
La fine è la perfezione dell’origine- amiamo ripetere! Così i
castelli del Mezzogiorno d’Italia d'epoca bizantina si perfezionano in torri di
avvistamento, in fortificazioni costiere alla fine del viceregno spagnolo.
A metà del secolo IX l’impero d’Oriente di Bisanzio
si dava a costruire castelli contro gli invasori arabi che avevano dato vita alla lunga guerra di conquista nell’827,
sbarcando in quell’approdo di Dio, Mars Allah, Marsala, e fermandosi a Taormina nel 902 dopo
avere espugnato nell’831 Palermo, Enna nell’859, Siracusa nell’878.
I castelli isolani, i manufatti fortificati, pur
nella diversità dei suoi costruttori, bizantini, normanni, svevi, aragonesi e
spagnoli (meglio: castigliani), hanno in comune il dato di costituzione mentale: la rinuncia ad una strategia offensiva sul mare. In misura
diversa, si scelse di non armare flotte orientate ad intercettare e a
contrattaccare i nemici che utilizzavano il dominio delle rotte di mare. Si arretrerà la strategia bellica sulle
coste, interrando le navi in forma di castelli, dimentichi della sostanza
dell’impero navale ateniese, raccontata da Tucidide nella sua Guerra del
Peloponneso.
Un intelligente punto di partenza per l’esame dei
castelli siciliani è proposto da Ferdinando Maurici che, sulla scorta delle
testimonianze di due autori arabi, Ibn al Athir ed An Nuwayri, ha scritto nel
suo libro, Castelli medievali in Sicilia, pubblicato dalla Sellerio nel
1992: “I due storici datano l’inizio del grande incastellamento bizantino in
Sicilia intorno alla metà del IX secolo, quindi in un momento in cui i problemi
della
rivolta berbera imposero agli arabi la sospensione o
almeno la riduzione dell’iniziativa aggressiva contro l’isola”. Nessuna fuga
dal mare, nessuna paura del mare, ma rinuncia a stare sul mare e ad affrontare
gli arabi sulle coste di partenza del Maghreb o sulle rotte marittime. Per fare
ciò, bisognava costruire flotte statali o favorire l’armamento privato e,
innanzitutto, spostare l’interesse geopolitico di Bisanzio dall’Anatolia alla
Sicilia. Si preferì, invece, la realizzazione di fortificazioni che imponeva
“l’accentramento di popolazione postulato da un incastellamento massiccio […]
dell’abitato”. Così all’origine. E così sarà alla fine, con l’occupazione
spagnola della Sicilia quando, già prima della battaglia navale di Lepanto del
1571 fra i Cristiani dell’armata spagnola
e gli islamici dell’armata ottomana, non volendo o non potendo debellare
sulle coste dell’Algeria o della Tunisia la potenza corsara delle Reggenze
barbaresche protette dall’Impero Ottomano, non potendo armare flotte navali per
il fronte secondario del Mediterraneo (quello primario era rappresentato
dall’Oceano Atlantico), non permettendo (anzi, diffidandone) la coltivazione
dello spirito marziale delle aristocrazie coloniali, si decise di disseminare -
per tutta la costa dell’Italia meridionale dagli Abruzzi alla Campania e oltre
- torri di avvistamento, opere di restauro di manufatti fortificati da cui con
fumo, sventolio di bandiere colorate, falò o esplosione di colpi di bombarda
dare l’allarme alle popolazioni. Per scappare tutti, come galline
inseguite da volpi, in luoghi meno accessibili agli incursori del mare. Non era
un “alle armi”, ma un “ai piedi”.
I nostri castelli non sono la memoria del potere
signorile che minacciava e proteggeva la
popolazione del luogo. Sono corpi estranei, paurosi, incombenti sulla psiche
dei siciliani. Caratteristiche perse dal castello Ursino di Catania, grazie alla lava che,
mangiandogli il mare, ha ridicolizzato l’opera di Federico II, mettendo il manufatto federiciano al
livello delle abitazioni dei sudditi. Diversamente che a Gagliano Castelferrato dove si permane a vivere con un fortilizio
rupestre sulla testa. Deprimente mal di capo!
