mercoledì 30 ottobre 2013

L'allunaggio storiografico o geografia dei grandi spazi









John Reader, Africa, biografia di un continente (Mondadori): il figlio di un taxista londinese scrive di storia come un geografo hegeliano. Funziona: meglio comprarsi un auto e farsi rilasciare una licenza per girare il mondo che andare in cerca di fondi e di fonti d'archivio. La storiografia non è cronosofia, chiacchiera "intelligente" di date, saggezza cronologica ma filosofia geografica. E per fare parlare il mondo, non bisogna passare vent'anni a leggere Aristotele per intrappolare e aristotelizzare i graffiti dell'uomo sul pianeta. Basta ascoltare i monti e i mari, i fiumi e i boschi e il rumore delle guerre. E vedere i colori delle città alla luce del sole e a quella della luna.La terra si racconta meglio da una postazione lunare e non da un'idea, dall'idea che la terra attraverso l'uomo ha di sé.

L'uomo è un'eresia della Natura


La contemporaneità è un’insonnia di massa. Essa vive di innovazioni, di novità; è un’infinita giornata di luce che può sembrare una punizione, come quella inflitta ai detenuti “tosti”. L’innovazione, quindi, foriera di crisi perpetua, anima la contemporaneità dell’Occidente il cui stato normale è critico. Non così per altri popoli, quelli del Corano, ad esempio, che accoglie problematicamente nella “sunna”, nella tradizione, appunto, coranica l’innovazione, “bid’a”. Tra “bid’a hasana” o “bid’a mahuma”  (novità buona) e “bid’a sayyi’a” o “madhumuma” (novità cattiva), l’innovazione, la “bid’a”, tendeva e tende  a configurarsi come eresia, come rischio teologico, concessione alla miscredenza. La storia umana si snoda e si aggroviglia per vicende di scoperte ed invenzioni tecniche, di tradizioni che fronteggiano e resistono alle innovazioni che diventeranno tradizioni (e miti, quando si perderà la possibilità di farne analisi critica e lettura storica).

Il gioco sessuale della parola


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Eros: il dio guerriero delle donne. Solo per il quale la guerra vale essere dichiarata, dalle donne.
Quanto vale un odore di femmina? La follia di Orlando che porta alla sfida fratricida dei due gran “pileri”(pilastri: l'altro era il cugino Rinaldo) del campo cristiano. Dove? In Sicilia, ovviamente: Viditi quanto pò 'n pilu di fimmina!/Dui palatini, ca su' du' pileri,/ per causanza dela della bela Angelica/ su'addivintati d' nimici feri/. Questa è la quartina d'inizio di Lu cummattimentu di Orlandu e Rinardu di Nino Martoglio.*

Un fanciullo, irresponsabile, dispettoso, sorridente ed ironico. Un uomo di sfrenate furie sessuali: Priapo.
Eros o Priapo. È una smania che disarticola ogni calcolo di equilibrata, misurata armonia.Gli dei dell’Olimpo non lo vogliono tra i condomini, non si fidano. Non è divinamente corretto. E’ una divinità infantile, che non vuole crescere. Infantile: appartiene all’età pre-fàtica, all’età che precede la maturità del linguaggio, del latino fari, del dire. Quindi non linguaggio maturo, ma dialetto, cacolalìa, infanzia della lingua e lingua infantile, dell’infanzia dove trova il suo esilio e lo sceglie come dimora Eros-Priapo. Dimora di licenziosa, scurrile, allegra promiscuità, ghetto senza barriere interne di genere alcuno. I giochi di parole, le iperboli, tutta l’arte della Retorica, tutta la Tecnica del dire sostengono quel luogo clandestino che l’Eros-Priapo dialettale abita. Un carnevale che non si può celebrare con le ghette, un rodeo di immagini, di associazioni psicologiche di realtà dissociate, improbabili, una palestra di acrobazie linguistiche, affabulatorie orientate al riso sguaiato, liberatorio. Un universo ingrottato, nascosto ma ben frequentato come i locali degli anni del proibizionismo americano, gestiti da delinquenti ma riempiti da tutti, rispettabili uomini con ghette e smaniose donne di classe, da donnine e da omuncoli.
Eros-Priapo si può esprimere solo nel dialetto. Vuole essere tratto fuori e messo in vista. Nell'alcova o sul lettino dell'analista.

* La melenzana è ubiqua, reperibile fin dove non la si sospetta. Esemplare ci sembra la prefazione (1921) di Luigi Pirandello, che o ché era Pirandello, alla Centona del poeta e commediografo di Belpasso: "Nino Martoglio è per la Sicilia quello ch'è il Di Giacomo e il Russo per napoli; il Pascarella e il Trilussa per Roma: il Fucini per la Toscana; il Selvatico e il Barbarani per il Veneto: voci native [melius: ortive, per quel che si legge subito appresso] che dicono le cose della loro terra[!], come la loro terra vuole che siano dette per esser quelle e non altre, col sapore e il colore, l'aria, l'alito e l'odore con cui vivono veramente e si gustano e s'illuminano e respirano e palpitano lì soltanto e non altrove". La terra (o l'orto) detta e la melenzana raccoglie e recita secondo sapore colore odore tratti ad alimento identitario! Grande Pirandello!

martedì 29 ottobre 2013

Il pescatore di melenzane




La fine è la perfezione dell’origine- amiamo ripetere! Così i castelli del Mezzogiorno d’Italia d'epoca bizantina si perfezionano in torri di avvistamento, in fortificazioni costiere alla fine del viceregno spagnolo.
A metà del secolo IX l’impero d’Oriente di Bisanzio si dava a costruire castelli contro gli invasori arabi che avevano dato vita alla lunga guerra di conquista nell’827, sbarcando in quell’approdo di Dio, Mars Allah,  Marsala, e fermandosi a Taormina nel 902 dopo avere espugnato nell’831 Palermo, Enna nell’859, Siracusa nell’878.
I castelli isolani, i manufatti fortificati, pur nella diversità dei suoi costruttori, bizantini, normanni, svevi, aragonesi e spagnoli (meglio: castigliani), hanno in comune il dato di costituzione mentale: la rinuncia ad una strategia offensiva sul mare. In misura diversa, si scelse di non armare flotte orientate ad intercettare e a contrattaccare i nemici che utilizzavano il dominio delle rotte di mare.  Si arretrerà la strategia bellica sulle coste, interrando le navi in forma di castelli, dimentichi della sostanza dell’impero navale ateniese, raccontata da Tucidide nella sua Guerra del Peloponneso.
Un intelligente punto di partenza per l’esame dei castelli siciliani è proposto da Ferdinando Maurici che, sulla scorta delle testimonianze di due autori arabi, Ibn al Athir ed An Nuwayri, ha scritto nel suo libro, Castelli medievali in Sicilia, pubblicato dalla Sellerio nel 1992: “I due storici datano l’inizio del grande incastellamento bizantino in Sicilia intorno alla metà del IX secolo, quindi in un momento in cui i problemi della
rivolta berbera imposero agli arabi la sospensione o almeno la riduzione dell’iniziativa aggressiva contro l’isola”. Nessuna fuga dal mare, nessuna paura del mare, ma rinuncia a stare sul mare e ad affrontare gli arabi sulle coste di partenza del Maghreb o sulle rotte marittime. Per fare ciò, bisognava costruire flotte statali o favorire l’armamento privato e, innanzitutto, spostare l’interesse geopolitico di Bisanzio dall’Anatolia alla Sicilia. Si preferì, invece, la realizzazione di fortificazioni che imponeva “l’accentramento di popolazione postulato da un incastellamento massiccio […] dell’abitato”. Così all’origine. E così sarà alla fine, con l’occupazione spagnola della Sicilia quando, già prima della battaglia navale di Lepanto del 1571 fra i Cristiani dell’armata spagnola  e gli islamici dell’armata ottomana, non volendo o non potendo debellare sulle coste dell’Algeria o della Tunisia la potenza corsara delle Reggenze barbaresche protette dall’Impero Ottomano, non potendo armare flotte navali per il fronte secondario del Mediterraneo (quello primario era rappresentato dall’Oceano Atlantico), non permettendo (anzi, diffidandone) la coltivazione dello spirito marziale delle aristocrazie coloniali, si decise di disseminare - per tutta la costa dell’Italia meridionale dagli Abruzzi alla Campania e oltre - torri di avvistamento, opere di restauro di manufatti fortificati da cui con fumo, sventolio di bandiere colorate, falò o esplosione di colpi di bombarda dare l’allarme alle popolazioni. Per scappare tutti, come galline inseguite da volpi, in luoghi meno accessibili agli incursori del mare. Non era un “alle armi”, ma un “ai piedi”.
I nostri castelli non sono la memoria del potere signorile che  minacciava e proteggeva la popolazione del luogo. Sono corpi estranei, paurosi, incombenti sulla psiche dei siciliani. Caratteristiche perse dal castello Ursino di Catania, grazie alla lava che, mangiandogli il mare, ha ridicolizzato l’opera di Federico II, mettendo il manufatto federiciano al livello delle abitazioni dei sudditi. Diversamente che a Gagliano Castelferrato dove si permane a vivere con un fortilizio rupestre sulla testa. Deprimente mal di capo!

