lunedì 30 dicembre 2013

Adversus mulincianam






Contro la stanzialità estrema della mulinciana, il transumano di Jacques Attali de L'homme nomade, (2003, tradotto in italiano nel 2006 da Spirali edizioni):"[il transumano - che è la condizione di meticciato tra lo stanziale e il nomade, tra la mulinciana e l'antimulinciana -] dovrà poter conservare il diritto di lasciare un luogo, di circolare; il diritto di viaggiare all'interno, il diritto di isolarsi per pensare e sognare, il diritto di sfuggire alle pressioni del mercato e dei predicatori, degli svaghi e della folla;il diritto alla solitudine. Dovrà conservare anche il diritto di trasgredire tutte le frontiere dell'arte e delle idee. Insomma, accetterà se stesso come molteplice, come meticcio, come contraddittorio, alla confluenza d'innumerevoli viaggi, per assumere ovunque viva le diverse identità, senza dovere definirle con un territorio o con una cultura", (p. 484 dell'edizione italiana). Il transumano di Attali vale quanto "l'identità plurima" (una costruzione ossimorica dove l'aggiunta della qualità,l'aggettivo, contraddice e annienta la sostanza,il sostantivo, a cui si attacca) del Mediterraneo di David Abulafia ("l'unità della storia del Mediterraneo risiede, paradossalmente, proprio nella sua vorticosa mutevolezza, nelle diaspore dei mercanti e degli esuli nelle persone che cercavano di attraversarne le acque in tutta fretta, senza indugiarvi[...]") in un libro, Il grande mare (Mondadori 2013) - come era conosciuto nella tradizione ebraica,yam gadol, che in 680 pagine (66 di note bibliografiche) si cita una sola volta la melanzana (p. 595) e mai, neppure una volta, Cavour, Mazzini, Garibaldi, Crispi, il Risorgimento o le guerre di indipendenza, fenomeni e attori del tutto insignificanti per la storia del quinto Mediterraneo di Abulafia (il primo abbraccia gli anni tra il 22.000 e il 1000 a.C., il secondo fino al 600 d.C., il terzo fino al 1350, il quarto fino al 1830, il quinto fino al 2010). Insignificanti perché scorie della geopolitica franco-inglese che serendipicamente trasformò un pezzo di territorio alpino e francofono in un regno mediterraneo accanto alle ultime convulsioni dell'Impero Ottomano, alle incursioni della Russia nell'Egeo attraverso il Mar Nero, alle velleità adriatiche dell'Austria. Fu un mare di preistoria e di Storia, ora è un mare di post-Storia, di turismo che devasta il territorio circostante il suo oggetto di fruizione come quando si costruisce una piattaforma su cui collocare un cannone che prenda di mira un ostacolo da abbattere perché si imponga e cementifichi  una civiltà da camerieri dell'industria del forestiero e del pensionato: " Nella seconda metà del Novecento il mar Mediterraneo, ormai non più centro del potere commerciale o navale, ha trovato la sua nuova vocazione nel turismo di massa. Il fenomeno,anzi, iniziò ad affermarsi proprio nel grande mare, che oggi richiama ogni anno oltre 230 milioni di visitatori. Accanto al trasferimento temporaneo di milioni di nordeuropei, americani e giapponesi in cerca di sole o di cultura, o di entrambi, ha preso piede una forma di insediamento più permanente o in qualche villa sulla costa spagnola o a Maiorca, a Malta, a Cipro, dando vita a comunità ben distinte, con i propri club, i propri pub, le proprie birrerie o, come nel caso dei tedeschi di Maiorca, persino con un proprio partito politico"(p.597). I turisti come i vermi della decomposizione cadaverica della Storia! L'orgoglio nativista, identitario come spasmo di melenzana!

domenica 15 dicembre 2013

Una cosa buona della mulinciana: pensare con le mani, parlare gesticolando!








Gesticolare parlando: le res gestae fàtiche sono state sempre il contrassegno della meridionalità, del sottosviluppo a Mezzogiorno contro il sovrasviluppo dei nottambuli, dell'Occidente o del tramonto o del post-meridiem. Muovono le mani le mulinciane mentre parlano! E Sarkozy? Sarkozy dimostra che la mulinciana è un ortaggio metafisico, umano, vale a dire! Le mani e ...  i tumbulati, i jancati, gli schiaffi (senza i quali il futurismo marinettiano sarebbe stato focomelico, mutilato, afasico!), i manrovesci, a mano a mano, una mano di vernice, una manata, la longa manus, fatta a mano, i manovali, manuali versus gli intellettuali, i mentali ,le carezze, anche quelle pubiche, e le pippe?  I pensatori dell'etimo sanno che mano appartiene a mente, come hand a hundred: ragionare e contare, la ragione indicativa (e distintiva) è dei numeri. Insomma, la mente è la mano del cervello, come la mano è la mente del corpo. Per questo chi gesticola parlando, dà corpo alle idee. E ci sono muti che smanettano, smanacciano, mimano, mi-mano: stanno ragionando. Tutti gli sport a palla con la mano sono giochi mentali: la mano è la mente che indirizza la sfera, dà direzione e senso a una figura insensata perché aperta in tutti i sensi. Insomma, da qualsiasi angolo visuale la si osservi la mano è mente. E non mente!
E', infatti, di Immanuel Kant la definizione della mano come proiezione della mente, manus proiezione di mens, dove la vocale "e", di mens, si allarga, si proietta nella "a" di manus, mentre la coppia consonantica "ns" si dilata nella "nus" di manus con l'introduzione della "u". La parola a Giovanni Semerano, alla sua grande capacità di ascolto del suono delle parole "fluitate dalle onde di secoli remoti  [e che] occorre auscultarle acutamente per sentirvi dentro il loro segreto, come in una conchiglia si ascolta l'eco di oceani abissali: " Manus ha il suo antecedente nell'antico accadico manu (calcolare, computare). Ne risulta la mano come strumento naturale del computo per indigitazione, quale emerge nei libri di matematica sino al Settecento. A quella antica parola accadica manu ci riconduce una lunga serie di parole greche, latine, germaniche. Il greco mène (luna che per gli antichi orientali è l'altra condomina dell'universo assieme al sole) ci richiama il gotico mena, l'antico alto tedesco mano, l'anglosassone mona [l'inglese moon]. Il valore semantico dell'accadico manu (calcolare) torna in voci greche con il senso di "ricordare", "avere senso": greco menos (spirito, mente) e ovviamente in latino mens, nell'inglese mean [...]" (Giovanni Semerano, L'infinito: un equivoco millenario. Le antiche civiltà del Vicino Oriente e le origini del pensiero greco, Bruno Mondadori, Milano 2004, pagine 5 e 6). Baciamo le mani!

mercoledì 27 novembre 2013

il baciamano









La servitù volontaria a dominatori stranieri e predatori ce l'abbiamo nel sangue dal Medioevo, anche se riscattata da Risorgimento e Resistenza- scrive Barbara Spinelli su Repubblica del 27 novembre del 2013. Ribadita e non riscattata. Il Risorgimento (vale a dire un nuovo "sorgimento" rispetto a un irreperibile antico e presunto "sorgimento") fu cosa franco-anglica, sorta come una trovata serendipitica; la Resistenza fu il seguito dell'invasione antinazifascista anglo-americana. A sbarcare in Nord Africa, in Sicilia e in Normandia non furono i partigiani.La Storia non fa salti e non fa eccezioni, non ha fatto eccezione in Italia: in questo caso l'amata di Clio non è saltata dal 1945 al 1994!

domenica 17 novembre 2013

La comica cosmicità di Eugenio Scalfari: avere per cosmo il comico e Antonio Negri per Marx!








Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, più semplicemente Antonio De Curtis 



Scriveva Karl Kraus che il cosmo della donna è la cosmetica. Scalfari lo oltrepassa!Divertente, anzi, comico: Benigni, il comico, è una risorsa da Presidente della Repubblica, mentre Grillo, il comico, è la Iattura della Repubblica. Editoriale di  Repubblica del 17.11.2013 a firma di Eugenio Scalfari che, assieme a Napolitano e al Papa, forma il Triangolo divino in Italia. E più non dimandare! Così parlò Scalfaustra nell'editoriale del 17 novembre 2013: " Nicoletta è una grande attrice di teatro, il testo da lei recitato è terribile ma splendido nella sua terribilità. Poi abbiamo cenato insieme a lei e a suo marito Roberto Benigni, con Franco Marcoaldi e Nadia Fusini [...]Una volta scrissi che Benigni, quando Napolitano se ne andrà anche lui sulla panchina del Pincio come auspica Grillo, potrebbe benissimo andare al Quirinale. Naturalmente era una battuta ma la cultura di Roberto e di Nicoletta è tremendamente seria e quello che pensa e come ama il nostro paese Benigni è esattamente quello che penso ed amo anch'io. Non siamo molti ma, come dice Beckett, la vita è fatta di poche cose. L'importante sarebbe di saperle scegliere e spero che questo avvenga". 


