miniera a Porto Empedocle, un contadino chiede un passaggio. Per fargli posto sul carretto e a che il mulo non tiri peso più grave del solito, il carrettiere butta giù tre o quattro 'balate' (forme a piramide tronca del peso di una ventina di chili ciascuna). Ma a un certo punto, in salita, il mulo non ce la fa. Il carrettiere scende e dice al contadino di fare altrettanto. Ma il contadino tranquillamente: 'Iu surfaru sugnu!, io viaggio al posto dello zolfo. E' da presumere avesse pagato il passaggio, ché il carrettiere (violenti e rissosi erano i carrettieri) lo avrebbe - se no - preso a 'zuttati' ('zotta' era la frusta, di cordicella intrecciata e infiocchettata)". Noi meridionali  ... mulinciani, melenzane, siamo, e, se siciliani, ancor di più, perché godiamo di uno statuto ontologico speciale!

giovedì 1 agosto 2013

Gli interrati





Già dalla prima frase de Il Nomos della Terra di Carl Schmitt scopro una falsità a danno della mitologia. Si legge: "La terra è detta nel linguaggio mitico la madre del diritto". Eh,no! Nel mito la Terra, Gaia o Ghè, è la madre di un gigante, di un tizio, affetto da gigantismo, Anteo. Chi è Anteo? Figlio di Gea, la Terra, e di Poseidone, il Mare, re della Libia (Lixus un’isola di fronte a Larache, Marocco, ospitava il palazzo del “libico” re Anteo) si oppone a chi va, a chi cerca la sua strada, a chi traccia sentieri nel deserto civilizzandolo, a chi cerca limiti da oltrepassare. La mitologia lo consegna ai posteri come antagonista di Ercole nella sua penultima fatica volta al conseguimento dell’immortalità. Anteo si cibava di stranieri (i viandanti estranei e in conflitto con la sedentarietà), il cui cranio serviva da tegola per il tetto del tempio paterno. Un gigante di conformismo intellettuale, alimentato dai valori della Terra (la terra ortiva delle melenzane in serra o in campo aperto), da uno degli elementi della Natura che concorrono e condizionano il tempo degli uomini, la progettualità, la sensibilità, l’idealità, le passioni degli uomini. La forza del re-gigante è in sua madre, la Terra, la serra dei consolidati luoghi comuni che rivitalizza il figlio tutte le volte che viene buttato giù, a terra, tra le braccia della madre. Ercole lo solleverà, spossandolo ed annientandolo in un abbraccio serrato come un sillogismo di intelligenza.
La Terra è il vecchio, il mare è il nuovo, Ercole è il padre, Anteo è la Madre: figli del mondo ma antagonisti. Il brutto che possa toccare agli uomini è di vivere secondo valori geofisici, comunque ortivi, e peggio, se invertiti: un isolano si deforma nel continentale, il terraiolo naufraga in mare.
Anteo, quindi, tipo mitologico negativo: rappresenta il conformismo, l’immensa distesa desertica dei luoghi comuni che - come i deserti  - sono luoghi vuoti dove smarrirsi è la più ovvia delle cose, dove lo smarrimento  è il vero ed assoluto valore della desertificazione.
Ercole vuole guadagnare la strada per il mare a completamento di quelle fatiche che lo dovranno portare all'immortalità, alla sua sostanza, all'identificazione di ciò che lo farà essere perennemente Ercole: la conoscenza del suo destino, delle sue vocazioni, del suo essere compiuto, con il passato delle dodici fatiche alle spalle.
Da una parte la Terra, dall'altra il Mare, anzi l'Oceano (del Marocco atlantico) che di questo è figlio il Mediterraneo. 
Bisogna scegliere: o il padre o la madre, bisogna avere consapevolezza del modo dell'essere stati scelti. Noi Mediterranei, noi isolani siamo stati scelti dal Mare, ma torniamo autolesivamente verso la terra, alla mammella, al ciuccio della terra, come dei bambinoni, adulti nel corpo, ma infantili nell'anima, immelenzaniti.
La terra è fertile, dissodata, coltivata,scavata, reca "sul proprio saldo suolo recinzioni e delimitazioni, pietre di confine, mura, case e altri edifici[...]. Il diritto è terraneo e riferito alla terra[...]Il mare non ha carattere, nel significato originario del termine, che deriva dal greco (charassein), scavare, incidere, imprimere. Il mare è libero".
Di quella libertà, insopportabile alle melenzane, ci libererà l'Apocalisse: "ci sarà una nuova terra - dice San Giovanni, citato da Schmitt - purificata dal peccato[?] e su di essa non ci sarà più mare". 
Questa è una risorsa denegata, anzi è l’elemento della natura di fondazione antropologica per un'isola e - come scriveva in un’antica Historia Brittonum, Goffredo di Monmouth - ‘nessun dio può regnare su un’isola se non comanda anche sulle acque che la circondano”: Una realtà senza Dio, non ha essenza, è inessenziale, è spregevole, è sottosviluppata, appunto.


La nostra - dei mediterranei - sostanza sta a mare, in salo, insula. Da lì bisogna non ripartire, ma partire, per dare il mare al Mediterraneo.

P.S. A onor del vero,quattro anni dopo la pubblicazione del Nomos, Schmitt in Dialogo sul potere e in Dialogo sul nuovo spazio (1954) dirà altre cose sul mare e chiarirà "perché la rivoluzione industriale, con la sua tecnica scatenata, si associa con un'esistenza marittima. L'ordinamento terraneo, al cui centro sta la casa [Bau abitata dal Bauer, contadinoil melenzanaio, il coltivatore delle melenzane], di necessità ha con la tecnica un rapporto fondamentalmente diverso rispetto a una modalità di esistenza al cui centro si muove una nave. Un'assolutizzazione della tecnica e del progresso tecnico, nonché l'identificazione di progresso tecnico e crescita tout court, insomma tutto ciò che si può riassumere con la formula 'tecnica scatenata' si sviluppa soltanto con il presupposto, sul terreno propizio e nel clima di un'esistenza marittima. Seguendo la chiamata degli oceani che si stavano aprendo, e compiendo il passo verso un'esistenza marittima, l'isola Inghilterra diede una grandiosa risposta storica alla chiamata storica dell'èra delle scoperte. Ma al tempo stesso creò i presupposti della rivoluzione industriale, e diede inizio all'epoca di cui oggi sperimentiamo la problematicità" (C. Schmitt, Dialogo sul potere, Adelphi, 2012, pp. 78-79). Meglio problematico che interrato!