I castelli deprimono, appunto; non ricordano uomini, ma conigli e dominatori estranei. I castelli sono navi interrate! Castellificare è (fu) denavalizzare; il contadino è un marinaio stordito, smarrito, un pescatore di melenzane!- 

Wich sta ad indicare un luogo inglese in cui si produce(va) sale in città-saline di mare.Non si registrano in Italia posti il cui nome sia combinato con "sale". Calat (rocca), in Sicilia il wich diffuso inglese, si combina in suffisso di nome di città, arroccate, chiuse in se stesse come a tenere un pugno di terra stretto nel ... pugno dell'altra mano libera dalla vanga o dall'aratro. Il pesce (piscis-fish) che ha cambiato il mondo inseguito nei mari del Nord Europa (magistrale di MarK Kurlansky  il Merluzzo. Storia del pesce che ha cambiato il mondo, Mondadori 1997) per i supposti Indoeuropei è una “bestia del corso d’acqua”, del *mor (mare). Di scarso interesse alimentare, quindi. E “ciò confermerebbe l’idea che gli antichissimi popoli di lingua indoeuropea manifestavano, nei confronti del pesce, un certo distacco[…]. Questa repulsione si comprende bene ricordando che la carne del pesce si conserva male: essa non poteva costituire, dunque,  una seria risorsa alimentare prima della scoperta delle tecniche di conservazione, come l’affumicatura [stock-fish] e la salatura [salt-fish]" in André Martinet, p. 37 dell'edizione Laterza 1987, L'Indoeuropeo. Lingue, popoli e culture  (in francese il titolo è più ricco, più ... titolato: Des steppes aux océans. L'indo-européen et les "indoeuropéens". Ma tutti gli indoeuropeisti e gli studiosi di linguistica comparata se la dovrebbero vedere con Giovanni Semerano che oltre al sapido e rapido La favola dell'indoeuropeo (Mondadori 2005) ha scritto su Le origini[mesopotamiche] della cultura europea (Leo S. Olschki) 4 volumi di cui due sono dizionari etimologici.

La pace spiegata a una bambina, al Papa.





-          Pace e guerra: “il vomere poteva avere un manico corto, ed allora lo si trasformava facilmente in spada, oppure lungo, ed allora diventava una lancia. Aratro e spada, pace e guerra, a quel tempo avevano molto in comune. Isaia predice un futuro in cui tutte le spade si trasformeranno in vomeri..." (E. E. Vardiman, Il nomadismo, Rusconi 1998, p. 144).



La pace che arrivò dal mare: lo sbarco in Sicilia del 1943.

La guerra e la pace non si escludono vicendevolmente: i rapporti internazionali sono determinati ora militarmente, ora diplomaticamente. Il militare sta accanto al diplomatico, non contro. Il bisturi non esclude la pranoterapia. I mali non sono tutti e sempre curati da carezze, né estirpati chirurgicamente. Per una cefalea è sufficiente una compressa analgesica o basta un massaggio shiatzu; per un tumore neppure una devastazione radicale vale. La pace è la subordinazione del vinto alla volontà del vincitore. Si sta in pace perché c’è stata una guerra dopo la quale il vinto ha accettato le condizioni del vincitore. E ci sono guerre difensive, rituali, sociali, economico-politiche, simboliche, etniche, di conquista. E ci sono paci cimiteriali. Il pacifismo è un desiderio che si fa sorprendere dalla guerra. Le guerre sono tante; la pace solo una: quella delle condizioni del vincitore. Non smette di piovere solo perché si odia l’acqua. Aveva nove anni la mia bambina sorpresa a bisbigliare improperi pacifisti contro Hitler e Mussolini, ancorché tremante e divertita per le statue di cera e per le trovate del sobbalzante rifugio antiaereo e degli spari di una mitragliatrice in opera dalle fessure di una casamatta ricostruita per il "Museo storico dello sbarco in Sicilia del 1943", allestito alle "Ciminiere" dalla Provincia Regionale di Catania. Una buona idea, quella del Museo permanente sullo sbarco alleato del 1943, buona per motivi diversi e, fra tutti, per il supporto didattico che offre agli insegnanti delle scuole che affannosamente arrivano a trattare i temi della storia contemporanea del Novecento. Molte immagini coeve, fedeli ricostruzioni di ambienti, secche didascalie, riproduzioni di documenti che sono stati consegnati ad un catalogo pregevole, introdotto rapidamente da Alberto Santoni, professore di Storia Moderna e Contemporanea dell’Università di Pisa. “Un museo per la pace” è il titolo voluto dall'allora presidente della Provinciale Regionale di Catania, Nello Musumeci, per questo spazio culturale che si apre con una scritta di Papa Giovanni XXIII (“La pace è il bene supremo. Dimenticarlo è una vera follia”) e che si chiude con immagini del cimitero inglese di guerra di Catania, mentre nomi dei caduti, di soldati di varie nazioni sono scanditi all'uscita dei locali museali. Alla bambina spiegavo che la guerra e la pace sono argomenti di sapere strutturato, di “scienza”, della polemologia. Spiegavo che non bastano i suoi occhi, non basta lo sguardo di tutti i bambini innocenti del mondo, non bastano gli improperi, come non ci si può affidare alla propria bontà per impedire le catastrofi naturali. Spiegavo che gli Alleati sono venuti dal mare, scarsamente considerato dalla cultura politica e militare dell’Italia, maltrattato allora, prima e dopo, fino ai nostri giorni. La pace è un bene supremo ricavato dalla guerra che non sempre è vinta dai migliori contendenti. La pace è la forma di una guerra a riposo, come le pendici di un vulcano sono lave rapprese che aspettano per tempi indefiniti altro magma. La pace sta alla guerra come la l'ombra alla luce: l'una è forma dell'altra; non sono due sostanze contrastanti. I pacifisti hanno tutti nove anni? Costantino che in guerra contro Massenzio avrebbe vinto nel segno della croce (in hoc signo vinces resa in latino del greco en touto nika), non aveva nove anni. Era il 312 dopo Cristo e di anni l'imperatore ne aveva 38.



