martedì 29 ottobre 2013

La perfezione nana dell'isola delle feci e del sangue del Potere




La fine è la perfezione dell’origine - si diceva. La conclusione di ogni cosa compie e falsifica o verifica il modo primario dell’apparire. Se questo è vero, leggeremo il saggio di Sara Gentile (L'isola del potere. Metafore del dominio nel romanzo di Leonardo Sciascia, Donzelli 1995) dalla fine per scoprire che il titolo di copertina per essere perfetto, cioè coerente nella sua compiutezza, suonerebbe più correttamente ed indiscutibilmente in altro modo: L’isola del contropotere o dell’antipotere.
Lo studio della studiosa catanese del Linguaggio della politica, titolo dell'insegnamento professato nell'Università di Catania, si chiude infatti con un capitolo dedicato a Giuseppe Rensi, un avvocato, filosofo vissuto tra il 1871 e il 1941. Socialista, interventista, protofascista ed antifascista, sospeso dall’attività di docente nel 1927, arrestato nel 1930 e liberato nel 1934, finì i suoi giorni in oscura occupazione.
Rensi è uno stirneriano (conoscendo i due, Max Stirner e Karl  Marx, il primo vale più del secondo che pure ha avuto valore immenso nella storia contemporanea del pianeta), un anarca pre-jungeriano (non anarchico), un razionalista conseguente che dissolve la ragione nella ragione e il potere nella sua irrazionalità. Un uomo d’ordine, proprio perché non c’è alcun ordine razionalmente fondato. Un critico della ragion pura che deprecando l’assurdo della ragione, cerca fondamenti civili altrove. La corda pazza di Sciascia è tutta raccolta - per essere svolta - in Rensi che impara a conoscere da un professore di liceo che sarà il professore di Estetica all’Università di Catania, Giuseppe Bianca. Nel 1987 nella prefazione ad un’ opera di Rensi, Lettere spirituali, pubblicata da Adelphi nel 1987, Sciascia rievocando i suoi anni scolastici e la frequentazione delle lezioni di Bianca, narra come si sia imbattuto in Rensi: "Tra i filosofi di cui si conversava(propriamente si conversava, e anche, cosa che allora era incredibile potesse accadere in un'aula scolastica, fumando), il professore evidentemente amava molto Spinoza; e io ne ero affascinato. E mi consigliò, il professore, di leggere un libro che su questo filosofo aveva scritto, chiarendone ogni oscurità, un filosofo italiano che il fascismo aveva allontanato dall'insegnamento universitario: Giuseppe Rensi. Trovai il libro alla biblioteca comunale: e avidamente lo lessi pigliando qualche appunto, copiando qualche pagina. Libro davvero di cristallina chiarezza e di grande passione: e oltre a rendere più affascinante Spinoza, mi affezionò a Rensi così intensamente e durevolmente che non solo lessi e rilessi allora tutti suoi libri che riuscii a trovare, ma ancora oggi [1987], quando la sera cerco un libro che mi accompagni a chiudere la giornata con intelligente serenità, armoniosamente in accordo con me stesso, con la vita, con la morte, spesso mi accade di riprenderne uno suo: i suoi paradossi, i suoi dialoghi, il suo Gorgia, la sua Autobiografia intellettuale..." (pp. 2-3). 
Omaggiata l'intelligenza di Sciascia, riapprodiamo sull'isola della Gentile. L’isola dell’antipotere o l’isola dove il potere non sopporta belletti, mistificazioni giusnaturaliste o contrattualiste, ma dove è potere tout court, mafioso, inelegante e che ricorda in qualsiasi momento la sua nascita, le feci e il sangue del parto. In questo senso è l’isola del potere, l’isola dell'Inquisizione e di Diego la Matina, del carnefice e della vittima, della mafia che è potere perché contropotere, del tiranno perché ribelle, della bella scrittura tagliente come una durlindana, esplosiva come una carica di dinamite, potere del carabiniere e potere di don Mariano Arena. Se nulla si fonda razionalmente, se ogni ordine ha la sua ragione, ogni ragione cercherà di stabilire un ordine. Con la forza. Con il potere.
E quindi arriviamo alla vera isola del potere che è Creta, l’antica Creta di Minosse, pirata, detentore di una ragione valida quanto l’altra dei suoi concorrenti, di chi correva il mare Egeo per depredare. Minosse è il legislatore che inventa il diritto, il nomos, per la civiltà greca da cui deriva la civiltà occidentale. Platone, un difensore dell’aristocrazia agraria e fustigatore della democrazia dei teti, dei rematori dell’impero navale ateniese, fa derivare nomos da nous (mente, intelligenza), sostenendo che la legge e, quindi, il potere legittimo, è “scoperta [intellettuale] di qualcosa che è” (Minosse, un dialogo platonico ritenuto spurio da alcuni studiosi) ha lo stesso fondamento della scienza a statuto hard, come la matematica o la fisica. Questa tesi la fa derivare paradossalmente da un pirata,da Minosse, da un uomo che non poteva conoscere il nomos perché il nomos attiene alla terra, come ha ben spiegato Carl Schmidt. Platone odia i marinai non solo perché sono “democratici”, ma perché inferiori moralmente ai fanti-contadini ai quali è interdetto antropologicamente l'uso del mare che permise agli ateniesi, davanti ai  Persiani invasori, di imbarcarsi sulle navi e mettersi in salvo. Platone esalta le battaglie campali di Maratona (490 a.c.) e di Platea (479 a.c.) e svaluta Salamina (449 a.c.). Platone odia i mercanti di mare e chiede che le città, prive di boschi ( il legname potrebbe essere una tentazione), debbano essere costruite ad ottanta stadi dal mare (uno stadio=177 metri, quindi 14 km). Platone  - coerentemente fino alla patologia - odia i pescatori.

