
“Dove fioriscono - se fioriscono - le melenzane... *
Tutto
il Catania minuto per minuto dalle origini al 2011 (Geo edizioni 2011) di
Antonio Buemi, Carlo Fontanelli, Roberto Quartarone, Alessandro Russo, Filippo
Solarino, è un saggio storiografico, una raccolta di documenti d’archivio che
imprimono il “marchio di storicità” al racconto degli autori, cinque ragazzi che
fanno venire in mente i vecchi cantastorie con davanti un retablo e la bacchetta indicativa. Illustrato da fotografie,
ovunque reperite, vi si snoda il lungo
arco temporale assai significativo della storia del paese e di questa nostra città
dell’Elefante. Intendiamoci, il calcio è geertzianamente deep play, "un gioco profondo", "un fatto sociale totale", un luogo - per dirla con Alessandro Dal Lago - ove "un numero enorme di attori sociali investe passioni ed emozioni, proietta più o meno consapevolmente immagini del mondo [...] riorganizza stabilmente o periodicamente il significato di una parte non trascurabile della propria esistenza" (Descrizione di una battaglia, Il Mulino 1990, p. 25).
C’è chi come Simon Martin (Calcio e fascismo, Mondadori 2004) ha detto, a ragione, che il calcio è un gioco fascista, lo sport politicamente fascista per eccellenza e non solo per l’interesse che il regime ebbe ad alimentarlo nel periodo tra le due guerre, ma anche e principalmente per la gestione di quel fenomeno indotto di una politica che cerca il consenso e che la sociologia definisce “nazionalizzazione delle masse”. Inderogabile necessità in un paese che aveva avuto come elettori al momento dell’unificazione solo l’1,8% della popolazione (ma con lo 0,9% dei votanti alle elezioni del gennaio del 1861) e che alle politiche del maggio del 1921, precedenti la “marcia su Roma” dell’ottobre del 1922, vide i nostri 11.457.164 elettori (il 31% dei 37.43 8.000 abitanti) andare in 6.701.496, dimezzati quasi, al voto.
L’attaccamento alla nazione, la lealtà del cittadino italiano a favore delle istituzioni erano (erano?) un cruccio a denunciare il rimarchevole deficit di consenso, sorretto anche da un limitato diritto al voto di cui si rese responsabile la cultura politica e censitaria del notabilato post- unitario liberale e, ovviamente, fascista, poi. Il calcio fu “l’invenzione” fascista che esaltò la politica della diffusione capillare degli stadi quali “teatri di massa” (contro o a complemento dei teatri dell’Ottocento borghese filodrammatico e musicofilo) dove rigenerare il popolo fisicamente, moralmente e spiritualmente (ma di allargare il diritto di voto non se ne parlava!) e dove nutrire o creare il senso dell’identità collettiva. Il calcio come forma, appunto!, di devozione laica che prendesse il posto delle sagre paesane e delle feste religiose. Lo stadio, quindi, teatro e Chiesa: quello di Cibali fu inizialmente intitolato all'intrepido aviere, Italo Balbo, abbattuto nei cieli libici dal fuoco “amico”, e infine, ad Angelo Massimino (1927-1993) a cui il giornalismo semianalfabeta soleva addebitare il fatto di non essere un collega di Noam Chomsky (non era un linguista e non ne avrebbe avuto il tempo e non ne sentivamo il bisogno a petto anche degli strafalcioni concettuali e lessicali di insigni intellettuali radunati da MarcoTravaglio in un sapido libretto mondadoriano del 1993, Stupidario del calcio e altri sport). Gli stessi colori della casacca sono “fascisti”, un omaggio a Leandro Arpinati (un lavapiatti, apprendista elettricista, “lampista” nelle ferrovie dello Stato, anarchico, infine, fascista e podestà di Bologna nel 1929, già presidente della “Federazione Italiana di Atletica Leggera” dal 1925 e, poi, presidente del CONI dal 1931 al 1933) e alla sua Bologna i colori della cui divisa erano e sono il rosso e blu. La prima casacca catanese - come si vede dalle illustrazioni testuali - era verde a bande orizzontali.