La tricoteologia: Dio è nei capelli, pur essendo senza capelli! E la tricostoriografia...?











Si può ricavare l’umore di un’epoca dai capelli dei suoi protagonisti; si può, addirittura, intuire la predilezione di Dio per le sue creature attraverso la chioma. In un caso (esemplare il saggio del professore di semiotica, Massimo Baldini, Capelli, "Peliti Associati", ma "Wella Italia", 2003) avremo la tricostoriografia, nell'altro la tricoteologia di cui l’esempio più famoso è rappresentato egregiamente dal trattato tricoetico-comportamentale (ma anche teologico, appunto), di Jean Baptiste Thiers, pubblicato “aux dépense de l’auteur” nel 1690 a Parigi e intitolato Histoire des perruques où l’on fait voir leur origin, leur usage, leur forme, l’abus et l’irregularité des ecclesiastiques. In tutt’e due i casi l’agente della Storia o l’informatore della Storia (colui che dà forma alla sequela degli accadimenti) è il parrucchiere. Perché? Per alcuni motivi: "per nascondere i capelli rossi" - così il curato francese racconta degli Ebrei discendenti di Giuda, notoriamente tricoramati, oppure per sembrare più giovani e sexy-appealing o, ancora, per nascondere la "tigna" (l’alopecia in tutti i suoi 4 tipi) del “sordido male” della sifilide, esplosa in Europa dopo la scoperta delle Americhe.
   A dire il vero, il dibattito fra chiomati e calvi, d’origine antica, potrebbe essere riassunto nello scontro a distanza di tempo fra il retore e filosofo stoico, Dione Crisostomo, vissuto tra il 40 d.C. e il 112, e il vescovo cristiano di Tolemaide, Sinesio di Cirene, vissuto tra il 370 e il 413 d.C., noto ai più attraverso il film “Agorà” sull'intellettuale a-cristiana, Ipazia, del regista spagnolo Alejardo Amenabar.  Intellettuale di grande originalità, di larghe vedute, di vasta intelligenza e di spiccata devozione, qualità attestate incontrovertibilmente dalla sua calvizie su cui scrisse un Elogio contro quello della chioma di Crisostomo, un encomio quello del vescovo di Tolemaide, dedicato “ai filosofi, ai sacerdoti e a tutte le persone assennate”, vale a dire, calve.
   Chi si fa crescere i capelli non è un buon cristiano, amava ripetere Sinesio, reinterpretando San Paolo della Lettera ai Corinzi:“Per l’uomo è un disonore portare una lunga capigliatura…”.
   E l’uomo, calvo o a pelo corto, non si deve vergognare, perché “fra gli animali i più sciocchi sono completamente mantati di peluria, mentre l’uomo, che ha avuto in sorte l’intelletto e la ragione, ne è per lo più sprovvisto […]. E come l’uomo è al contempo la creatura più intelligente e la meno irsuta, così di tutti gli animali la pecora è sicuramente il più stupido […]. Insomma, tra capelli e qualità intellettive non sembra correre buon sangue.[E ancora,] “l’individuo completamente calvo è in assoluto l’essere più divino sulla terra” perché la sfera è la figura geometrica perfetta, la volta celeste sede di Dio è sferica, l’anima tende al cielo e la calvizie evoca la volta. Insomma, Dio è calvo: “la calvizie è una prerogativa divina e conforme alla divinità; essa è il fine ultimo della natura”.

   Chi entra in un salone di acconciatura per un taglio di capelli o una prova di parrucca, non è - Sinesio consule - persona frivola, ma è filosofo e sacerdote, come ben argomenta il vescovo di Cirene che, però, non riuscì a salvare la povera Ipazia (amica, scienziata ma donna chiomata) dai parabolani, sorta di cristiani talebani, fondamentalisti antipagani. E non erano calvi! O perché non erano calvi?





E ora ci chiediamo: solo il naso di Cleopatra ebbe una ruolo nella storia di Roma? E la pettinatura della regina egiziana?

Il rasoio di monsieur Guillotin - la ghigliottina - prese a saliscendere sul collo in una festa di teste staccate dal corpo, in un tripudio di decollati non tanto in nome della dea Ragione e delle figlie Fratellanza, Eguaglianza e Libertà, quanto per conto dei parrucchieri stressati da una richiesta crescente presso il Terzo Stato di chignon, smarriti in confusione di posticci e di sofisticate pettinature, di parrucche mirabolanti, ideate da architetti visionari e deliranti. Alle feste regali di Versailles, in primavera, l'acconciatura seguiva la stagione: la testa come un'orto irrigato da bottigliette piatte e ricurve adattate alla forma del cranio, piene d'acqua per il nutrimento di fiori naturali.
    Teste di donne che sembravano tanti fercoli del santo patrono... e piume, nastri, crocchie, tupée, pizzi, boccoli, trecce à la Chanceliére, à la Sevigné, à la Hurlupée, à la Maintenon, à la Fontanges ( una delle amanti, questa, di Luigi XIV, Le Roi Soleil) che con una sua delle sue giarrettiere rialzò i capelli scioltisi durante una corsa a cavallo. Fu così che Marie-Angelique de Scorailles de Roussille, duchessa di Fontanges, impose la moda Fontange per anni, allungando al torreggiamento o allargando a gradoni la testa delle donne del bel mondo civilizzato.
   I maschi si imparruccavano con ciprie e farine sfoggiando pettinature ad ali di piccione, esibendo ciocche di boccoli ricadenti sulle tempie o disposti su di una linea orizzontale, pavoneggiandosi con lunghe trecce strette da un nastro sulla nuca.
      La ghigliottina tagliò la testa a un tale groviglio di esistenze pelose e, poiché il Terrore si andava profilando lungo sui tempi a venire, si pensò bene da parte di chi aveva ancora la testa attaccata alle spalle, di acconciare pettinature corte e semplici onde evitare attriti di inefficacia, di ostacolo alla lama lanciata sul collo del condannato a morte. Per un futuro di corpi decollati  giudizio voleva che li si attrezzasse di pettinature sobrie. 
     La parrucca, bianco-grigia di crine di cavallo, parzialmente resiste nei tribunali britannici tra i magistrati e gli avvocati, i barristers, Inghilterra dove dopo più di 300 anni venne (o verrà?) abolita nei processi civili ma non in quelli penali. Ma non s'è più ripresa dallo spavento procuratole dai sanculotti. Assieme al rococò, paradiso-inferno degli architetti-parrucchieri, è sparita, lasciando il posto a qualche parrucchino tra i maschi che non hanno inteso la lezione del vescovo Sinesio. Prima di sparire canto come il cigno prossimo alla morte. Lo Stile Impero adottò il modello dell'antichità. Poi, dopo qualche incertezza controrivoluzionaria e passato il pauroso brivido del filo della lama sulla nuca, i capelli si riannodarono in complicatissime acconciature. Ma durò poco. Prima dell'accorciamento della gonna imposta negli anni Sessanta del secolo scorso dalla mai sufficientemente lodata Mary Quant, a farsi corti furono i capelli ai quali, benché posti a distanza dal luogo del piacere era assegnata la funzione della seduzione e dell'allontanamento, del chiamare e tenere lontano, del vorrei e non vorrei.. Mostrare la nuca e il collo e tentare gli occhi e le labbra maschili: così dettava la strategia del piacere prima che il copro femminile si svelasse occultato dalla biancheria intima, prima che il capello veniseese surclassato nella gerarchia dei mezzi seduttivi dal reggiseno e dagli slipo.
   Il mondo vendette la sua anima alla Tecnica dei Tipi, intollerante delle differenze e della varietà degli individui e dei generi, e dei peli in esubero. Quindi capelli corti e testa alla maschietta. E fu un riconoscimento di quella verità teologica che vede l'uomo (il maschio quale immagine di Dio). Tutto questo fino a quando la Tecnica dell'Occidente non ebbe a scontrarsi con l'irriducibile antagonismo delle civiltà altre che crearono resistenze interne e apostasie nel campo tricotico dell'Occidente. E fu un guazzabuglio vitalissimo di pettinature sorprendenti: africane, asiatiche, seminole, apache, mohicane, incaiche, sumere, assire, babilonesi, egizie, arricciate in permanenza, lunghe a volute, lunghe in allisciamento, colorate. E pelate, anche!