Altra mulincianata di Eugenio Scalfari  a cui si potrebbe dire che il "comunismo senza Marx" è una partita di tennis senza palla (Blow up di Antonioni) o senza rete ( parafrasando Robert Hughes de La cultura del piagnisteo). O gli si potrebbe dire che l'ultracinquantenne Marx (1818-1883) del Capitale (1867-1875) è oltre il comunismo del quasi trentenne Marx del Manifesto del partito comunista (1848) e che Napolitano è stato sempre al di qua di Marx maturo di anni, di studi e di traversie esistenziali. Insomma, Marx, analista della comunità, è oltre il Comunismo.


"...al Quirinale c’era Luigi Einaudi, del quale Napolitano è un devoto cultore nonostante il suo passato di comunista (ma non marxista)..."


Il teologo (e tatticamente  papista) Scalfari garantisce oggi, 26 gennaio 20014 su "La Repubblica" che Napolitano è comunista senza essere marxista. Come Bakunin o l'agrarista Babeuf o l'avvocato Lombardo (quello ammazzato da Bixio a Bronte) o tutti i precursori apocalittici (attarantolati compresi) delle crisi d'età medievale e moderna della cristianità europea e delle sette ereticali del Nuovo Mondo  o Deleuze o fate voi. O Antonio Negri come di seguito, il 5 dicembre 2010:
    

È possibile essere comunisti senza Marx?