Creta e la Sicilia, il potere e l’antipotere, la terra e il mare, Platone e Sciascia.

Attraverso questo giro per le isole del Mediterraneo acquista un altro valore la constatazione di Leonardo Sciascia, constatazione sia pure errata nell’argomentazione, del mancato rapporto tra i siciliani ed il mare.
L’isola ha un patologico rapporto con il potere, con il nomos, perché questo non gli appartiene, perché il nomos è un valore peninsulare, continentale, estraneo cioè ad ogni siciliano che trovi la sua eidos, la sua idea, la sua sostanza, sub-stantia nel mare.

Del libro della Gentile se ne può parlare in tanti altri modi. La Gentile ha però imposto di leggere Sciascia con ragioni filosofiche, con Rensi e non con Verga, Pirandello, Brancati, insomma con la grande tradizione letteraria. La Gentile ha sottratto Sciascia all'insipiente trombonaggine degli italianisti, sapienti di retorica con cui infarinano tutto e tutti fino al travisamento e al disarmo morale e politico.
E, senza indugiare oltre, bisognerebbe sottrarre gli isolani alla loro insularità che li rende nani e presuntuosi, perfetti perché senza spazio e senza tempo (o, meglio, con poco spazio e con poco tempo; ma il poco nel poco è immensità infinita, ché il tempo è la distanza spaziale fra due punti e un solo punto è l'annullamento dello spazio, l'assenza di tempo, l'Eternità)), incresciuti come l'Eternità. Leggiamo Lucien Febvre, La terra e l'evoluzione umana (Einaudi): "Di qualsiasi tipo siano le isole, a qualsiasi genere appartengano, esse costituiscono per il naturalista esperienze grandiose [...]. Le condizioni ambientali, al tempo stesso speciali e monotone, agiscono con una forza e una regolarità affatto particolari sulle specie animali isolate dalla loro radice, prive di relazioni regolari e frequenti con quelle dei continenti o delle terre da cui il mare li separa. In tal modo le mutazioni che possono subire si perpetuano fino a raggiungere la formazione di un grande numero di specie endemiche. Un grande numero in senso relativo[...] perché una delle caratteristiche meglio accertate delle isole è proprio il piccolo numero complessivo delle specie vegetali o animalo che ospitano; di qui spesso il loro arcaismo: questi pezzi di terra distaccati agiscono facilmente come riserve naturali di forme che scompaiono sui continenti; e infine il frequente nanismo degli animali [e degli uomini] che la abitano [...]. Endemismo, povertà della popolazione, arcaismo persistente, nanismo sono gli effetti diretti o indiretti di questa dominante delle condizioni insulari: l'isolamento in mezzo alle acque marine". Pare la fotografia della melenzana, precisa precisa!

Nessun commento:

Posta un commento