 




Julien Sorel a Catania o a Kuala Lampur


















“Per il luogo dove sono nato provo
una ripugnanza che arriva al disgusto fisico[…].
Tutto quanto è vile e comune nel genere borghese
 mi ricorda Grenoble; tutto quanto mi ricorda Grenoble
 mi fa orrore, no, orrore è troppo nobile; mi nausea” ( Henri Beyle)


Pippo Sapienza, in arte Pernacchia, Pippo Fava e, nel mezzo, Teletna di un altro Pippo, Pippo Recca: così vengono raccontati nel saggio, Teletna, nascita dell'Italia delle TV, (Bonanno 2009) di Giuseppe Lazzaro Danzuso gli anni Settanta del secolo scorso a Catania.
Non ci capivamo niente, noi stendhaliani di provincia (ma tutti i lettori di Stendhal erano provinciali, dannatamente marginali, e Stendhal odiava la città natale, Grenoble, come si può odiare una prigione di mediocrità e di ottusa violenza).     
Non ci capivamo niente e si vuole dire che ci era tutto chiaro: Manlio Sgalambro avrebbe detto (di Catania) che “nella città si può cogliere il tramonto di una civiltà camminando per le sue vie e dal volto dei suoi abitanti si può scoprire quanto sono vicini i barbari”.
La Medina dell’elefante (così la denominarono i dominatori Arabi) in quegli anni scollinava, andava in transumanza alla conquista dell’Etna, della sua conurbazione, dei comuni etnei. L’incremento demografico (saldo attivo delle nascite sulle morti e flusso immigratorio interno) si andava a depositare lungo la direttrice Nord e Nord-Est ad Acicatena, Gravina, San Giovanni La Punta, San Gregorio di Catania, Sant’Agata li Battiati, Mascalucia, Tremestieri etneo, Acicastello.
Si esaltava l’antica vocazione catanese di “fabbricar palazzi”, una vocazione da terremotati, da dissepolti dalle macerie di quei terremoti che costringono i sopravvissuti a ricostruire come ossessi, come il frullìo di api impazzite davanti a un alveare crepato.
       Si riduceva ulteriormente l’attività agricola (dal 1951 al 1981 l’agricoltura perdeva il 27,9% dei suoi addetti), il terziario dell’impiego pubblico, del commercio al minuto e della vita di espedienti si innalzava e si allargava come un “fungo” atomico (dal 30,3% del 1951 al 53,9% del 1981).
La città si de-urbanizzava con un decremento di popolazione residente del 4,9% tra il 1971 e il 1981, passando nel decennio dai 400.048 abitanti  ai 380.328).
Negli anni di cui tratta Lazzaro Danzuso, tutto il comparto delle attività legate all’acqua, al gas, alle industrie estrattive, a quelle manifatturiere per la trasformazione dei metalli e per la meccanica di precisione beneficiò dell’incremento irrisorio di 371 unità (ma la si continuava a chiamare, Catania, la Milano del Sud). Era il settore delle costruzioni(comprese le industrie di installazione degli impianti di edilizia) a fare un ragguardevole balzo in avanti raggiungendo la quota di 2.665 unità  che erano 911 nel 1971.
Mentre a Torino comandava Agnelli, a Catania - ricorda Lazzaro Danzuso - la politica della città che era cronaca giudiziaria sceglieva ad interlocutori privilegiati gli astri autoctoni dell’imprenditoria: Ferrini, Massimino e i quattro cavalieri dell’Apocalisse.
La città, odiata-amata da Giuseppe Fava, si preparava ad essere rappresentata spietatamente dai romanzi (romanzi?) di Silvana La Spina, Enzo Russo, Alfio Caruso, di Antonio Di Grado. La città si preparava ad accogliere il viaggiatore apocalittico Ceronetti per fargli scrivere che “a Catania non c’è di bello che quel che è in sfacelo […]. Questo era un popolo fatto dalla povertà, nato per essere povero; il denaro l’ha fritto come in un’enorme padella, e oggi la sua faccia è annerita, ustionata”.
Non ci capivamo niente: a Catania la delinquenza ubiquitaria dei quartieri stava trovando il suo posto di eccellenza nella mafia. Uno l’aveva capito, ma noi non avevamo capito che Giuseppe Fava l’aveva capito. Ci pareva fosse una trovata teatrale (Catania è una città teatrale diceva Sciascia, dice Lazzaro Danzuso, diciamo noi che mai la prendemmo, la prenderemo sul serio), un’esagerazione da cui distogliere attenzione ed energie, indirizzate, invece, nei laboratori rivoluzionari. Che fossero mafiosi i nostri imprenditori, non lo si voleva riconoscere perché ciò  avrebbe ridimensionato l’impegno dell’apocalisse rivoluzionaria a solletico riformista, a predica morale: per noi il capitalismo era intrinsecamente violento, a Milano, felpatamente morbido, a Catania spudoratamente mafioso. Insomma, la mafia era un aggettivo del sostantivo “padrone”. E noi eravamo ragazzi di sostanza, sostanzialisti.
Non ci capivamo niente, ma Catania non ci piaceva. Non ci piacevano i suoi giornalisti, non leggevamo la stampa locale ed aspettavamo, come gli Ebrei il Messia giustiziere, l’uscita di “Giovane Critica” o l’arrivo dei “Quaderni Piacentini”.
Il libro di Giuseppe Lazzaro Danzuso ci fa capire le ragioni di quel disagio generazionale ed antropologico che subivamo e che non capivamo.
Un libro coraggioso: ci vuole coraggio ad iniziare il racconto di una città amata (grottescamente, ironicamente amata) con le imprese di Pippo Pernacchia o Pippu d’e pirita, uno che “si guadagnò da vivere per cinquant’anni praticando,  da vero virtuoso, lo sberleffo sonoro”. Pippo Sapienza come Julien Sorel de Il rosso e il nero di Henri Beyle: quello sberleffava a pagamento la città, questo leggeva contro la sua città, contro la sua famiglia. Non lo capivamo, ma Pippo era tutti noi, i contestatori che sognavano l’altrove, Parigi (o Londra).