di ANTONIO NEGRI
È possibile essere comunisti senza Marx? È evidente che sì. Ciò non toglie che mi capiti spesso di discuterne con compagni e con intellettuali sovversivi di differenti estrazioni. Soprattutto in Francia – e le considerazioni che seguono riguardano essenzialmente la Francia. Debbo comunque confessare che spesso mi annoio a ragionare su questi argomenti, ci son linee troppo diverse e contraddizioni che raramente son condotte a confrontarsi con verifiche o soluzioni sperimentali. Si tratta spesso di confrontarsi con retoriche che astrattamente affrontano la pratica politica. E tuttavia, talora, ci si scontra con posizioni che negano addirittura che ci si possa dichiarare comunisti se si è marxisti. Da ultimo, ad esempio, un importante studioso – che pure aveva sviluppato nel passato le ipotesi del “maoismo” più radicale – mi diceva che, se ci si attenesse al marxismo rivoluzionario, che prevedeva il “deperimento dello Stato”, la sua “estinzione”, dopo la conquista proletaria del potere, e certo non ha realizzato questa finalità, non ci si potrebbe più dichiarare “comunisti”. Obiettavo che è come dire che il cristianesimo è falso perché il Giudizio Universale non è arrivato nei tempi prossimi, previsti dall’Apocalisse di Giovanni, e la “resurrezione dei morti” non la si è proprio vista! Ed aggiungevo che nell’epoca del disincantamento, la fine del secolo mondano per i cristiani e la crisi della escatologia socialista equivocamente sembrano giacere sotto la stessa coperta, meglio, subire eguali ingiunzioni epistemologiche – però, del tutto fallaci. È certo infatti che il cristianesimo è falso – ma io credo che lo sia per tutt’altre ragioni. E se anche il comunismo è falso, non lo è certo perché la speranza escatologica non si è in questo caso realizzata: non dico infatti che essa non fosse infatti implicita nella premessa, ma solo che molte delle “profezie” (meglio, dei dispositivi teorici) del comunismo marxiano si sono realizzate, al punto che oggi è ancora impossibile – senza Marx – affrontare il problema della lotta contro lo schiavitù del capitale. Proprio per questo, probabilmente, sarebbe importante ritornare dal cristianesimo a Cristo e dal comunismo a Marx…
E allora? Non si è data l’estinzione dello Stato, in Russia e in Cina lo Stato è divenuto onnipotente ed il comune è stato organizzato (e falsificato) nelle forme del pubblico: lo statalismo ha quindi vinto e, sotto quest’egemonia, non il comune ma un capitalismo burocratico sommamente centralizzato si è imposto. Tuttavia a me sembra che attraverso le grandi esperienze rivoluzionarie comuniste del secolo ventesimo, l’idea di una “democrazia assoluta”, e di un “comune degli uomini”, sia stata dimostrata possibile. Ed intendo la “democrazia assoluta” come un progetto politico che si costruisce oltre la democrazia “relativa” dello Stato liberale, e dunque come l’indice di una radicale rivoluzione contro lo Stato, di una pratica di resistenza e di costruzione del “comune” contro il “pubblico”, del rifiuto dell’esistente e dell’esercizio della potenza costituente da parte della classe dei lavoratori sfruttati.
Qui interviene la differenza. Qualunque sia stata la conclusione, il comunismo (quello che si è mosso secondo l’ipotesi marxista) si è provato (anche senza realizzarsi) attraverso un insieme di pratiche che non sono solo aleatorie, non solo transitorie: si è trattato di pratiche ontologiche. La questione, dunque, se si possa esser comunisti senza essere marxisti, dovrebbe prima di tutto confrontarsi con la dimensione ontologica del comunismo, con la determinazione materialista di questa ontologia, con i suoi residui effettivi, con l’irreversibilità di quel episodio nella realtà e nel desiderio collettivo degli uomini. Il comunismo è una costruzione, ci ha appreso Marx, un’ontologia, cioè la costruzione di una nuova società da parte dell’uomo produttore, del lavoratore collettivo, attraverso un agire che si rivela efficace perché è diretto all’accrescimento dell’essere.
Questo processo si è aleatoriamente dato, quest’esperienza si è parzialmente realizzata. Il fatto che sia stata sconfitta, non dimostra che sia impossibile: anzi è effettualmente mostrato che essa è possibile. Molti milioni di uomini e di donne hanno operato e pensato, lavorato e vissuto dentro questa possibilità. Nessuno nega che l’epoca del “socialismo reale” abbia ceduto a, e sia stata attraversata da, orribili derive. Ma sono esse tali da avere determinato un annullamento di quell’esperienza, da aver tolto quell’accrescimento dell’essere che il realizzarsi del possibile e la potenza dell’evento rivoluzionario avevano costruito? Se ciò fosse avvenuto, se il negativo che ha pur pesantemente intaccato la vicenda del “socialismo reale”, avesse prodotto una prevalente distruzione dell’essere, l’esperienza del comunismo sarebbe scivolata via e si sarebbe dispersa nel nulla. Ma questo non è avvenuto. Il progetto di una “democrazia assoluta”, l’istanza di costruire il “comune degli uomini” restano attrattivi, intatti nel nostro desiderio e nella nostra volontà. Non dimostra forse questa permanenza, questo materialismo del desiderio, la validità del pensiero di Marx? Non è perciò difficile, se non impossibile, essere comunisti senza Marx?
All’obiezione sullo statalismo che “necessariamente” deriverebbe dalle pratiche marxiste, occorre dunque rispondere riarticolando la nostra analisi: assumendo cioè che l’accumulazione dell’essere, il progredire della “democrazia assoluta”, l’affermazione della libertà e dell’uguaglianza, passano attraverso e subiscono incessantemente soste, interruzioni, catastrofi – ma che quest’accumulazione è più forte dei momenti distruttivi che pur conosce. Questo processo infatti non è finalistico, teleologico e neppure è una mossa di filosofia della storia: non lo è perché quest’accumulazione di essere che pur vive attraverso le vicende storiche, non è un destino e neppure una provvidenza, ma è la risultante, l’intersezione di mille e mille pratiche e volontà, trasformazioni e metamorfosi che hanno costituito i soggetti. Quella storia, quest’accumulazione sono prodotti delle singolarità concrete (che la storia ci mostra in azione) e produzioni di soggettività. Noi le assumiamo e le descriviamo a posteriori. Non c’è nulla di necessario, tutto è contingente ma concluso, tutto è aleatorio ma compiuto, nella storia che raccontiamo. Nihil factum infectum fieri potest: c’è forse filosofia della storia laddove i viventi desiderano solo continuare a vivere e per ciò esprimono dal basso una teleologia intenzionale della vita? La “volontà di vivere” non risolve i problemi e le difficoltà del vivere ma ci si presente nel desiderio come urgenza e potenza di costituzione del mondo. Se vi sono discontinuità e rotture, esse si rivelano nella continuità storica – una continuità sempre frastagliata, mai progressiva – ma neppure globalmente, ontologicamente catastrofica. L’essere non può mai essere totalmente distrutto.
Altro tema: quell’accumulazione di essere costruisce del comune. Il comune non è una finalità necessaria – è bensì un aumento dell’essere perché l’uomo desidera essere molteplicità, stabilire relazioni, essere moltitudine – non potendo star da solo, soffrendo soprattutto la solitudine. In secondo luogo, quell’accumulazione di essere non sarà neppure identità né origine: è essa stessa un prodotto di diversità e di consensi/contrasti fra singolarità, articolazione di costruzioni linguistiche e di determinazioni storiche, frutto di incontri e scontri. Va qui soprattutto sottolineato che il comune non si presenta come l’universale. Può contenerlo ed esprimerlo, ma non vi si riduce, è più esteso e temporalmente dinamico. L’universale si può predicare di ogni e di tutti gli individui. Ma il concetto di individuo autosussistente è contraddittorio. Non c’è individualità ma solo relazione di singolarità. Il comune ricompone l’insieme delle singolarità. Questa differenza del comune dall’universale è qui assolutamente centrale: Spinoza la definì quando, alla generica vuotezza dell’universale e all’inconsistenza dell’individuo, oppose la concreta determinazione delle “nozioni comuni”. Universale è ciò che nell’isolamento, nella solitudine, ogni soggetto può pensare; comune è invece quello che ogni singolarità può costruire, costituire ontologicamente a partire dal fatto che ogni singolarità è molteplice  ma determinata concretamente nella molteplicità, nella comune relazione. L’universale è detto del molteplice, mentre il comune è determinato, è costruito attraverso il molteplice e qui specificato. L’universalità considera il comune come un astratto e lo immobilizza nel corso storico: il comune sottrae l’universale all’immobilità e alla ripetizione. E lo costruisce invece concretamente.
Ma tutto questo presuppone l’ontologia. Ecco dunque dove il comunismo ha bisogno di Marx: per impiantarsi nel comune, nell’ontologia. E viceversa. Senza ontologia storica non c’è comunismo.
Si può essere comunisti senza essere marxisti? Diversamente dal “maoismo” francese, che non ha mai frequentato Marx (ma su questo ritorneremo), Deleuze e Guattari ad esempio furono comunisti senza essere marxisti, ma lo furono in maniera estremamente efficace, fino al punto che si favoleggiò di un Deleuze autore, in punctuo mortis, di un libro intitolato “La grandeur di Marx”. Deleuze e Guattari costruiscono il comune attraverso degli agencements collectifs e un materialismo metodologico che li avvicina al marxismo ma li tiene distanti dal socialismo classico, e comunque da ogni ideale organico di socialismo e/o statalistico di comunismo. Sicuramente Deleuze e Guattari si dichiararono tuttavia comunisti. Perché? Perché, senza essere marxisti, furono implicati in quei movimenti di pensiero che si aprivano continuamente alla pratica, alla militanza comuniste. In particolare, il loro materialismo fu ontologico, il loro comunismo si sviluppò sui mille plateaux della pratica trasformativa. Mancava loro la storia, quella positiva che certo spesso può aiutare nel produrre e nel comprendere la dinamica della soggettività (in Foucault, questo dispositivo è finalmente reintegrato nell’ontologia critica): talora tuttavia la storiografia positivista, certo, ma talora la storia può essere iscritta all’interno della metodologia materialista, senza quegli orpelli cronologici e quell’eccessiva insistenza sugli eventi, tipica di ogni Historismus – e appunto ciò che avviene in Deleuze-Guattari. Insisto sulla complementarietà di materialismo e ontologia perché la storia (che nella prospettiva tanto dell’idealismo classico quanto del positivismo era certo ricalcata dalla filosofia, ma per finalizzarla ad ipostasi politiche o etiche e così a negarne la dimensione ontologica) può, invece, essere talora tacitamente ma efficacemente sussunta – quando l’ontologia costituisca dispositivi particolarmente forti, come avveniva in Deleuze-Guattari. Non bisogna infatti dimenticare che il marxismo non vive solo nella scienza ma piuttosto si svolge dentro esperienze “situate”: il marxismo è spesso rivelato dai dispositivi militanti.
Diversamente van le cose quando, ad esempio, si confronti il nostro problema (comunismo/marxismo, storia/ontologia) alle numerose varianti del socialismo utopistico, soprattutto a quello di derivazione “maoista”. Nell’esperienza francese del “maoismo” si assistette al diffondersi di una specie di “odio per la storia”, che – qui consistete la sua spaventosa deficienza – rivelava un estremo disagio quando si trattasse di produrre obiettivi politici. Così, infatti, evacuando la storia, si evacuava non solo il marxismo ma anche la politica. Paradossalmente si ripeteva, nella direzione opposta, quello che era avvenuto in Francia nel periodo della fondazione della scuola degli “Annales” di Marc Bloch e di Lucien Febvre: in quell’occasione il marxismo venne introdotto nella discussione filosofica attraverso la storiografia. E la storiografia divenne politica!
