martedì 29 ottobre 2013

Julien Sorel a Catania o a Kuala Lampur


















“Per il luogo dove sono nato provo
una ripugnanza che arriva al disgusto fisico[…].
Tutto quanto è vile e comune nel genere borghese
 mi ricorda Grenoble; tutto quanto mi ricorda Grenoble
 mi fa orrore, no, orrore è troppo nobile; mi nausea” ( Henri Beyle)


Pippo Sapienza, in arte Pernacchia, Pippo Fava e, nel mezzo, Teletna di un altro Pippo, Pippo Recca: così vengono raccontati nel saggio, Teletna, nascita dell'Italia delle TV, (Bonanno 2009) di Giuseppe Lazzaro Danzuso gli anni Settanta del secolo scorso a Catania.
Non ci capivamo niente, noi stendhaliani di provincia (ma tutti i lettori di Stendhal erano provinciali, dannatamente marginali, e Stendhal odiava la città natale, Grenoble, come si può odiare una prigione di mediocrità e di ottusa violenza).     
Non ci capivamo niente e si vuole dire che ci era tutto chiaro: Manlio Sgalambro avrebbe detto (di Catania) che “nella città si può cogliere il tramonto di una civiltà camminando per le sue vie e dal volto dei suoi abitanti si può scoprire quanto sono vicini i barbari”.
La Medina dell’elefante (così la denominarono i dominatori Arabi) in quegli anni scollinava, andava in transumanza alla conquista dell’Etna, della sua conurbazione, dei comuni etnei. L’incremento demografico (saldo attivo delle nascite sulle morti e flusso immigratorio interno) si andava a depositare lungo la direttrice Nord e Nord-Est ad Acicatena, Gravina, San Giovanni La Punta, San Gregorio di Catania, Sant’Agata li Battiati, Mascalucia, Tremestieri etneo, Acicastello.
Si esaltava l’antica vocazione catanese di “fabbricar palazzi”, una vocazione da terremotati, da dissepolti dalle macerie di quei terremoti che costringono i sopravvissuti a ricostruire come ossessi, come il frullìo di api impazzite davanti a un alveare crepato.
       Si riduceva ulteriormente l’attività agricola (dal 1951 al 1981 l’agricoltura perdeva il 27,9% dei suoi addetti), il terziario dell’impiego pubblico, del commercio al minuto e della vita di espedienti si innalzava e si allargava come un “fungo” atomico (dal 30,3% del 1951 al 53,9% del 1981).
La città si de-urbanizzava con un decremento di popolazione residente del 4,9% tra il 1971 e il 1981, passando nel decennio dai 400.048 abitanti  ai 380.328).
Negli anni di cui tratta Lazzaro Danzuso, tutto il comparto delle attività legate all’acqua, al gas, alle industrie estrattive, a quelle manifatturiere per la trasformazione dei metalli e per la meccanica di precisione beneficiò dell’incremento irrisorio di 371 unità (ma la si continuava a chiamare, Catania, la Milano del Sud). Era il settore delle costruzioni(comprese le industrie di installazione degli impianti di edilizia) a fare un ragguardevole balzo in avanti raggiungendo la quota di 2.665 unità  che erano 911 nel 1971.
Mentre a Torino comandava Agnelli, a Catania - ricorda Lazzaro Danzuso - la politica della città che era cronaca giudiziaria sceglieva ad interlocutori privilegiati gli astri autoctoni dell’imprenditoria: Ferrini, Massimino e i quattro cavalieri dell’Apocalisse.
La città, odiata-amata da Giuseppe Fava, si preparava ad essere rappresentata spietatamente dai romanzi (romanzi?) di Silvana La Spina, Enzo Russo, Alfio Caruso, di Antonio Di Grado. La città si preparava ad accogliere il viaggiatore apocalittico Ceronetti per fargli scrivere che “a Catania non c’è di bello che quel che è in sfacelo […]. Questo era un popolo fatto dalla povertà, nato per essere povero; il denaro l’ha fritto come in un’enorme padella, e oggi la sua faccia è annerita, ustionata”.
Non ci capivamo niente: a Catania la delinquenza ubiquitaria dei quartieri stava trovando il suo posto di eccellenza nella mafia. Uno l’aveva capito, ma noi non avevamo capito che Giuseppe Fava l’aveva capito. Ci pareva fosse una trovata teatrale (Catania è una città teatrale diceva Sciascia, dice Lazzaro Danzuso, diciamo noi che mai la prendemmo, la prenderemo sul serio), un’esagerazione da cui distogliere attenzione ed energie, indirizzate, invece, nei laboratori rivoluzionari. Che fossero mafiosi i nostri imprenditori, non lo si voleva riconoscere perché ciò  avrebbe ridimensionato l’impegno dell’apocalisse rivoluzionaria a solletico riformista, a predica morale: per noi il capitalismo era intrinsecamente violento, a Milano, felpatamente morbido, a Catania spudoratamente mafioso. Insomma, la mafia era un aggettivo del sostantivo “padrone”. E noi eravamo ragazzi di sostanza, sostanzialisti.
Non ci capivamo niente, ma Catania non ci piaceva. Non ci piacevano i suoi giornalisti, non leggevamo la stampa locale ed aspettavamo, come gli Ebrei il Messia giustiziere, l’uscita di “Giovane Critica” o l’arrivo dei “Quaderni Piacentini”.
Il libro di Giuseppe Lazzaro Danzuso ci fa capire le ragioni di quel disagio generazionale ed antropologico che subivamo e che non capivamo.
Un libro coraggioso: ci vuole coraggio ad iniziare il racconto di una città amata (grottescamente, ironicamente amata) con le imprese di Pippo Pernacchia o Pippu d’e pirita, uno che “si guadagnò da vivere per cinquant’anni praticando,  da vero virtuoso, lo sberleffo sonoro”. Pippo Sapienza come Julien Sorel de Il rosso e il nero di Henri Beyle: quello sberleffava a pagamento la città, questo leggeva contro la sua città, contro la sua famiglia. Non lo capivamo, ma Pippo era tutti noi, i contestatori che sognavano l’altrove, Parigi (o Londra).