L’autunno “caldo” delle lotte operaie e studentesche si faceva inverno algido degli anni di piombo, annunciato dall’uccisione dei braccianti di Avola del dicembre del 1968 e di due operai di Battipaglia nella primavera del 1969, esploso nel dicembre del 1969 con una bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano, e Giuseppe Pinelli cadde dalla finestra e, poi, all’anniversario, come una celebrazione di ricorrenza, il principe Junio Valerio Borghese tentò il colpo di Stato (ridicolo perché abortito) e Giovanni Leone, superstizioso come una maschera della commedia italiana, avvocato di un esponente della famiglia dei cavadduzzu in un processo per omicidio, eletto nel 1971 Presidente degli Italiani,di tutti gli Italiani, siciliani e il sottoscritto compresi, e Boia-chi- molla a Reggio di Calabria e Catania, dei sindaci incolori Magrì e Marcoccio, divenne nera: nelle elezioni comunali del 1971 il Movimento sociale Italiani ottenne un grande riconoscimento elettorale con il 21,5% dei voti.
 Il prezzo del petrolio dei paesi dell’Opec nell’autunno del 1973 giunse alle stelle, svalutando ulteriormente la lira, in balia dei cambi instabili seguiti all’abbandono (agosto1971) del gold exchange standard degli accordi di Bretton Woods del 1944 (la convertibiltà del dollaro in oro): giungeva al termine la ricreazione del lungo quarto di secolo dalla conclusione della seconda guerra mondiale.
 La stagflazione si aggirava per l’economia dell’Occidente: un matrimonio di sposi solitamente incompatibili, inflazione di prezzi con aumento della circolazione monetaria ( con il contributo locale dell’invenzione dei miniassegni di Pippo Recca, rammenta Lazzaro Danzuso) e stagnazione di produzione e reddito.
“Nixon boia”, tra Vietnam e Watergate, erano nel frattempo nate le Brigate rosse, era nato il Gap di Giangiacomo Feltrinelli, e si rapiva il giudice di Genova Mario Sossi. Una bomba a Brescia in piazza della Loggia (otto morti) e fu guerra civile tra i giovani. Gli adulti, i democristiani compagni di partito di Leone, Rumor e Gui, il socialdemocratico Tanassi prendevano tangenti dalla compagnia aerospaziale, Lockheed. E si sparava, senza misericordia e a bersaglio, alle gambe, al cuore, in testa a Montanelli, a Carlo Casalegno, a Walter Tobagi, a magistrati, a poliziotti, ad operai, a professori universitari, a studenti, a povera gente, ad Aldo Moro.
Come si poteva amare il paese di Giovanni Leone, quello delle corna apotropaiche, delle Brigate rosse e del terrorismo rosso e nero (solo cromaticamente stendhaliano)?
E chi poteva avere testa alla mafia di Catania? Solo uno: Giuseppe Fava che amava ed odiava Catania. Noi avremmo voluto essere (ed eravamo) altrove. Come Sciascia, maestro di stendhalismo, che, inaugurando i suoi romanzi (romanzi?)  di mafia con Il giorno della civetta (1961, rappresentato nel 1964 da Giancarlo Sbragia allo Stabile di Catania), “insegnando” (e trasfigurando in fantasma letterario) la mafia, in irriducibile opposizione aveva caparbiamente testa al “compromesso storico” tra Sinistra e “masse cattoliche che non esistono”, tra l’esistente (caspita, se esistente!) Andreotti e Berlinguer, nel cui partito alle comunali palermitane del 1975 il grand’uomo di Racalmuto veniva eletto come indipendente.  
Noi eravamo di casa, a due passi da casa, nella guerra dello “Yom Kippur”, dell’attacco militare egiziano ad Israele (ottobre 1973), nella guerra civile tra musulmani, palestinesi e cristiani maroniti del Libano, disputato da Siria ed Israele.
 Noi eravamo lontani dalla mafia e da casa; eravamo di casa in quella schifezza feroce del cambogiano Pol Pot, nel Cile del povero Allende e dell’abominevole Pinochet, nel Portogallo post-salazarista e nella Spagna senza Francisco Franco.
Eravamo in ogni luogo, tranne che a Catania. E conoscevamo Sarti, Burgnich, Facchetti e Gigi Meroni. Sapevamo tutto dei Drusi, dei Falascià etiopi, dei Senussiti libici, delle nazioni degli Indiani del Nord America, di Sartre e di Camus.
Non ci restava tempo per informarci delle correnti democristiane nazionali, degli “ascari” dei partiti romani.
Drago, chi era Drago? E Micale? Di Turi Micale sapevamo quanto quel graffitaro insospettato di Checco Rovella aveva pittato sui muri cittadini: “Il Pigno ha sete e Micale se ne fotte”.
Chi, invece, era tutto a Catania di cui capiva gli umori profondamente superficiali, popolari, quello fu Pippo Recca, il geniale pioniere a Catania della “terza rivoluzione industriale” (televisione, informatica e telematica) che aveva fatto i primi passi negli Usa degli anni Cinquanta e i secondi, di corsa, in Giappone.
E a questa città, alla sua città regalò lo specchio, fedelissimo specchio: la televisione, “Teletna”.
Il libro di Lazzaro Danzuso è un omaggio a Pippo Recca e, nel contempo, un racconto stendhaliano (inconsapevole?) di questa nostra Grenoble, passata, prossima e ventura.



“La gioia che dà Stendhal è imprevedibile quanto la vita, quanto le ore di una giornata e quanto le giornate di una vita. Quando e quanto più crediamo di conoscerlo, ecco che ci sorprendiamo a scoprirlo in un passo, in una frase; o a sovvertire, tra i suoi libri, l’ordine delle preferenze, delle affezioni”










Testi di riferimento:


           Guido Ceronetti, Un viaggio in Italia, 1981-1983, Einaudi 1983
Franco Sidoti, Povertà, devianza, criminalità nell’Italia meridionale, Franco Angeli 1989
Alfio Caruso, Tutto a posto 1991 e  I penitenti, Mondadori 1993
Claudio Fava, La mafia comanda a Catania (1960-1991), Laterza 1991
Antonio Di Grado, Casa la Gloria, Il Girasole 1992
Enzo Russo, Nato in Sicilia, Mondadori 1992
Silvana La Spina, L’ultimo treno da Catania, Bompiani 1992
Tino Vittorio, L’ordine e la moralità negli affari a Catania, Collegio de Ragionieri di       Catania 1993
Fabio Albanese, La tele dell’Etna, Bonanno 2007