Altrettanto vale per il socialismo utopistico: si deve riconoscere che, in talune delle sue esperienze (fuori dalle varianti maoiste), esso ha offerto connessioni materialiste di ontologia e storia – non sempre, ma sovente. Si pensi solo – per quel che riguarda l’esperienza francese – ai formidabili contributi di Henri Lefebvre. Si tratterà allora di comprendere se e fino a che punto, dentro questo variare di posizioni diverse, emergono talora posizioni che (in nome dell’universalità del progetto politico proposto) si oppongono alla praxis ontologica – negando, ad esempio, la storicità di categorie come l’“accumulazione originaria” e proponendo di conseguenza l’ipotesi di un comunismo come pura restaurazione, immediata, dei commons, oppure svalutando le metamorfosi produttive che configurano variamente la “composizione tecnica” della forza lavoro (che è vera e propria produzione materialista di soggettività nella relazione fra rapporti produttivi e forze produttive), riconducendo in maniera radicale alla natura umana (sempre uguale,sub forma arithmeticae) l’origine della protesta comunista, ecc. ecc.: si tratta evidentemente di una riedizione ambigua dell’idealismo nella sua figura trascendentale.
Per esempio: in Jacques Rancière abbiamo recentemente visto accentuarsi i dispositivi che negano ogni connessione ontologica di materialismo storico e comunismo. La prospettiva dell’emancipazione del lavoro si sviluppa infatti, nella sua ricerca, in termini di autenticità della coscienza, assumendosi conseguentemente la soggettività in termini individuali, e quindi togliendo di mezzo – proprio prima di cominciare – ogni possibilità di chiamarecomune la produzione di soggettività. Inoltre l’azione emancipatrice si stacca qui da ogni determinazione storica e proclama la sua indipendenza dalla temporalità concreta: la politica, per Rancière, è un’azione paradossale che stacca il soggetto dalla storia, dalla società, dalle istituzioni, pur quando, senza quella partecipazione (quell’inerenza che può essere radicalmente contraddittoria), il soggetto politico non sarebbe neppure predicabile. Il movimento di emancipazione, la “politica” perdono così ogni caratteristica di antagonismo, non in astratto ma sul terreno concreto delle lotte, e le determinazioni dello sfruttamento non si vedono più e (parallelamente) non costituisce più problema l’accumulazione del potere nemico, della “polizia” (sempre presentata in una figura indeterminata, non quantitate signata). Quando il discorso di emancipazione non riposa sull’ontologia, diviene utopia, sogno individuale e lascia il tempo che trova.
Siamo così entrati in medias res, al punto di chiederci se (dopo il sessantotto) ci sia mai stato un comunismo collegato al marxismo in Francia. C’è stato certamente (e permane) nelle due varianti dello stalinismo e del trotzkismo, l’una e l’altra ormai partecipanti di una storia lontana ed esoterica. Quando invece si viene alla filosofia del ’68, qui il rifiuto del marxismo è radicale. Vogliamo riferirci essenzialmente alle posizioni di Badiou, che godono di una certa popolarità.
Una breve precisazione. Quando Rancière, nelle immediate adiacenze del ’68, sviluppava (dopo aver partecipato alla comune lettura de “Il Capitale”) una critica pesante delle posizioni di Althusser, e metteva in luce come nella critica dell’umanesimo marxista (che solo dopo il ’68 – con un certo ritardo, dunque! – si apriva in Althusser alla critica dello stalinismo) permanessero in realtà gli stessi presupposti intellettualisti dell’“uomo di partito” e l’astrazione strutturalista del “processo senza soggetto” – aveva ragione da vendere. Ma non si dovrebbe oggi, da parte di Rancière sollevare la stessa critica nei confronti di Badiou? Anche per Badiou infatti è solo l’indipendenza della ragione, la sua garanzia di verità, la sistematicità di un’autonomia ideologica – è solo a queste condizioni che si determina la definizione del comunismo. “N’est-ce pas, sous l’apparance du multiple, le retour à une vieille conception de la philosophie supérieure?” – si chiedono Deleuze-Guattari. È quindi molto difficile capire dove stiano per Badiou le condizioni ontologiche del soggetto e della rottura rivoluzionaria. Per lui, infatti ogni movimento di massa costituisce una performance piccolo borghese, ogni lotta immediata, del lavoro materiale o cognitivo, di classe o del “lavoro sociale”, è qualcosa che mai toccherà la sostanza del potere – ogni allargamento della capacità collettiva di produzione dei soggetti proletari non sarà altro che un allargamento del loro assoggettamento alla logica del sistema – quindi, l’oggetto è inarrivabile, il soggetto indefinibile, a meno che la teoria non lo produca, a meno di disciplinarlo, di adeguarlo alla verità e di innalzarlo all’evento – oltre la pratica politica, oltre la storia. Ma tutto questo è ancor poco rispetto a quello che ci aspetta se seguiamo il pensiero di Badiou: ogni quadro di lotta, specificamente determinato, gli sembra (se la teoria e l’esperienza militante gli attribuiscono una potenza di sovversione) solo un’allucinazione onirica. Insistere ad esempio sul “potere costituente” sarebbe per lui sognare la trasformazione di un immaginario “diritto naturale” in una potenza politica rivoluzionaria. Solo un “evento” può salvarci: un evento che sia fuori da ogni esistenza soggettiva che sappia determinarlo e da ogni pragmatica strategica che ne rappresenti il dispositivo. L’evento per Badiou (la crocifissione di Cristo e la sua resurrezione, la Rivoluzione francese, la Rivoluzione culturale cinese, ecc.) è sempre definito a posteriori, è dunque un presupposto e non un prodotto della storia. Di conseguenza, paradossalmente, l’evento rivoluzionario esiste senza Gesù, senza Robespierre, senza Mao. Ma, privato di una logica interna di produzione dell’evento, come si potrà mai distinguere l’evento da un oggetto di fede? Badiou, in realtà, si limita con ciò a ripetere l’affermazione mistica, normalmente attribuito a Tertulliano: “credo quia absurdum” – credo, cioè, perché è assurdo. Qui l’ontologia viene spazzata via. Ed il ragionamento comunista  è ridotto o a un colpo di matto o a un business dello spirito. Per dirla tutta, ripetendo Deleuze-Guattari: “l’événement lui-même apparaît (selon Badiou), moins comme une singolarità que comme un point aléatoire séparé qui s’ajout ou se soustrait au site, dans la trascendance du vide ou la vérité comme vide, sans qu’on puisse décider de l’appartenance de l’événement à la situation dans laquelle se trouve son site (l’indécidable). Peut-être en revanche y a-t-il une intervention comme un jet de dé sur le site qui qualifie l’événement et le fait entrer dans la situation, une puissance de « faire » l’événement”.
Ora, si comprendono facilmente alcuni dei presupposti di queste posizioni teoretiche (che comunque partono da una sofferta e condivisa autocritica di pratiche rivoluzionarie trascorse). Si trattava, infatti, in primo luogo, di distruggere ogni riferimento alla storia di un “socialismo reale”, sconfitto, sì, ma sempre e comunque infarcito di premesse dogmatiche e di un’organica disposizione al tradimento. In secondo luogo, si voleva evitare di stabilire qualsiasi relazione fra le dinamiche dei movimenti sovversivi e i contenuti e le istituzioni dello sviluppo capitalistico. Giocare con questi, dentro/contro, come la tradizione sindacale proponeva, aveva infatti prodotto corruzione del desiderio rivoluzionario ed illusione delle volontà in lotta. Ma trarre da questi giusti obiettivi critici la conseguenza che ogni tentativo politico, tattico e strategico di ricostruzione di una pratica comunista e la fatica di questo esercizio, siano esclusi dalla prospettiva di liberazione; che non possa darsi un progetto costituente, né alcuna presa trasformativa dentro la dimensione materiale, immediatamente antagonista delle lotte; e che ogni tentativo di render conto delle forme attuali del dominio, in qualsiasi modo esso si sviluppi, sia comunque subordinato ed assorbito dal comando capitalistico; che infine ogni riferimento alle lotte all’interno di un tessuto biopolitico, a lotte – dunque – che considerino in una prospettiva materialistica le articolazioni del Welfare, non rappresentino altro che un rigurgito vitalista – bene, tutto questo ha un solo significato: la negazione della lotta di classe. E ancora: secondo l’“estremismo” badiousiano, il progetto del comunismo non può darsi se non in maniera privativa e dentro forme di sottrazione dal potere, e la nuova comunità non potrà che essere il prodotto dei senza comunità (come d’altra parte sostiene Rancière). Quello che offende, in questo progetto, è la purezza giansenista che esso esibisce: ma quando le forme dell’intelligenza collettiva sono a tal punto disprezzate – perché ogni forma d’intelligenza prodotta nella storia concreta degli uomini è ricondotta alla logica del sistema di produzione capitalista – allora, non c’è più niente da fare. O, meglio, resta da riaffermare l’osservazione sopra già fatta, e cioè che la pragmatica materialista (quella che abbiamo conosciuto fra Machiavelli e Nietzsche, fra Spinoza e Deleuze), quel movimento che vale esclusivamente per sé stesso, quel lavoro che rinvia solo alla propria potenza, quell’immanenza che si concentra sull’azione e sull’atto di produzione di essere – è in ogni caso più comunista di ogni altra utopia che abbia un rapporto schizzinoso con la storia ed incertezze formali con l’ontologia.
Noi non crediamo dunque possibile parlare di comunismo senza Marx. Certo, il marxismo va profondamente, radicalmente riletto e rinnovato. Ma anche questa trasformazione creativa del materialismo storico può avvenire seguendo le indicazioni di Marx – arricchendolo con quelle che derivano dalle correnti “alternative” vissute nella modernità, da Machiavelli a Spinoza, da Nietzsche a Deleuze-Foucault. E se Marx studiava le leggi di movimento della società capitalista, ora si tratta di studiare le leggi del lavoro operaio, meglio, dell’attività sociale tutta intera, e della produzione di soggettività dentro la sussunzione della società nel capitale e l’immanenza della resistenza allo sfruttamento sull’orizzonte globale. Oggi non basta più studiare le leggi del capitale, bisogna lavorare all’espressione della potenza della ribellione dei lavoratori ovunque. Sempre seguendo Marx: quello che ci interessa “è il lavoro non come oggetto ma come attività; non come valore esso stesso ma come sorgente viva del valore. Di fronte al capitale, nel quale la ricchezza generale esiste oggettivamente, come realtà, il lavoro è la ricchezza generale come sua possibilità, che si conferma nell’attività come tale. Non è affatto una contraddizione dunque affermare che il lavoro è, per un lato, la miseria assoluta come oggetto, per l’altro è la possibilità generale della ricchezza come soggetto e come attività”. Ma come cogliere il lavoro in questo modo, e cioè non come oggetto sociologico ma come soggetto politico? Questo è il problema, questo è l’oggetto dell’inchiesta. Solo risolvendo questo problema possiamo parlare di comunismo – se è necessario (e quasi sempre lo è) sporcandoci le mani. Tutto il resto è chiacchiera intellettualista.