Massimino, un muratore che con duro lavoro aveva fatto fortuna in Argentina, ritornò a Catania per proseguire l’attività edilizia. Nel 1969 fece il suo “sessantotto” nella storia del calcio a Catania, assumendo la presidenza del club etneo, introducendovi spirito imprenditoriale assieme a un personalismo dirompente: fu il primo imprenditore moderno del “Catania Calcio” a trattare lo spettacolo calcistico come un’impresa su cui fare investimenti economici di capitali privati, tirati fuori dalla tasca propria, fu il primo a dismettere l’uso spudoratamente e costitutivamente politico del football a Catania, ghiotto boccone per tutti i politici (antifascisti, postfascisti, ma calcisticamente fascisti) che governarono la città fino all’anno (1969) in cui Massimino assunse la presidenza.
Negli ultimi anni (fino a quando?) il Catania Calcio ha acquisito un profilo alto nel panorama del football nazionale. Dei giocatori mitici, di Vavassori, di Quoiani , di Michelotti, di Prenna,di Bonfanti, di Ghiandi, di Bassetti, di Limena, di Grani, di Cinesinho, di Calvanese, di Cantarutti e di quelli, tanti, valorosi che non citiamo e di quelli ancora in attività non se ne parla nella presentazione di questo volume appassionato di enciclopedica fattura e di puntigliosi aneddoti. Quei miti hanno giocato e giocano. Hanno svolto e svolgono un altro gioco: quello di interpretare i sogni, ingenui fino all’oltranza e all’irresponsabilità a volte, ma sempre frequentati dagli antichi eroi dell’Odissea o dell’Iliade o del ciclo carolingio dei Pupi Siciliani, di Rinaldo e Orlando.
C’è chi come Simon Martin (Calcio e fascismo, Mondadori 2004) ha detto, a ragione, che il calcio è un gioco fascista, lo sport politicamente fascista per eccellenza e non solo per l’interesse che il regime ebbe ad alimentarlo nel periodo tra le due guerre, ma anche e principalmente per la gestione di quel fenomeno indotto di una politica che cerca il consenso e che la sociologia definisce “nazionalizzazione delle masse”. Inderogabile necessità in un paese che aveva avuto come elettori al momento dell’unificazione solo l’1,8% della popolazione (ma con lo 0,9% dei votanti alle elezioni del gennaio del 1861) e che alle politiche del maggio del 1921, precedenti la “marcia su Roma” dell’ottobre del 1922, vide i nostri 11.457.164 elettori (il 31% dei 37.43 8.000 abitanti) andare in 6.701.496, dimezzati quasi, al voto.
L’attaccamento alla nazione, la lealtà del cittadino italiano a favore delle istituzioni erano (erano?) un cruccio a denunciare il rimarchevole deficit di consenso, sorretto anche da un limitato diritto al voto di cui si rese responsabile la cultura politica e censitaria del notabilato post- unitario liberale e, ovviamente, fascista, poi. Il calcio fu “l’invenzione” fascista che esaltò la politica della diffusione capillare degli stadi quali “teatri di massa” (contro o a complemento dei teatri dell’Ottocento borghese filodrammatico e musicofilo) dove rigenerare il popolo fisicamente, moralmente e spiritualmente (ma di allargare il diritto di voto non se ne parlava!) e dove nutrire o creare il senso dell’identità collettiva. Il calcio come forma, appunto!, di devozione laica che prendesse il posto delle sagre paesane e delle feste religiose. Lo stadio, quindi, teatro e Chiesa: quello di Cibali fu inizialmente intitolato all'intrepido aviere, Italo Balbo, abbattuto nei cieli libici dal fuoco “amico”, e infine, ad Angelo Massimino (1927-1993) a cui il giornalismo semianalfabeta soleva addebitare il fatto di non essere un collega di Noam Chomsky (non era un linguista e non ne avrebbe avuto il tempo e non ne sentivamo il bisogno a petto anche degli strafalcioni concettuali e lessicali di insigni intellettuali radunati da MarcoTravaglio in un sapido libretto mondadoriano del 1993, Stupidario del calcio e altri sport). Gli stessi colori della casacca sono “fascisti”, un omaggio a Leandro Arpinati (un lavapiatti, apprendista elettricista, “lampista” nelle ferrovie dello Stato, anarchico, infine, fascista e podestà di Bologna nel 1929, già presidente della “Federazione Italiana di Atletica Leggera” dal 1925 e, poi, presidente del CONI dal 1931 al 1933) e alla sua Bologna i colori della cui divisa erano e sono il rosso e blu. La prima casacca catanese - come si vede dalle illustrazioni testuali - era verde a bande orizzontali.