La perfezione nana dell'isola delle feci e del sangue del Potere




La fine è la perfezione dell’origine - si diceva. La conclusione di ogni cosa compie e falsifica o verifica il modo primario dell’apparire. Se questo è vero, leggeremo il saggio di Sara Gentile (L'isola del potere. Metafore del dominio nel romanzo di Leonardo Sciascia, Donzelli 1995) dalla fine per scoprire che il titolo di copertina per essere perfetto, cioè coerente nella sua compiutezza, suonerebbe più correttamente ed indiscutibilmente in altro modo: L’isola del contropotere o dell’antipotere.
Lo studio della studiosa catanese del Linguaggio della politica, titolo dell'insegnamento professato nell'Università di Catania, si chiude infatti con un capitolo dedicato a Giuseppe Rensi, un avvocato, filosofo vissuto tra il 1871 e il 1941. Socialista, interventista, protofascista ed antifascista, sospeso dall’attività di docente nel 1927, arrestato nel 1930 e liberato nel 1934, finì i suoi giorni in oscura occupazione.
Rensi è uno stirneriano (conoscendo i due, Max Stirner e Karl  Marx, il primo vale più del secondo che pure ha avuto valore immenso nella storia contemporanea del pianeta), un anarca pre-jungeriano (non anarchico), un razionalista conseguente che dissolve la ragione nella ragione e il potere nella sua irrazionalità. Un uomo d’ordine, proprio perché non c’è alcun ordine razionalmente fondato. Un critico della ragion pura che deprecando l’assurdo della ragione, cerca fondamenti civili altrove. La corda pazza di Sciascia è tutta raccolta - per essere svolta - in Rensi che impara a conoscere da un professore di liceo che sarà il professore di Estetica all’Università di Catania, Giuseppe Bianca. Nel 1987 nella prefazione ad un’ opera di Rensi, Lettere spirituali, pubblicata da Adelphi nel 1987, Sciascia rievocando i suoi anni scolastici e la frequentazione delle lezioni di Bianca, narra come si sia imbattuto in Rensi: "Tra i filosofi di cui si conversava(propriamente si conversava, e anche, cosa che allora era incredibile potesse accadere in un'aula scolastica, fumando), il professore evidentemente amava molto Spinoza; e io ne ero affascinato. E mi consigliò, il professore, di leggere un libro che su questo filosofo aveva scritto, chiarendone ogni oscurità, un filosofo italiano che il fascismo aveva allontanato dall'insegnamento universitario: Giuseppe Rensi. Trovai il libro alla biblioteca comunale: e avidamente lo lessi pigliando qualche appunto, copiando qualche pagina. Libro davvero di cristallina chiarezza e di grande passione: e oltre a rendere più affascinante Spinoza, mi affezionò a Rensi così intensamente e durevolmente che non solo lessi e rilessi allora tutti suoi libri che riuscii a trovare, ma ancora oggi [1987], quando la sera cerco un libro che mi accompagni a chiudere la giornata con intelligente serenità, armoniosamente in accordo con me stesso, con la vita, con la morte, spesso mi accade di riprenderne uno suo: i suoi paradossi, i suoi dialoghi, il suo Gorgia, la sua Autobiografia intellettuale..." (pp. 2-3). 
Omaggiata l'intelligenza di Sciascia, riapprodiamo sull'isola della Gentile. L’isola dell’antipotere o l’isola dove il potere non sopporta belletti, mistificazioni giusnaturaliste o contrattualiste, ma dove è potere tout court, mafioso, inelegante e che ricorda in qualsiasi momento la sua nascita, le feci e il sangue del parto. In questo senso è l’isola del potere, l’isola dell'Inquisizione e di Diego la Matina, del carnefice e della vittima, della mafia che è potere perché contropotere, del tiranno perché ribelle, della bella scrittura tagliente come una durlindana, esplosiva come una carica di dinamite, potere del carabiniere e potere di don Mariano Arena. Se nulla si fonda razionalmente, se ogni ordine ha la sua ragione, ogni ragione cercherà di stabilire un ordine. Con la forza. Con il potere.
E quindi arriviamo alla vera isola del potere che è Creta, l’antica Creta di Minosse, pirata, detentore di una ragione valida quanto l’altra dei suoi concorrenti, di chi correva il mare Egeo per depredare. Minosse è il legislatore che inventa il diritto, il nomos, per la civiltà greca da cui deriva la civiltà occidentale. Platone, un difensore dell’aristocrazia agraria e fustigatore della democrazia dei teti, dei rematori dell’impero navale ateniese, fa derivare nomos da nous (mente, intelligenza), sostenendo che la legge e, quindi, il potere legittimo, è “scoperta [intellettuale] di qualcosa che è” (Minosse, un dialogo platonico ritenuto spurio da alcuni studiosi) ha lo stesso fondamento della scienza a statuto hard, come la matematica o la fisica. Questa tesi la fa derivare paradossalmente da un pirata,da Minosse, da un uomo che non poteva conoscere il nomos perché il nomos attiene alla terra, come ha ben spiegato Carl Schmidt. Platone odia i marinai non solo perché sono “democratici”, ma perché inferiori moralmente ai fanti-contadini ai quali è interdetto antropologicamente l'uso del mare che permise agli ateniesi, davanti ai  Persiani invasori, di imbarcarsi sulle navi e mettersi in salvo. Platone esalta le battaglie campali di Maratona (490 a.c.) e di Platea (479 a.c.) e svaluta Salamina (449 a.c.). Platone odia i mercanti di mare e chiede che le città, prive di boschi ( il legname potrebbe essere una tentazione), debbano essere costruite ad ottanta stadi dal mare (uno stadio=177 metri, quindi 14 km). Platone  - coerentemente fino alla patologia - odia i pescatori.

Creta e la Sicilia, il potere e l’antipotere, la terra e il mare, Platone e Sciascia.

Attraverso questo giro per le isole del Mediterraneo acquista un altro valore la constatazione di Leonardo Sciascia, constatazione sia pure errata nell’argomentazione, del mancato rapporto tra i siciliani ed il mare.
L’isola ha un patologico rapporto con il potere, con il nomos, perché questo non gli appartiene, perché il nomos è un valore peninsulare, continentale, estraneo cioè ad ogni siciliano che trovi la sua eidos, la sua idea, la sua sostanza, sub-stantia nel mare.

Del libro della Gentile se ne può parlare in tanti altri modi. La Gentile ha però imposto di leggere Sciascia con ragioni filosofiche, con Rensi e non con Verga, Pirandello, Brancati, insomma con la grande tradizione letteraria. La Gentile ha sottratto Sciascia all'insipiente trombonaggine degli italianisti, sapienti di retorica con cui infarinano tutto e tutti fino al travisamento e al disarmo morale e politico.
E, senza indugiare oltre, bisognerebbe sottrarre gli isolani alla loro insularità che li rende nani e presuntuosi, perfetti perché senza spazio e senza tempo (o, meglio, con poco spazio e con poco tempo; ma il poco nel poco è immensità infinita, ché il tempo è la distanza spaziale fra due punti e un solo punto è l'annullamento dello spazio, l'assenza di tempo, l'Eternità)), incresciuti come l'Eternità. Leggiamo Lucien Febvre, La terra e l'evoluzione umana (Einaudi): "Di qualsiasi tipo siano le isole, a qualsiasi genere appartengano, esse costituiscono per il naturalista esperienze grandiose [...]. Le condizioni ambientali, al tempo stesso speciali e monotone, agiscono con una forza e una regolarità affatto particolari sulle specie animali isolate dalla loro radice, prive di relazioni regolari e frequenti con quelle dei continenti o delle terre da cui il mare li separa. In tal modo le mutazioni che possono subire si perpetuano fino a raggiungere la formazione di un grande numero di specie endemiche. Un grande numero in senso relativo[...] perché una delle caratteristiche meglio accertate delle isole è proprio il piccolo numero complessivo delle specie vegetali o animalo che ospitano; di qui spesso il loro arcaismo: questi pezzi di terra distaccati agiscono facilmente come riserve naturali di forme che scompaiono sui continenti; e infine il frequente nanismo degli animali [e degli uomini] che la abitano [...]. Endemismo, povertà della popolazione, arcaismo persistente, nanismo sono gli effetti diretti o indiretti di questa dominante delle condizioni insulari: l'isolamento in mezzo alle acque marine". Pare la fotografia della melenzana, precisa precisa!

sabato 26 ottobre 2013

Le femmine mussoliniane, i maschi antimussoliniani

Cade il fascismo: donna Rachele violata in macchina, Claretta Petacci ammazzata. Un ritorno al grado zero dell'animalità:le donne ricacciate indietro allo stadio di femmine, gli uomini nelle caverne del maschio miserabile capo-sottocapo-ispettore-branco

Com'è dolce naufragar per i naufraghi del mondo: Leopardi in Latouche. Latouche in Australia!