sabato 16 novembre 2013

Statopartitocentrico, bismarckino, democrazia reale



Otto Fürst von Bismarck.JPG

Otto Eduard Leopold von Bismarck-Schönhausen


Politologia, scienza politica: l'uomo è un animale politico su cui si può lavorare scientificamente come la zoologia sull'animale o,meglio, come la scienza medica sulla ciarlataneria del pranoterapeuta,del "mavaro", dello stregone. E pensare, da politologo o scienziato politico,  di disporre di uno strumento strategico per il buon governo di una comunità democraticamente, beninteso, ordinata. Anzi il buon governo è la democrazia la cui quantità è in correlazione positiva con la qualità, la quantità di istituti e criteri di funzionamento e valutativi democratici sono la qualità della democrazia della parola (Parlamento), della rappresentanza (Parlamento) e poi a seguire bla bla bla dell'equilibrio dei poteri, dello Stato partitocentrico che fa di ogni partito un'istituzione e di ogni elemento di partito, di ogni consigliere di quartiere,di Comune,di Provincia, di Regione, un Bismarck. E come non si può chiedere a Bismarck il conto delle birre bevute, perché è lo Stato nell'esercizio delle sue funzioni che sta bevendo birra in Bismarck, così è indemocratico chiedere conto del rimborso spese della attività dell'uomo politico, del Bismarckino dello Statopartitocentrico.
Noi pensiamo, anche, che la "democrazia" sia reale quando permette o facilita l'ingresso nella bottega dei beni prodotti socialmente. Chi  viene tenuto a distanza da quella bottega, è messo dentro la galera che è attigua alla bottega dei beni della produzione sociale. La qualità di una comunità si misura in correlazione positiva con la quantità dei beni prodotti, distribuiti e usati, da una parte e,dall'altra,in correlazione negativa con il numero di esclusi-reclusi nelle galere confinanti con il deposito dei beni socialmente prodotti.E così assistiamo ai politici che non si fanno mancare niente di quel deposito di beni che la comunità produce. E,non mancando loro niente,non languono in galera!
Sarà politicamente scorretto, ma cambieremmo immediatamente la democrazia e la politica dei rappresentanti che parlano, degli eletti ciarlanti, dei parlanti che  - va da sé - costituiscono il Parlamento con i beni prodotti dalla società. Solo che per avere una casa con vista sul Colosseo è bene fare politica che a noi, invece, sembra roba da catechismo per popoli da civilizzare nonché trastullo dell'uomo bianco!

Da La Repubblica del 19 novembre 2013 a firma di Rosaria Amato che commenta i risultati dell'indagine "Achi conviene l'Italia", elaborata dal Club dell'Economia in collaborazione con il Censis"Un Paese che conviene ai politici, ai sindacalisti e alla finanza globale. E che non ha nulla da dare a giovani, precari, disoccupati e laureati. Un "leisure country" perfetto per le vacanze: offre buona cucina e divertimento, e persino l'atmosfera giusta per coltivare lo spirito. Ma guai a voler studiare, investire in attività produttive o, peggio ancora, lavorare. Dall'indagine "A chi conviene l'Italia?", elaborata dal Club dell'Economia in collaborazione con il Censis, emergono tutta l'amarezza e il disincanto degli italiani.

E anche lo scetticismo sulle prospettive di ripresa: alla domanda "Riusciremo ad uscire dalla stagnazione?" il 49,3% risponde di no, il 50,7% invece è fiducioso. Ma se poi si guarda alla distribuzione per età, si vede che a dire "ce la faremo" sono soprattutto due fasce ben distinte: i giovani con meno di 34 anni (il "sì" arriva al 62%) e gli ultrasessantacinquenni (64% di fiduciosi). "Gli anziani sono i più sicuri e i più ricchi, i giovani hanno la speranza - osserva il direttore del Censis Giuseppe Roma - Per tutti gli altri domina l'incertezza. Lo dimostra che a non spendere non sono solo le famiglie con problemi economici, neanche chi ha i soldi consuma".

Ma accanto all'incertezza c'è una ribellione interiore, un rancore verso chi si è appropriato del Paese, traendone ogni possibile convenienza, ma trascurando ogni forma di interesse generale. Uno scontro impari tra il 90% della popolazione e il 10% di una classe dirigente decisamente trasversale, osserva l'economista Mario Baldassarri, e quindi eternamente al potere, qualunque sia lo schieramento politico al governo, "centrodestra, centrosinistra o tecnico". "I soliti noti", li chiama il Censis".


Il 9 settembre 1943 a Pescara sulla corvetta Baionetta per Brindisi si imbarcò lo Stato italiano o un nutrito stuolo di cacasotto, re compreso? Il settantaduenne Badoglio, capo (e collo) del Governo, già alla partenza da Roma per Pescara amava dirsi:"Se i tedeschi ci prendono, ci tagliano la testa a tutti". Non temeva per lo Stato, tremava per il suo collo e per quello del Capo ... di Stato! 



lunedì 11 novembre 2013

To publish or to perish! To write or to die!











Deposizione

Chi non scrive, è perduto, chi non pubblica non fa carriera in accademia: è quanto scolpito in lettura sulle colonne dell'Università. Avere un Michel Foucault in Commissione concorsuale e farla finita con l'ossessione della produzione scientifica,anzi, scrittoria: "Non tornate dunque sempre sulle cose che ho detto in passato! Una volta che le ho pronunciate sono già dimenticate. Tutto ciò che ho detto in passato non ha assolutamente importanza. Si scrive qualcosa che nella propria testa è già ampiamente logoro: il pensiero esangue, ecco quello che si scrive. Ciò che ho scritto non mi interessa. Ciò che mi interessa è quello che potrei scrivere e quello che potrei fare". La scrittura come la deposizione del pensiero: un'immagine cristiana!

giovedì 7 novembre 2013

Anche le melenzane hanno un Dio: Anteo!













«È per questo che ho lavorato come un pazzo per tutta la vita. Non mi interessa in alcun modo lo statuto universitario di quello che faccio, perché il problema è la mia trasformazione. Quella trasformazione di sé attraverso il proprio sapere è, credo, qualcosa che assomiglia all'esperienza estetica. Perché un pittore farebbe quello che fa se non fosse trasformato dalla pittura?» Michel Foucault (epigrafe in seconda di copertina del saggio in traduzione italiana di Paul Veyne, Foucault. Il pensiero e l'uomo, Garzanti 2010)


Anteo. Chi era Anteo? Figlio di Gea, la Terra, e di Poseidone, il Mare, re della Libia (Lixus un’isola di fronte a Larache, Marocco, ospita il palazzo del “libico” re Anteo) si oppone a chi va, a chi cerca la sua strada, a chi traccia la strada nel deserto civilizzandolo, a chi cerca limiti da oltrepassare. La mitologia lo consegna come antagonista di Ercole nella sua penultima fatica per conseguire l’immortalità. Anteo si cibava di stranieri il cui cranio serviva da tegola per il tetto del tempio paterno. Un gigante di conformismo intellettuale, alimentato dai valori della terra, da uno degli elementi della Natura che concorrono e condizionano il tempo degli uomini, la progettualità, la sensibilità, l’idealità, le passioni umane, degli uomini. La forza del re-gigante è in sua madre, la Terra, la serra dei consolidati luoghi comuni che rivitalizza il figlio tutte le volte che viene buttato a terra. Ercole lo solleverà, tra le sue braccia spossandolo ed annientandolo. La Terra è il vecchio, il mare è il nuovo, Ercole è il padre, Anteo è la Madre: figli del mondo ma antagonisti. Il peggio che possa toccare agli uomini è di vivere secondo valori invertiti: un isolano si deforma nel continentale, il terraiolo naufraga in mare.
Anteo, quindi, tipo mitologico negativo: rappresenta il conformismo, l’immensa distesa desertica dei luoghi comuni, che come il deserto sono luoghi vuoti dove smarrirsi è la più ovvia delle cose, dove lo smarrimento è il suo vero ed assoluto valore.
Ercole vuole guadagnare la strada per il mare, per completare quelle fatiche che lo dovranno portare all'immortalità, alla sua sostanza, all'identificazione di ciò che lo farà essere perennemente Ercole: la conoscenza del suo destino, delle sue vocazioni, del suo essere compiuto.

 Da una parte la Terra, dall'altra il Mare. Bisogna scegliere: o il padre o la madre, bisogna sapere come si è stati scelti. Noi Mediterranei, noi isolani siamo stati scelti dal Mare, ma torniamo  autolesivamente verso la terra, alla mammella, al ciuccio della terra, come dei bambinoni, adulti nel corpo, ma infantili nell'anima.