Massimino, un muratore che con duro lavoro aveva fatto fortuna in Argentina, ritornò a Catania per proseguire l’attività edilizia. Nel 1969 fece il suo “sessantotto” nella storia del calcio a Catania, assumendo la presidenza del club etneo, introducendovi spirito imprenditoriale assieme a un personalismo dirompente: fu il primo imprenditore moderno del “Catania Calcio” a trattare lo spettacolo calcistico come un’impresa su cui fare investimenti economici di capitali privati, tirati fuori dalla tasca propria, fu il primo a dismettere l’uso spudoratamente e costitutivamente politico del football a Catania, ghiotto boccone per tutti i politici (antifascisti, postfascisti, ma calcisticamente fascisti) che governarono la città fino all’anno (1969) in cui Massimino assunse la presidenza.
Negli ultimi anni (fino a quando?) il Catania Calcio ha acquisito un profilo alto nel panorama del football nazionale. Dei giocatori mitici, di Vavassori, di Quoiani , di Michelotti, di Prenna,di Bonfanti, di Ghiandi, di Bassetti, di Limena, di Grani, di Cinesinho, di Calvanese, di Cantarutti e di quelli, tanti, valorosi che non citiamo e di quelli ancora in attività non se ne parla nella presentazione di questo volume appassionato di enciclopedica fattura e di puntigliosi aneddoti. Quei miti hanno giocato e giocano. Hanno svolto e svolgono un altro gioco: quello di interpretare i sogni, ingenui fino all’oltranza e all’irresponsabilità a volte, ma sempre frequentati dagli antichi eroi dell’Odissea o dell’Iliade o del ciclo carolingio dei Pupi Siciliani, di Rinaldo e Orlando.
Con dei paradossi: la squadra di calcio, i colori
della divisa, indossata da calciatori provenienti da tutto il mondo, luccicano
di abbagliante identità locale, localistica,
mentre il mondo si fa sempre più transnazionale, con identità ossimoricamente plurime, da naufrago, da disperso, da
giramondo transnazionale (uno nasce in un posto, lavora in un altro, passa i week-end in un
altro posto ancora, ha famiglia in un posto diverso dagli altri precedentemente
elencati). Siamo uomini di mondo, transanazionalisti: “il transnazionalismo è
un modo di vivere che lega assieme famiglia lavoro e consapevolezza di avere più
di un territorio nazionale” scrive nella sua storia periegetica del "naufragio" secolare italiano, Emigranti
, Donna R. Garbaccia (Einaudi 2000).
Eravamo uomini (homo/humus) perché nati dall'argilla biblica, dalla terra, in un “paese”, in campagna, in country, nei quartieri che si fanno la guerra tutt'ora a Siena, nel Palio ad esempio. Sembra preistoria dell’appartenenza o greve strumentalizzazione politica il tifo sportivo del calcio. Ma c’è ancora chi reclama o difende, giustamente, lo ius soli: altro paradosso per i transnazionalisti! Forza Catania e Forza Italia!
"Forza Italia" appunto!
Il partito degli "Azzurri di "Forza Italia" è il protagonista di un libro sul calcio (Alfio Caruso, Un secolo azzurro. Cent'anni d'Italia raccontati dalla nazionale di calcio, Longanesi 2013) che non parla di calcio ma di "combattimenti di galli", cockfight, (i polli stanno a Bali come i calciatori in Italia!) nel solco degli studi di Clifford Geertz e della sua antropologia culturale per cui un combattimento di galli a Balì non è un passatempo insensato ma un "gioco profondo" e un pallone di calcio non è un sfera di "cuoio vuota all'interno e gonfiata ad aria sufficientemente perché possa rimbalzare e usata per un gioco a squadre di 11 contro 11". Mussolini nel 1938,vinto il campionato mondiale di calcio, pensò da ingenuo precorritore geertziano che quel primato pedatorio indicasse un altro primato mondiale, quello geopolitico, e si preparò alla guerra. Berlusconi pensò - a mezzo secolo di distanza - che il suo primato politico