L’autunno “caldo” delle lotte operaie e studentesche si faceva inverno algido degli anni di piombo, annunciato dall’uccisione dei braccianti di Avola del dicembre del 1968 e di due operai di Battipaglia nella primavera del 1969, esploso nel dicembre del 1969 con una bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano, e Giuseppe Pinelli cadde dalla finestra e, poi, all’anniversario, come una celebrazione di ricorrenza, il principe Junio Valerio Borghese tentò il colpo di Stato (ridicolo perché abortito) e Giovanni Leone, superstizioso come una maschera della commedia italiana, avvocato di un esponente della famiglia dei cavadduzzu in un processo per omicidio, eletto nel 1971 Presidente degli Italiani,di tutti gli Italiani, siciliani e il sottoscritto compresi, e Boia-chi- molla a Reggio di Calabria e Catania, dei sindaci incolori Magrì e Marcoccio, divenne nera: nelle elezioni comunali del 1971 il Movimento sociale Italiani ottenne un grande riconoscimento elettorale con il 21,5% dei voti.
 Il prezzo del petrolio dei paesi dell’Opec nell’autunno del 1973 giunse alle stelle, svalutando ulteriormente la lira, in balia dei cambi instabili seguiti all’abbandono (agosto1971) del gold exchange standard degli accordi di Bretton Woods del 1944 (la convertibiltà del dollaro in oro): giungeva al termine la ricreazione del lungo quarto di secolo dalla conclusione della seconda guerra mondiale.
 La stagflazione si aggirava per l’economia dell’Occidente: un matrimonio di sposi solitamente incompatibili, inflazione di prezzi con aumento della circolazione monetaria ( con il contributo locale dell’invenzione dei miniassegni di Pippo Recca, rammenta Lazzaro Danzuso) e stagnazione di produzione e reddito.
“Nixon boia”, tra Vietnam e Watergate, erano nel frattempo nate le Brigate rosse, era nato il Gap di Giangiacomo Feltrinelli, e si rapiva il giudice di Genova Mario Sossi. Una bomba a Brescia in piazza della Loggia (otto morti) e fu guerra civile tra i giovani. Gli adulti, i democristiani compagni di partito di Leone, Rumor e Gui, il socialdemocratico Tanassi prendevano tangenti dalla compagnia aerospaziale, Lockheed. E si sparava, senza misericordia e a bersaglio, alle gambe, al cuore, in testa a Montanelli, a Carlo Casalegno, a Walter Tobagi, a magistrati, a poliziotti, ad operai, a professori universitari, a studenti, a povera gente, ad Aldo Moro.
Come si poteva amare il paese di Giovanni Leone, quello delle corna apotropaiche, delle Brigate rosse e del terrorismo rosso e nero (solo cromaticamente stendhaliano)?
E chi poteva avere testa alla mafia di Catania? Solo uno: Giuseppe Fava che amava ed odiava Catania. Noi avremmo voluto essere (ed eravamo) altrove. Come Sciascia, maestro di stendhalismo, che, inaugurando i suoi romanzi (romanzi?)  di mafia con Il giorno della civetta (1961, rappresentato nel 1964 da Giancarlo Sbragia allo Stabile di Catania), “insegnando” (e trasfigurando in fantasma letterario) la mafia, in irriducibile opposizione aveva caparbiamente testa al “compromesso storico” tra Sinistra e “masse cattoliche che non esistono”, tra l’esistente (caspita, se esistente!) Andreotti e Berlinguer, nel cui partito alle comunali palermitane del 1975 il grand’uomo di Racalmuto veniva eletto come indipendente.  