L'urbanistica del fuoco






In un datato inserto domenicale de Il Sole-24 ore  (12 gennaio 2003) lo studioso di Storia, Piero Melograni (1930-2012), una decina di anni prima di lasciarci spiegava le ragioni dell'anti-modernità attuale della città di Roma con l’assenza nel passato di grandi catastrofi e di progetti urbanistici grandi. Fulminante l’identità urbanistica tra distruzione-costruzione, tra il mestiere dell’urbanista e quello del fuoco (o del terremoto). “Londra diventò una capitale moderna perché bruciò nel grande incendio del 1666 e fu ricostruita in base a un piano regolatore molto innovativo. Parigi diventò moderna grazie a Napoleone III e al prefetto Haussmann che la trasformarono radicalmente tra il 1853 e il 1869. Roma, viceversa, resta ancora oggi una capitale semi-moderna perché non ha mai avuto né un incendio simile a quello di Londra…”. E Catania che invece quella fortuna, anzi, quelle “fortune” (l’eruzione lavica del 1669, il terremoto del 1693) le ha avute, perché non è neppure semi-moderna?

mercoledì 30 ottobre 2013

L'allunaggio storiografico o geografia dei grandi spazi









John Reader, Africa, biografia di un continente (Mondadori): il figlio di un taxista londinese scrive di storia come un geografo hegeliano. Funziona: meglio comprarsi un auto e farsi rilasciare una licenza per girare il mondo che andare in cerca di fondi e di fonti d'archivio. La storiografia non è cronosofia, chiacchiera "intelligente" di date, saggezza cronologica ma filosofia geografica. E per fare parlare il mondo, non bisogna passare vent'anni a leggere Aristotele per intrappolare e aristotelizzare i graffiti dell'uomo sul pianeta. Basta ascoltare i monti e i mari, i fiumi e i boschi e il rumore delle guerre. E vedere i colori delle città alla luce del sole e a quella della luna.La terra si racconta meglio da una postazione lunare e non da un'idea, dall'idea che la terra attraverso l'uomo ha di sé.

L'uomo è un'eresia della Natura


La contemporaneità è un’insonnia di massa. Essa vive di innovazioni, di novità; è un’infinita giornata di luce che può sembrare una punizione, come quella inflitta ai detenuti “tosti”. L’innovazione, quindi, foriera di crisi perpetua, anima la contemporaneità dell’Occidente il cui stato normale è critico. Non così per altri popoli, quelli del Corano, ad esempio, che accoglie problematicamente nella “sunna”, nella tradizione, appunto, coranica l’innovazione, “bid’a”. Tra “bid’a hasana” o “bid’a mahuma”  (novità buona) e “bid’a sayyi’a” o “madhumuma” (novità cattiva), l’innovazione, la “bid’a”, tendeva e tende  a configurarsi come eresia, come rischio teologico, concessione alla miscredenza. La storia umana si snoda e si aggroviglia per vicende di scoperte ed invenzioni tecniche, di tradizioni che fronteggiano e resistono alle innovazioni che diventeranno tradizioni (e miti, quando si perderà la possibilità di farne analisi critica e lettura storica).

Il gioco sessuale della parola


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Eros: il dio guerriero delle donne. Solo per il quale la guerra vale essere dichiarata, dalle donne.
Quanto vale un odore di femmina? La follia di Orlando che porta alla sfida fratricida dei due gran “pileri”(pilastri: l'altro era il cugino Rinaldo) del campo cristiano. Dove? In Sicilia, ovviamente: Viditi quanto pò 'n pilu di fimmina!/Dui palatini, ca su' du' pileri,/ per causanza dela della bela Angelica/ su'addivintati d' nimici feri/. Questa è la quartina d'inizio di Lu cummattimentu di Orlandu e Rinardu di Nino Martoglio.*

Un fanciullo, irresponsabile, dispettoso, sorridente ed ironico. Un uomo di sfrenate furie sessuali: Priapo.
Eros o Priapo. È una smania che disarticola ogni calcolo di equilibrata, misurata armonia.Gli dei dell’Olimpo non lo vogliono tra i condomini, non si fidano. Non è divinamente corretto. E’ una divinità infantile, che non vuole crescere. Infantile: appartiene all’età pre-fàtica, all’età che precede la maturità del linguaggio, del latino fari, del dire. Quindi non linguaggio maturo, ma dialetto, cacolalìa, infanzia della lingua e lingua infantile, dell’infanzia dove trova il suo esilio e lo sceglie come dimora Eros-Priapo. Dimora di licenziosa, scurrile, allegra promiscuità, ghetto senza barriere interne di genere alcuno. I giochi di parole, le iperboli, tutta l’arte della Retorica, tutta la Tecnica del dire sostengono quel luogo clandestino che l’Eros-Priapo dialettale abita. Un carnevale che non si può celebrare con le ghette, un rodeo di immagini, di associazioni psicologiche di realtà dissociate, improbabili, una palestra di acrobazie linguistiche, affabulatorie orientate al riso sguaiato, liberatorio. Un universo ingrottato, nascosto ma ben frequentato come i locali degli anni del proibizionismo americano, gestiti da delinquenti ma riempiti da tutti, rispettabili uomini con ghette e smaniose donne di classe, da donnine e da omuncoli.
Eros-Priapo si può esprimere solo nel dialetto. Vuole essere tratto fuori e messo in vista. Nell'alcova o sul lettino dell'analista.

* La melenzana è ubiqua, reperibile fin dove non la si sospetta. Esemplare ci sembra la prefazione (1921) di Luigi Pirandello, che o ché era Pirandello, alla Centona del poeta e commediografo di Belpasso: "Nino Martoglio è per la Sicilia quello ch'è il Di Giacomo e il Russo per napoli; il Pascarella e il Trilussa per Roma: il Fucini per la Toscana; il Selvatico e il Barbarani per il Veneto: voci native [melius: ortive, per quel che si legge subito appresso] che dicono le cose della loro terra[!], come la loro terra vuole che siano dette per esser quelle e non altre, col sapore e il colore, l'aria, l'alito e l'odore con cui vivono veramente e si gustano e s'illuminano e respirano e palpitano lì soltanto e non altrove". La terra (o l'orto) detta e la melenzana raccoglie e recita secondo sapore colore odore tratti ad alimento identitario! Grande Pirandello!

martedì 29 ottobre 2013

Il pescatore di melenzane




La fine è la perfezione dell’origine- amiamo ripetere! Così i castelli del Mezzogiorno d’Italia d'epoca bizantina si perfezionano in torri di avvistamento, in fortificazioni costiere alla fine del viceregno spagnolo.
A metà del secolo IX l’impero d’Oriente di Bisanzio si dava a costruire castelli contro gli invasori arabi che avevano dato vita alla lunga guerra di conquista nell’827, sbarcando in quell’approdo di Dio, Mars Allah,  Marsala, e fermandosi a Taormina nel 902 dopo avere espugnato nell’831 Palermo, Enna nell’859, Siracusa nell’878.
I castelli isolani, i manufatti fortificati, pur nella diversità dei suoi costruttori, bizantini, normanni, svevi, aragonesi e spagnoli (meglio: castigliani), hanno in comune il dato di costituzione mentale: la rinuncia ad una strategia offensiva sul mare. In misura diversa, si scelse di non armare flotte orientate ad intercettare e a contrattaccare i nemici che utilizzavano il dominio delle rotte di mare.  Si arretrerà la strategia bellica sulle coste, interrando le navi in forma di castelli, dimentichi della sostanza dell’impero navale ateniese, raccontata da Tucidide nella sua Guerra del Peloponneso.
Un intelligente punto di partenza per l’esame dei castelli siciliani è proposto da Ferdinando Maurici che, sulla scorta delle testimonianze di due autori arabi, Ibn al Athir ed An Nuwayri, ha scritto nel suo libro, Castelli medievali in Sicilia, pubblicato dalla Sellerio nel 1992: “I due storici datano l’inizio del grande incastellamento bizantino in Sicilia intorno alla metà del IX secolo, quindi in un momento in cui i problemi della
rivolta berbera imposero agli arabi la sospensione o almeno la riduzione dell’iniziativa aggressiva contro l’isola”. Nessuna fuga dal mare, nessuna paura del mare, ma rinuncia a stare sul mare e ad affrontare gli arabi sulle coste di partenza del Maghreb o sulle rotte marittime. Per fare ciò, bisognava costruire flotte statali o favorire l’armamento privato e, innanzitutto, spostare l’interesse geopolitico di Bisanzio dall’Anatolia alla Sicilia. Si preferì, invece, la realizzazione di fortificazioni che imponeva “l’accentramento di popolazione postulato da un incastellamento massiccio […] dell’abitato”. Così all’origine. E così sarà alla fine, con l’occupazione spagnola della Sicilia quando, già prima della battaglia navale di Lepanto del 1571 fra i Cristiani dell’armata spagnola  e gli islamici dell’armata ottomana, non volendo o non potendo debellare sulle coste dell’Algeria o della Tunisia la potenza corsara delle Reggenze barbaresche protette dall’Impero Ottomano, non potendo armare flotte navali per il fronte secondario del Mediterraneo (quello primario era rappresentato dall’Oceano Atlantico), non permettendo (anzi, diffidandone) la coltivazione dello spirito marziale delle aristocrazie coloniali, si decise di disseminare - per tutta la costa dell’Italia meridionale dagli Abruzzi alla Campania e oltre - torri di avvistamento, opere di restauro di manufatti fortificati da cui con fumo, sventolio di bandiere colorate, falò o esplosione di colpi di bombarda dare l’allarme alle popolazioni. Per scappare tutti, come galline inseguite da volpi, in luoghi meno accessibili agli incursori del mare. Non era un “alle armi”, ma un “ai piedi”.
I nostri castelli non sono la memoria del potere signorile che  minacciava e proteggeva la popolazione del luogo. Sono corpi estranei, paurosi, incombenti sulla psiche dei siciliani. Caratteristiche perse dal castello Ursino di Catania, grazie alla lava che, mangiandogli il mare, ha ridicolizzato l’opera di Federico II, mettendo il manufatto federiciano al livello delle abitazioni dei sudditi. Diversamente che a Gagliano Castelferrato dove si permane a vivere con un fortilizio rupestre sulla testa. Deprimente mal di capo!