I castelli deprimono, appunto; non ricordano uomini, ma
conigli e dominatori estranei. I castelli sono navi interrate! Castellificare è (fu) denavalizzare; il contadino è un marinaio stordito, smarrito, un pescatore di melenzane! -
Wich sta ad indicare un luogo inglese in cui si produce(va) sale in città-saline di mare.Non si registrano in Italia posti il cui nome sia combinato con "sale". Calat (rocca), in Sicilia il wich diffuso inglese, si combina in suffisso di nome di città, arroccate, chiuse in se stesse come a tenere un pugno di terra stretto nel ... pugno dell'altra mano libera dalla vanga o dall'aratro. Il pesce (piscis-fish) che ha cambiato il mondo inseguito nei mari del Nord Europa (magistrale di MarK Kurlansky il Merluzzo. Storia del pesce che ha cambiato il mondo, Mondadori 1997) per i supposti Indoeuropei è una “bestia del corso d’acqua”, del *mor (mare). Di scarso interesse alimentare, quindi. E “ciò confermerebbe l’idea che gli antichissimi popoli di lingua indoeuropea manifestavano, nei confronti del pesce, un certo distacco[…]. Questa repulsione si comprende bene ricordando che la carne del pesce si conserva male: essa non poteva costituire, dunque, una seria risorsa alimentare prima della scoperta delle tecniche di conservazione, come l’affumicatura [stock-fish] e la salatura [salt-fish]" in André Martinet, p. 37 dell'edizione Laterza 1987, L'Indoeuropeo. Lingue, popoli e culture (in francese il titolo è più ricco, più ... titolato: Des steppes aux océans. L'indo-européen et les "indoeuropéens". Ma tutti gli indoeuropeisti e gli studiosi di linguistica comparata se la dovrebbero vedere con Giovanni Semerano che oltre al sapido e rapido La favola dell'indoeuropeo (Mondadori 2005) ha scritto su Le origini[mesopotamiche] della cultura europea (Leo S. Olschki) 4 volumi di cui due sono dizionari etimologici.
Wich sta ad indicare un luogo inglese in cui si produce(va) sale in città-saline di mare.Non si registrano in Italia posti il cui nome sia combinato con "sale". Calat (rocca), in Sicilia il wich diffuso inglese, si combina in suffisso di nome di città, arroccate, chiuse in se stesse come a tenere un pugno di terra stretto nel ... pugno dell'altra mano libera dalla vanga o dall'aratro. Il pesce (piscis-fish) che ha cambiato il mondo inseguito nei mari del Nord Europa (magistrale di MarK Kurlansky il Merluzzo. Storia del pesce che ha cambiato il mondo, Mondadori 1997) per i supposti Indoeuropei è una “bestia del corso d’acqua”, del *mor (mare). Di scarso interesse alimentare, quindi. E “ciò confermerebbe l’idea che gli antichissimi popoli di lingua indoeuropea manifestavano, nei confronti del pesce, un certo distacco[…]. Questa repulsione si comprende bene ricordando che la carne del pesce si conserva male: essa non poteva costituire, dunque, una seria risorsa alimentare prima della scoperta delle tecniche di conservazione, come l’affumicatura [stock-fish] e la salatura [salt-fish]" in André Martinet, p. 37 dell'edizione Laterza 1987, L'Indoeuropeo. Lingue, popoli e culture (in francese il titolo è più ricco, più ... titolato: Des steppes aux océans. L'indo-européen et les "indoeuropéens". Ma tutti gli indoeuropeisti e gli studiosi di linguistica comparata se la dovrebbero vedere con Giovanni Semerano che oltre al sapido e rapido La favola dell'indoeuropeo (Mondadori 2005) ha scritto su Le origini[mesopotamiche] della cultura europea (Leo S. Olschki) 4 volumi di cui due sono dizionari etimologici.
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