Noi eravamo di casa, a due passi da casa, nella guerra dello “Yom Kippur”, dell’attacco militare egiziano ad Israele (ottobre 1973), nella guerra civile tra musulmani, palestinesi e cristiani maroniti del Libano, disputato da Siria ed Israele.
 Noi eravamo lontani dalla mafia e da casa; eravamo di casa in quella schifezza feroce del cambogiano Pol Pot, nel Cile del povero Allende e dell’abominevole Pinochet, nel Portogallo post-salazarista e nella Spagna senza Francisco Franco.
Eravamo in ogni luogo, tranne che a Catania. E conoscevamo Sarti, Burgnich, Facchetti e Gigi Meroni. Sapevamo tutto dei Drusi, dei Falascià etiopi, dei Senussiti libici, delle nazioni degli Indiani del Nord America, di Sartre e di Camus.
Non ci restava tempo per informarci delle correnti democristiane nazionali, degli “ascari” dei partiti romani.
Drago, chi era Drago? E Micale? Di Turi Micale sapevamo quanto quel graffitaro insospettato di Checco Rovella aveva pittato sui muri cittadini: “Il Pigno ha sete e Micale se ne fotte”.
Chi, invece, era tutto a Catania di cui capiva gli umori profondamente superficiali, popolari, quello fu Pippo Recca, il geniale pioniere a Catania della “terza rivoluzione industriale” (televisione, informatica e telematica) che aveva fatto i primi passi negli Usa degli anni Cinquanta e i secondi, di corsa, in Giappone.
E a questa città, alla sua città regalò lo specchio, fedelissimo specchio: la televisione, “Teletna”.
Il libro di Lazzaro Danzuso è un omaggio a Pippo Recca e, nel contempo, un racconto stendhaliano (inconsapevole?) di questa nostra Grenoble, passata, prossima e ventura.



“La gioia che dà Stendhal è imprevedibile quanto la vita, quanto le ore di una giornata e quanto le giornate di una vita. Quando e quanto più crediamo di conoscerlo, ecco che ci sorprendiamo a scoprirlo in un passo, in una frase; o a sovvertire, tra i suoi libri, l’ordine delle preferenze, delle affezioni”










Testi di riferimento:


           Guido Ceronetti, Un viaggio in Italia, 1981-1983, Einaudi 1983
Franco Sidoti, Povertà, devianza, criminalità nell’Italia meridionale, Franco Angeli 1989
Alfio Caruso, Tutto a posto 1991 e  I penitenti, Mondadori 1993
Claudio Fava, La mafia comanda a Catania (1960-1991), Laterza 1991
Antonio Di Grado, Casa la Gloria, Il Girasole 1992
Enzo Russo, Nato in Sicilia, Mondadori 1992
Silvana La Spina, L’ultimo treno da Catania, Bompiani 1992
Tino Vittorio, L’ordine e la moralità negli affari a Catania, Collegio de Ragionieri di       Catania 1993
Fabio Albanese, La tele dell’Etna, Bonanno 2007

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