I castelli deprimono, appunto; non ricordano uomini, ma conigli e dominatori estranei. I castelli sono navi interrate! Castellificare è (fu) denavalizzare; il contadino è un marinaio stordito, smarrito, un pescatore di melenzane!- 

Wich sta ad indicare un luogo inglese in cui si produce(va) sale in città-saline di mare.Non si registrano in Italia posti il cui nome sia combinato con "sale". Calat (rocca), in Sicilia il wich diffuso inglese, si combina in suffisso di nome di città, arroccate, chiuse in se stesse come a tenere un pugno di terra stretto nel ... pugno dell'altra mano libera dalla vanga o dall'aratro. Il pesce (piscis-fish) che ha cambiato il mondo inseguito nei mari del Nord Europa (magistrale di MarK Kurlansky  il Merluzzo. Storia del pesce che ha cambiato il mondo, Mondadori 1997) per i supposti Indoeuropei è una “bestia del corso d’acqua”, del *mor (mare). Di scarso interesse alimentare, quindi. E “ciò confermerebbe l’idea che gli antichissimi popoli di lingua indoeuropea manifestavano, nei confronti del pesce, un certo distacco[…]. Questa repulsione si comprende bene ricordando che la carne del pesce si conserva male: essa non poteva costituire, dunque,  una seria risorsa alimentare prima della scoperta delle tecniche di conservazione, come l’affumicatura [stock-fish] e la salatura [salt-fish]" in André Martinet, p. 37 dell'edizione Laterza 1987, L'Indoeuropeo. Lingue, popoli e culture  (in francese il titolo è più ricco, più ... titolato: Des steppes aux océans. L'indo-européen et les "indoeuropéens". Ma tutti gli indoeuropeisti e gli studiosi di linguistica comparata se la dovrebbero vedere con Giovanni Semerano che oltre al sapido e rapido La favola dell'indoeuropeo (Mondadori 2005) ha scritto su Le origini[mesopotamiche] della cultura europea (Leo S. Olschki) 4 volumi di cui due sono dizionari etimologici.

La pace spiegata a una bambina, al Papa.





-          Pace e guerra: “il vomere poteva avere un manico corto, ed allora lo si trasformava facilmente in spada, oppure lungo, ed allora diventava una lancia. Aratro e spada, pace e guerra, a quel tempo avevano molto in comune. Isaia predice un futuro in cui tutte le spade si trasformeranno in vomeri..." (E. E. Vardiman, Il nomadismo, Rusconi 1998, p. 144).



La pace che arrivò dal mare: lo sbarco in Sicilia del 1943.

La guerra e la pace non si escludono vicendevolmente: i rapporti internazionali sono determinati ora militarmente, ora diplomaticamente. Il militare sta accanto al diplomatico, non contro. Il bisturi non esclude la pranoterapia. I mali non sono tutti e sempre curati da carezze, né estirpati chirurgicamente. Per una cefalea è sufficiente una compressa analgesica o basta un massaggio shiatzu; per un tumore neppure una devastazione radicale vale. La pace è la subordinazione del vinto alla volontà del vincitore. Si sta in pace perché c’è stata una guerra dopo la quale il vinto ha accettato le condizioni del vincitore. E ci sono guerre difensive, rituali, sociali, economico-politiche, simboliche, etniche, di conquista. E ci sono paci cimiteriali. Il pacifismo è un desiderio che si fa sorprendere dalla guerra. Le guerre sono tante; la pace solo una: quella delle condizioni del vincitore. Non smette di piovere solo perché si odia l’acqua. Aveva nove anni la mia bambina sorpresa a bisbigliare improperi pacifisti contro Hitler e Mussolini, ancorché tremante e divertita per le statue di cera e per le trovate del sobbalzante rifugio antiaereo e degli spari di una mitragliatrice in opera dalle fessure di una casamatta ricostruita per il "Museo storico dello sbarco in Sicilia del 1943", allestito alle "Ciminiere" dalla Provincia Regionale di Catania. Una buona idea, quella del Museo permanente sullo sbarco alleato del 1943, buona per motivi diversi e, fra tutti, per il supporto didattico che offre agli insegnanti delle scuole che affannosamente arrivano a trattare i temi della storia contemporanea del Novecento. Molte immagini coeve, fedeli ricostruzioni di ambienti, secche didascalie, riproduzioni di documenti che sono stati consegnati ad un catalogo pregevole, introdotto rapidamente da Alberto Santoni, professore di Storia Moderna e Contemporanea dell’Università di Pisa. “Un museo per la pace” è il titolo voluto dall'allora presidente della Provinciale Regionale di Catania, Nello Musumeci, per questo spazio culturale che si apre con una scritta di Papa Giovanni XXIII (“La pace è il bene supremo. Dimenticarlo è una vera follia”) e che si chiude con immagini del cimitero inglese di guerra di Catania, mentre nomi dei caduti, di soldati di varie nazioni sono scanditi all'uscita dei locali museali. Alla bambina spiegavo che la guerra e la pace sono argomenti di sapere strutturato, di “scienza”, della polemologia. Spiegavo che non bastano i suoi occhi, non basta lo sguardo di tutti i bambini innocenti del mondo, non bastano gli improperi, come non ci si può affidare alla propria bontà per impedire le catastrofi naturali. Spiegavo che gli Alleati sono venuti dal mare, scarsamente considerato dalla cultura politica e militare dell’Italia, maltrattato allora, prima e dopo, fino ai nostri giorni. La pace è un bene supremo ricavato dalla guerra che non sempre è vinta dai migliori contendenti. La pace è la forma di una guerra a riposo, come le pendici di un vulcano sono lave rapprese che aspettano per tempi indefiniti altro magma. La pace sta alla guerra come la l'ombra alla luce: l'una è forma dell'altra; non sono due sostanze contrastanti. I pacifisti hanno tutti nove anni? Costantino che in guerra contro Massenzio avrebbe vinto nel segno della croce (in hoc signo vinces resa in latino del greco en touto nika), non aveva nove anni. Era il 312 dopo Cristo e di anni l'imperatore ne aveva 38.



La tricoteologia: Dio è nei capelli, pur essendo senza capelli! E la tricostoriografia...?