dovesse essere costruito su quello calcistico e fondò "Forza Italia" e rilanciò la squadra del Milan. Con Mussolini il calcio è stato un oppio delirante, per Berlusconi una pozione magica, un oppio... di ricino da fare ingollare al Parlamento per salvare il suo impero economico, "satellitare". Il primo che non capiva nulla di football è stato "usato" dal calcio per nazionalizzare le masse e darsi da fare per una guerra mondiale, il secondo ha "usato" il calcio per ri-nazionalizzare le masse a favore dei suoi interessi personali per una notorietà mondiale. Questa è una delle tesi del testo di antropologia culturale condotto da Fredi Caruso sul modello di una ricerca storiografica: un libro di storia scritto da un giornalista che vede o annichilisce la Storia di presunzione accademica attraverso la Cronaca, nella larvalità essenziale dei singoli spogli, ma "astuti" eventi (invero, un evento "astuto", rappresentato con astuzia, con intelligenza, con un senso è un fatto). Da qui ne deriva la specificità del racconto, centrato su episodi, straordinari e perfidamente gustosi, disseminati per tutte le cinquecento quaranta pagine di cui è composto il libro. Episodi che valgono il costo del libro: alla vigilia della partenza per la sede di uno dei campionati mondiali, gli "Azzurri" sono ricevuti dal Papa che porge la mano per farsi baciare l'anello. Il terzo portiere, Casari, ultrastrafottendesone ingenuamente del cerimoniale, stringe la mano di Pio XII e dice: "Piacere, Casari"!). E prima, quando Felice Levratto, centravanti-ala sinistra, con una cannonata abbattè il portiere E'tienne Bausch, stordito, con il sangue alla bocca: "secondi di paura, Levratto è il più disperato di tutti: in genovese ripete U l'ho matou (l'ho ammazzato). La situazione è meno angosciante. Bausch aveva la lingua tra i denti, per il contraccolpo ne ha avuto una parte tagliata. Sommariamente medicato, torna tra i pali. Dopo cinque minuti si ritrova di fronte Levratto. Con un balzo si allontana dalla porta, si accuccia per terra, si copre il volto con le mani. Levratto si mette a ridere, tira fuori dalla porta sguarnita tra gli applausi del pubblico". Con battute che valgono più degli aforismi di pensatori di professione, e Gianni Agnelli che assume Luciano Moggi perché "lo stalliere del re deve conoscere tutti i ladri di cavalli", e Giampiero Boniperti per il quale "vincere non è importante, è l'unica cosa che conta". E il marcamento a zona, tutti attaccanti e tutti difensori, che definisce nella desolazione delle ideologie la Destra "per la ridondanza dei comportamenti, per gli eccessi, gli sprechi di qualità che a volte comporta", contro la Sinistra catenacciara e contropiedistica, la chance dei poveri, " di chi è stato meno dotato dalla natura, per la rinuncia alla spettacolarità in funzione del risultato". E l'aereo di Pertini che all'insaputa del Presidente della Repubblica trasporta oltre trecento mila dollari in contanti per "dribblare gli agenti della dogana, le norme sull'importazione di valuta, le tasse da versare al fisco". Non è un pallone. Non era una pipa. Se n'era accorto Magritte! (Ma oltre l'antropologia della ricchezza simbolica quanta malizia si nasconde nel cockfight, sapendo che cock è termine popolare per indicare l'attrezzo sessuale maschile?).
Eravamo uomini (homo/humus) perché nati dall'argilla biblica, dalla terra, in un “paese”, in campagna, in country, nei quartieri che si fanno la guerra tutt'ora a Siena, nel Palio ad esempio. Sembra preistoria dell’appartenenza o greve strumentalizzazione politica il tifo sportivo del calcio. Ma c’è ancora chi reclama o difende, giustamente, lo ius soli: altro paradosso per i transnazionalisti! Forza Catania e Forza Italia!
"Forza Italia" appunto!