Il Centro di Accoglienza dell'Australia e i Centri di Accoglienza dell'Italia

23 ottobre 2013 presentazione di Serge Latouche a Catania, ex Facoltà di Economia e Commercio. E sospettiamo che soltanto in luoghi di sottosviluppo presuntuoso possa riscuotere credito il latouchismo della "decrescita felice". Ispirato a un latouchismo critico uno dei presentatori, professore d'economia e pretendente alla sindacatura della città, ontologicamente o storicamente "decresciuta", flagellata come gran parte del Sud dagli alti e antichi tassi disoccupazione, scopre una vecchia e vuota e rumorosa formula sindacale radical chic: "lavorare meno". E... da tagliarsi le vene! Che ne pensano gli inglesi, i tedeschi, gli americani, gli indiani, i cinesi di Latouche?

1787: ha cominciamento la colonizzazione inglese dell'Australia, esplorata nel 1770 da James Cook. Una grande prigione, una cloaca criminale dove restringere e "denuclearizzare" l'eccesso demografico e umorale, la delinquenza inglese, lo scarto dell'industrializzazione, la disoccupazione di massa dei contadini inurbati nel naufragio del primo fungo atomico della modernizzazione. E' anche la compensazione della perdita delle colonie americane e una profilassi sociale: esportare i poveri prima che diventino delinquenti (ché prima o poi scoprono di non avere altro di intelligente da fare: Robert Hughes, La riva fatale. L'epopea della fondazione dell'Australia (Adelphi 1995).

giovedì 24 ottobre 2013

Il modo di produzione mafioso o l'immensità del numero degli spiluccatori: il settore formativo



Clio, Musa della Storia

Raffigurazione (1632) di Clio,
Musa della Storiografia
Artemisia Gentileschi (1593-1652/3).


Il pizzo sulle Muse, dee dell'intelligenza artistica e scientifica, sulla risorsa Clio, ad esempio, è l'immensa quantità di stipendi erogati per l'amministrazione del sapere. Come - nell'immagine di Antonio Gramsci - sullo sterco del cavallo si affollano gli uccelli a beccare e ad amministrarselo, così sui docenti si avventano gli amministrativi e gli ausiliari delle scuole e dell'Università per amministrare la risorsa del sapere. Nessun bene può valere meno del costo della sua amministrazione: un'abitazione il cui affitto valesse meno della sua gestione sarebbe fuori mercato, non susciterebbe interesse alcuno negli investitori, sarebbe inabitabile, deserta, dissestata come un professore nei suoi vestiti dozzinali, comprati all'oviesse. Un docente vale meno di un ausiliario o di un funzionario. Ai politici italiani piace questa squola,che è la squola da cui provengono, la squola del funzionariato di sezione, dello sbrigafaccende di quartiere. E senza quartiere è la guerra che i politici conducono sotto la bandiera dell'antintellettualismo contro i sapienti. Bisogna rinnovare la zoopolitologia machiavelliana e aggiungere al "lione" e alla "golpe" l'asino che, rampollo scalciante della forza leonina e furbo della faccia tosta volpina, recluta e comanda gli avvoltoi rapaci degli amministrativi e degli ausiliari.
Quando non sanno usarli o consigliarli i Sapienti disprezzano i politici che, biascicanti ipocrita rispetto (la Scienza, ah, la Scienza!), impauriti e in soggezione, dopo averli conficcati a testa in giù, li sottomettono,all'aria sgambettanti, agli amministrativi. O ai militari come quando, alla morte nel luglio del 1937 di Guglielmo Marconi, fondatore e presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, a prendere il posto fu  fino al 1941 Pietro Badoglio, il Maresciallaggio d'Italia, con una prebenda di 100.000 lire annue. La storiografia ancora (e chissà fino a quando!) si interroga sul contributo badogliano al CNR!

Il mare nostro delle sabbie mobili

La scoperta degli oceani aprì all'Occidente gli orizzonti dell'egemonia planetaria. Al contrario, permane nella condizione di pantano il mare italiano, il mare Mediterraneo, residuo degli Oceani dopo l'emersione dei Continenti e la frantumazione del Panthalatta: vi si radica il futuro. Di chi vi affoga! E allora

sabato 19 ottobre 2013

Memorabile: lo studio della storia è la rimozione in varie forme del passato

















"Ireneo cominciò con l'enumerare, in latino e in spagnolo, i casi di memoria prodigiosa registrati dalla Naturalis Historia: Ciro, re dei persiani, che sapeva chiamare per nome tutti soldati del suo esercito; Mitridate Eupatore, che amministrava la giustizia nelle ventidue lingue del suo impero; Simonide, inventore della mnemotecnica; Metrodoro, che professava l'arte di ripetere fedelmente ciò che avesse ascoltato una sola volta [...s]'accorse della paralisi [...] ragionò (o sentì) che l'immobilità era un prezzo minimo; ora la sua percezione e la sua memoria erano infallibili", (Jorge Luis Borges, Funes o della memoria").