Il partito degli "Azzurri di "Forza Italia" è il protagonista di un libro sul calcio (Alfio Caruso, Un secolo azzurro. Cent'anni d'Italia raccontati dalla nazionale di calcio, Longanesi 2013) che non parla di calcio ma di "combattimenti di galli", cockfight, (i polli stanno a Bali come i calciatori in Italia!) nel solco degli studi di Clifford Geertz e della sua antropologia culturale per cui un combattimento di galli a Balì non è un passatempo insensato ma un "gioco profondo" e un pallone di calcio non è un sfera di "cuoio vuota all'interno e gonfiata ad aria sufficientemente perché possa rimbalzare e usata per un gioco a squadre di 11 contro 11". Mussolini nel 1938,vinto il campionato mondiale di calcio, pensò da ingenuo precorritore geertziano che quel primato pedatorio indicasse un altro primato mondiale, quello geopolitico, e si preparò alla guerra. Berlusconi pensò - a mezzo secolo di distanza - che il suo primato politico dovesse essere costruito su quello calcistico e fondò "Forza Italia" e rilanciò la squadra del Milan. Con Mussolini il calcio è stato un oppio delirante, per Berlusconi una pozione magica, un oppio... di ricino da fare ingollare al Parlamento per salvare il suo impero economico, "satellitare". Il primo che non capiva nulla di football è stato "usato" dal calcio per nazionalizzare le masse e darsi da fare per una guerra mondiale, il secondo ha "usato" il calcio per ri-nazionalizzare le masse a favore dei suoi interessi personali per una notorietà mondiale. Questa è una delle tesi del testo di antropologia culturale condotto da Fredi Caruso sul modello di una ricerca storiografica: un libro di storia scritto da un giornalista che vede o annichilisce la Storia di presunzione accademica attraverso la Cronaca, nella larvalità essenziale dei singoli spogli, ma "astuti" eventi (invero, un evento "astuto", rappresentato con astuzia, con intelligenza, con un senso è un fatto). Da qui ne deriva la specificità del racconto, centrato su episodi, straordinari e perfidamente gustosi, disseminati per tutte le cinquecento quaranta pagine di cui è composto il libro. Episodi che valgono il costo del libro: alla vigilia della partenza per la sede di uno dei campionati mondiali, gli "Azzurri" sono ricevuti dal Papa che porge la mano per farsi baciare l'anello. Il terzo portiere, Casari, ultrastrafottendesone ingenuamente del cerimoniale, stringe la mano di Pio XII e dice: "Piacere, Casari"!). E prima, quando Felice Levratto, centravanti-ala sinistra, con una cannonata abbattè il portiere E'tienne Bausch, stordito, con il sangue alla bocca: "secondi di paura, Levratto è il più disperato di tutti: in genovese ripete U l'ho matou (l'ho ammazzato). La situazione è meno angosciante. Bausch aveva la lingua tra i denti, per il contraccolpo ne ha avuto una parte tagliata. Sommariamente medicato, torna tra i pali. Dopo cinque minuti si ritrova di fronte Levratto. Con un balzo si allontana dalla porta, si accuccia per terra, si copre il volto con le mani. Levratto si mette a ridere, tira fuori dalla porta sguarnita tra gli applausi del pubblico". Con battute che valgono più degli aforismi di pensatori di professione, e Gianni Agnelli che assume Luciano Moggi perché "lo stalliere del re deve conoscere tutti i ladri di cavalli", e Giampiero Boniperti per il quale "vincere non è importante, è l'unica cosa che conta". E il marcamento a zona, tutti attaccanti e tutti difensori, che definisce nella desolazione delle ideologie la Destra "per la ridondanza dei comportamenti, per gli eccessi, gli sprechi di qualità che a volte comporta", contro la Sinistra catenacciara e contropiedistica, la chance dei poveri, " di chi è stato meno dotato dalla natura, per la rinuncia alla spettacolarità in funzione del risultato". E l'aereo di Pertini che all'insaputa del Presidente della Repubblica trasporta oltre trecento mila dollari in contanti per "dribblare gli agenti della dogana, le norme sull'importazione di valuta, le tasse da versare al fisco". Non è un pallone. Non era una pipa. Se n'era accorto Magritte! (Ma oltre l'antropologia della ricchezza simbolica quanta malizia si nasconde nel cockfight, sapendo che cock è termine popolare per indicare l'attrezzo sessuale maschile?).
*E’ una parafrasi della famigerata battuta di Johann Wolfgang von Goethe
(wo die Zitronen blühm : “là dove
fioriscono i limoni”) del Viaggio in
Italia. Famigerata più che famosa, perché - a sua insaputa - il grande
intellettuale tedesco ha contribuito alla creazione dello stereotipo della
Sicilia, regione a statuto antropologico, anzi, botanico, speciale. E’ noto che
Goethe venne nell’isola per tante ragioni, compresa quella forse determinante,
relativa alla ricerca della pianta primigenia, la Urpflanze. Non era la melenzana - ma si resta sul terreno, appunto, della botanica
- che venne introdotta in Sicilia agli albori dell’età moderna. Nulla di più estranei al mondo vegetale della Sicilia sono l'arancia o il limone o il fico ... d'India, appunto, o la melenzana. Identità ortive e, per sovrammercato,importate!
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