La memoria si illude di rendere somigliante al passato il futuro. Pertanto, è decisiva l'argomentazione di Boncompagno da Signa, vissuto tra il 1170 e il 1250: " Memoria è un glorioso e ammirevole dono di natura, per mezzo del quale rievochiamo le cose passate, abbracciamo le presenti e contempliamo le future, grazie alla loro somiglianza con le passate" (il passo è tratto e tradotto da Rhetorica Novissima del 1235).
Ma la memoria non è innocente "dono di natura"; è un astuto artificio, una tecnè, ars memorandi, memotecnica. Ricordare è una decisione e una rimozione, una disposizione di immagini ordinata al ben fare. Il diario, il trasferimento diretto dell'evento al segno che lo renda memorabile, pretende di essere l'autopsia della storia, la "visione diretta", la maniera irrefutabile o non falsificabile della storiografia, della rappresentazione per segni verbali degli avvenimenti. Il testimone oculare rappresenta quel che vede (eidein,indagare in greco, attorno a cui si aggrega la pasta linguistica che va a formare istorein, investigare e giudicare). Fare e testimoniare il fare sono la coincidenza tra storia (res gestae) e storiografia (historia rerum gestarum): l'irrefutabilità tipica della scienza a-popperiana (il delirio) è il proprio punto di vista, il personale punto di vista (ma non esiste un punto di vista che non debba essere personale: se vedo, sono per me e per quello che vedo). E poiché l'accaduto (qualsiasi evento, compreso l'onirico) si rappresenta verbalmente, la storiografia è una questione di stile linguistico, un'operazione dell' ars dicendi o scribendi, è Retorica, Institutio oratoria, composta in Marco Fabio Quintiliano di cinque parti, inventio come escogitazione, dispositio o distribuzione, elocutio o adeguamento delle parole alla cosa escogitata, la più nobile, memoria, luogo o facoltà popolata da fantasmi, ché a dire di Tommaso d'Aquino, nihil potest homo intelligere sine phantasmate (nulla può l'uomo capire senza disporre di immagini che sono il simulacro memorabile di eventi o enti fisici) e, quindi, actio, agire da vir bonus, rettamente morale o politicamente corretto. Actio vale anche come rappresent/azione. Per un solo fatto mille, centomila miliardi di rappresentazioni, dove ogni rappresentazione è un altro fatto. Mentre resta imprenscindibile The Art of Memory (L'arte della memoria, Einaudi 1972) della Frances A. Yates, risulta talmudico il divertissement di Raymond Queneau, Esercizi di stile ( Exercises de style) che la Gallimard pubblicò nel 1947. Se ne  raccomanda l'edizione italiana dell'Einaudi, prefata da Umberto Eco e postfata da Stefano Bartezzaghi.
La scrittura è la tumulazione della storia dopo esserne stato composto il cadavere pre-dissezionato e studiato in ogni dettaglio. La conoscenza di quel corpo esanime eviterà che il cadavere (o il passato) si presenti in maschera con le vive sembianze del futuro, come il corpo annegato dell'operazione Mincemeat con cui gli Inglesi presero per il naso Hitler: a credere ai cadaveri, si diventa cadaveri.
La storiografia si pone a servizio della memoria per farne opera qualificata di rimozione. L'unica maniera per liberarsi del passato è il suo studio. E così vissero infelici, sconfortati, ma liberi! O, forse, meglio detto con l'aforisma di Giuseppe Raciti: "L'accertamento storico ha un solo scopo, quello di esorcizzare l'influsso del passato sul presente; sicché le tesi degli storici sono altrettanti chiodi ribaditi sul coperchio dei fatti. Ogni indagine storica è un seppellimento prematuro".
Archeologia genealogica come in Foucault! Fatti e valori sono costituiti, hanno una genealogia di un lontano arché, posto alla fine e all'inizio. L'Io non costituisce la sua erranza, non è un costituente. E come nei viaggi non vale tanto il luogo di partenza o quello di arrivo, quanto il viaggio.
La storiografia come "contro-memoria" (Art of Counter-Memory) per "la dissociazione sistematica della nostra identità", come spiega con abbagliante chiarezza il passo seguente di Foucault, lettore di Nietzsche: " Poiché questa identità, pur debole, che cerchiamo di assicurare e di raccogliere sotto una maschera, non è che una parodia: il plurale l'abita, anime innumerevoli vi si disputano; i sistemi si incrociano e si dominano gli uni gli altri [...]. E in ognuna di queste anime, la storia [ id est la storiografia] non scoprirà un'identità dimenticata, sempre pronta a rinascere, ma un sistema complesso di elementi a loro volta molteplici, distinti, e che nessun potere di sintesi domina[...] La storia [come sopra], genealogicamente diretta, non ha per fine di ritrovare le radici della nostra identità, ma d'accanirsi al contrario a dissiparla; non si mette a cercare il luogo unico da dove veniamo, questa prima patria dove i metafisici ci promettono che faremo ritorno; essa si occupa di fare apparire tutte le discontinuità che ci attraversano[...]"(Nietzsche, la genealogia, la storia in M. Foucault, Il discorso, la storia, la verità, Einaudi 2001, p. p. 61-62).La storiografia come produzione di immagini (narrate) per mezzo di immagini (documentarie, documentate) è la più potente delle attività retoriche, l'opus rethoricum per eccellenza: metabolizza e piega alla sua sostanza verbale persino la durezza della statistica, delle rappresentazioni istologiche, dei diagrammi, degli assi cartesiani, delle "torte", di tutto l'armamentario hard del sapere matematizzato. Lo storiografo recalcitrante è un uomo di "lettere" (le alfabetiche vocali, consonanti e le figure retoriche) a sua insaputa. Sa cocciutamente di volere essere il sacerdote della Verità, il Profeta del Passato. E' troppo pieno di sé, di boria teleologica orientata a trasformare la Storia remota, prossima e futura in Teologia (basta poco alla Teleologia per farsi Teologia!). Il negazionismo non è un'antistoriografia, né anti-Storia (come potrebbe esserci nella Storia l'anti-Storia?), ma storiografia della negazione e conserva di ogni evento (negato) l'alone della sua presenza. Più radicalmente, per l'eliminazione dell'alone, sopravvive la tecnica della distruzione o della sottrazione dei libri storiografici, acquistati in blocco e fatti sparire come nel caso dell'Agip che ha buttato nella foiba della rimozione colpevole il racconto, edito nel 1970, di E. Hytten e M. Marchioni (Industrializzazione senza sviluppo:Gela una storia meridionale, Franco Angeli, Milano 1970) sul fare industria a Gela dove la fabbrica petrolchimica, assieme alla classe operaia, erede della filosofia classica tedesca,vi fece crescere la delinquenza locale in mafia, erede della marginalità classica siciliana. Anche l'Agip ha studiato la Storia, facendone storiografia dell'abrasione, imitando tutti quegli accademici che obliano nel silenzio altri accademici di parere e di racconto diversi, indegni di avere posto nemmeno in una nota a piede di pagina,

giovedì 10 ottobre 2013

La Lulinciana di Lucky Luciano e la storiografia vibrante di antimafia



Ora ora arrivau u ferribotti carico di mulinciani avvolte in un panno e in un fazzoletto "large"(L)!








Rispondenze: "L" come "M". 
Da quando l'ha raccontata Michele Pantaleone in Mafia e politica 1943-1962 (Einaudi 1962) la storiella della "L" è passato più di mezzo secolo. E' stata ripresa in questi ultimi cinquanta anni da vari altri autori con qualche variante come quella apportata al velivolo, non più un caccia ma un piccolo aereo color kaki. La rivista, l'ultimo ferribotto, "Storia" del numero doppio 93-94 del luglio agosto 2013, con in copertina il titolo 1943. L'estate della svolta (e dei misteri), torna sull'argomento del legame tra Cosa nostra e invasione anglo-americana per segnalare "una lista di circa ottocento uomini su cui poter ciecamente contare e due voli compiuti da aerei da caccia statunitensi su Villalba, paese del Vizzini, perché paracadutassero un panno e un fazzoletto di seta giallo-oro con ricamata la 'L' nera di Lucky Luciano, forse per spingere la popolazione a sottomettersi all'esercito americano così com'era sottomessa al potere dei mammasantissima".  Volava in quota da crociera a una velocità di 700 km/h un aereo da caccia americano. Volava e se ne fotteva della contraerea italo-tedesca ché era Cosa Nostra. Era un cacciabombardiere mafioso a tuffo, era solo un caccia che scendeva a bassa quota? Bassa quanto? Preciso preciso da riuscire a depositare -  due passi dall'abitazione di don Calò Vizzini a Villalba - un fazzoletto con una "L" ricamata e raccomandata con il timbro postale della Mafia siculo-americana. Il 14 luglio 1943 non c'era un refolo di vento, afa stagnante siciliana? Ma pure in questo caso 700km/h ne creano di vento tanto che riuscirebbe difficile fare recapitare preciso preciso con l'approssimazione di un centimetro a due passi dell'abitazione di don Calò un fazzoletto che non doveva essere più pesante di una mulinciana per quanto siculo-americana! Don Calò era un uomo di Chiesa e non aveva bisogno della mafia per accreditarsi agli occhi del colonnello Charles Poletti, responsabile dell'Amministrazione militare del governo dei territori occupati(AMGOT). Finemula! O come intima internazionalisticamente la mia amica H. ai figli infantilmente turbolenti e supponenti: "Stop it!".
P.S. E' proprio vero: anche Omero di tanto in tanto dormicchia. Barbara Spinelli - che scrive sempre con coltissima e condivisa intelligenza - ne L'Europa di cui abbiamo bisogno. Il potere senza responsabilità, una lettura alle "Tre giornate. 11-13 ottobre 2013" del Teatro La Fenice di Venezia - tra il "possibilitarismo" di Musil (il suo uomo senza qualità è Ulrich, "Moeglichkeitsmensch, un uomo delle possibilità, un possibilitario") e il virtualismo storico di Niall Fergusson - affolla la schiera della storiografia dei mammasantissima dell'operazione Husky ritenuta "mafiosa": "gli americani avrebbero potuto rifiutare accordi con la Mafia siciliana,quando liberarono il nostro paese dal fascismo, e la storia italiana del dopoguerra sarebbe stata diversa: forse non staremmo ancora a parlare di patti tra Stato e mafia".