Si può ricavare l’umore di un’epoca dai capelli dei suoi protagonisti; si può, addirittura, intuire la predilezione di Dio per le sue creature attraverso la chioma. In un caso (esemplare il saggio del professore di semiotica, Massimo Baldini, Capelli, "Peliti Associati", ma "Wella Italia", 2003) avremo la tricostoriografia, nell'altro la tricoteologia di cui l’esempio più famoso è rappresentato egregiamente dal trattato tricoetico-comportamentale (ma anche teologico, appunto), di Jean Baptiste Thiers, pubblicato “aux dépense de l’auteur” nel 1690 a Parigi e intitolato Histoire des perruques où l’on fait voir leur origin, leur usage, leur forme, l’abus et l’irregularité des ecclesiastiques. In tutt’e due i casi l’agente della Storia o l’informatore della Storia (colui che dà forma alla sequela degli accadimenti) è il parrucchiere. Perché? Per alcuni motivi: "per nascondere i capelli rossi" - così il curato francese racconta degli Ebrei discendenti di Giuda, notoriamente tricoramati, oppure per sembrare più giovani e sexy-appealing o, ancora, per nascondere la "tigna" (l’alopecia in tutti i suoi 4 tipi) del “sordido male” della sifilide, esplosa in Europa dopo la scoperta delle Americhe.
   A dire il vero, il dibattito fra chiomati e calvi, d’origine antica, potrebbe essere riassunto nello scontro a distanza di tempo fra il retore e filosofo stoico, Dione Crisostomo, vissuto tra il 40 d.C. e il 112, e il vescovo cristiano di Tolemaide, Sinesio di Cirene, vissuto tra il 370 e il 413 d.C., noto ai più attraverso il film “Agorà” sull'intellettuale a-cristiana, Ipazia, del regista spagnolo Alejardo Amenabar.  Intellettuale di grande originalità, di larghe vedute, di vasta intelligenza e di spiccata devozione, qualità attestate incontrovertibilmente dalla sua calvizie su cui scrisse un Elogio contro quello della chioma di Crisostomo, un encomio quello del vescovo di Tolemaide, dedicato “ai filosofi, ai sacerdoti e a tutte le persone assennate”, vale a dire, calve.
   Chi si fa crescere i capelli non è un buon cristiano, amava ripetere Sinesio, reinterpretando San Paolo della Lettera ai Corinzi:“Per l’uomo è un disonore portare una lunga capigliatura…”.
   E l’uomo, calvo o a pelo corto, non si deve vergognare, perché “fra gli animali i più sciocchi sono completamente mantati di peluria, mentre l’uomo, che ha avuto in sorte l’intelletto e la ragione, ne è per lo più sprovvisto […]. E come l’uomo è al contempo la creatura più intelligente e la meno irsuta, così di tutti gli animali la pecora è sicuramente il più stupido […]. Insomma, tra capelli e qualità intellettive non sembra correre buon sangue.[E ancora,] “l’individuo completamente calvo è in assoluto l’essere più divino sulla terra” perché la sfera è la figura geometrica perfetta, la volta celeste sede di Dio è sferica, l’anima tende al cielo e la calvizie evoca la volta. Insomma, Dio è calvo: “la calvizie è una prerogativa divina e conforme alla divinità; essa è il fine ultimo della natura”.

   Chi entra in un salone di acconciatura per un taglio di capelli o una prova di parrucca, non è - Sinesio consule - persona frivola, ma è filosofo e sacerdote, come ben argomenta il vescovo di Cirene che, però, non riuscì a salvare la povera Ipazia (amica, scienziata ma donna chiomata) dai parabolani, sorta di cristiani talebani, fondamentalisti antipagani. E non erano calvi! O perché non erano calvi?





E ora ci chiediamo: solo il naso di Cleopatra ebbe una ruolo nella storia di Roma? E la pettinatura della regina egiziana?

Il rasoio di monsieur Guillotin - la ghigliottina - prese a saliscendere sul collo in una festa di teste staccate dal corpo, in un tripudio di decollati non tanto in nome della dea Ragione e delle figlie Fratellanza, Eguaglianza e Libertà, quanto per conto dei parrucchieri stressati da una richiesta crescente presso il Terzo Stato di chignon, smarriti in confusione di posticci e di sofisticate pettinature, di parrucche mirabolanti, ideate da architetti visionari e deliranti. Alle feste regali di Versailles, in primavera, l'acconciatura seguiva la stagione: la testa come un'orto irrigato da bottigliette piatte e ricurve adattate alla forma del cranio, piene d'acqua per il nutrimento di fiori naturali.
    Teste di donne che sembravano tanti fercoli del santo patrono... e piume, nastri, crocchie, tupée, pizzi, boccoli, trecce à la Chanceliére, à la Sevigné, à la Hurlupée, à la Maintenon, à la Fontanges ( una delle amanti, questa, di Luigi XIV, Le Roi Soleil) che con una sua delle sue giarrettiere rialzò i capelli scioltisi durante una corsa a cavallo. Fu così che Marie-Angelique de Scorailles de Roussille, duchessa di Fontanges, impose la moda Fontange per anni, allungando al torreggiamento o allargando a gradoni la testa delle donne del bel mondo civilizzato.
   I maschi si imparruccavano con ciprie e farine sfoggiando pettinature ad ali di piccione, esibendo ciocche di boccoli ricadenti sulle tempie o disposti su di una linea orizzontale, pavoneggiandosi con lunghe trecce strette da un nastro sulla nuca.
      La ghigliottina tagliò la testa a un tale groviglio di esistenze pelose e, poiché il Terrore si andava profilando lungo sui tempi a venire, si pensò bene da parte di chi aveva ancora la testa attaccata alle spalle, di acconciare pettinature corte e semplici onde evitare attriti di inefficacia, di ostacolo alla lama lanciata sul collo del condannato a morte. Per un futuro di corpi decollati  giudizio voleva che li si attrezzasse di pettinature sobrie. 
     La parrucca, bianco-grigia di crine di cavallo, parzialmente resiste nei tribunali britannici tra i magistrati e gli avvocati, i barristers, Inghilterra dove dopo più di 300 anni venne (o verrà?) abolita nei processi civili ma non in quelli penali. Ma non s'è più ripresa dallo spavento procuratole dai sanculotti. Assieme al rococò, paradiso-inferno degli architetti-parrucchieri, è sparita, lasciando il posto a qualche parrucchino tra i maschi che non hanno inteso la lezione del vescovo Sinesio. Prima di sparire canto come il cigno prossimo alla morte. Lo Stile Impero adottò il modello dell'antichità. Poi, dopo qualche incertezza controrivoluzionaria e passato il pauroso brivido del filo della lama sulla nuca, i capelli si riannodarono in complicatissime acconciature. Ma durò poco. Prima dell'accorciamento della gonna imposta negli anni Sessanta del secolo scorso dalla mai sufficientemente lodata Mary Quant, a farsi corti furono i capelli ai quali, benché posti a distanza dal luogo del piacere era assegnata la funzione della seduzione e dell'allontanamento, del chiamare e tenere lontano, del vorrei e non vorrei.. Mostrare la nuca e il collo e tentare gli occhi e le labbra maschili: così dettava la strategia del piacere prima che il copro femminile si svelasse occultato dalla biancheria intima, prima che il capello veniseese surclassato nella gerarchia dei mezzi seduttivi dal reggiseno e dagli slipo.
   Il mondo vendette la sua anima alla Tecnica dei Tipi, intollerante delle differenze e della varietà degli individui e dei generi, e dei peli in esubero. Quindi capelli corti e testa alla maschietta. E fu un riconoscimento di quella verità teologica che vede l'uomo (il maschio quale immagine di Dio). Tutto questo fino a quando la Tecnica dell'Occidente non ebbe a scontrarsi con l'irriducibile antagonismo delle civiltà altre che crearono resistenze interne e apostasie nel campo tricotico dell'Occidente. E fu un guazzabuglio vitalissimo di pettinature sorprendenti: africane, asiatiche, seminole, apache, mohicane, incaiche, sumere, assire, babilonesi, egizie, arricciate in permanenza, lunghe a volute, lunghe in allisciamento, colorate. E pelate, anche!

 




Julien Sorel a Catania o a Kuala Lampur


















“Per il luogo dove sono nato provo
una ripugnanza che arriva al disgusto fisico[…].
Tutto quanto è vile e comune nel genere borghese
 mi ricorda Grenoble; tutto quanto mi ricorda Grenoble
 mi fa orrore, no, orrore è troppo nobile; mi nausea” ( Henri Beyle)


Pippo Sapienza, in arte Pernacchia, Pippo Fava e, nel mezzo, Teletna di un altro Pippo, Pippo Recca: così vengono raccontati nel saggio, Teletna, nascita dell'Italia delle TV, (Bonanno 2009) di Giuseppe Lazzaro Danzuso gli anni Settanta del secolo scorso a Catania.
Non ci capivamo niente, noi stendhaliani di provincia (ma tutti i lettori di Stendhal erano provinciali, dannatamente marginali, e Stendhal odiava la città natale, Grenoble, come si può odiare una prigione di mediocrità e di ottusa violenza).     
Non ci capivamo niente e si vuole dire che ci era tutto chiaro: Manlio Sgalambro avrebbe detto (di Catania) che “nella città si può cogliere il tramonto di una civiltà camminando per le sue vie e dal volto dei suoi abitanti si può scoprire quanto sono vicini i barbari”.
La Medina dell’elefante (così la denominarono i dominatori Arabi) in quegli anni scollinava, andava in transumanza alla conquista dell’Etna, della sua conurbazione, dei comuni etnei. L’incremento demografico (saldo attivo delle nascite sulle morti e flusso immigratorio interno) si andava a depositare lungo la direttrice Nord e Nord-Est ad Acicatena, Gravina, San Giovanni La Punta, San Gregorio di Catania, Sant’Agata li Battiati, Mascalucia, Tremestieri etneo, Acicastello.
Si esaltava l’antica vocazione catanese di “fabbricar palazzi”, una vocazione da terremotati, da dissepolti dalle macerie di quei terremoti che costringono i sopravvissuti a ricostruire come ossessi, come il frullìo di api impazzite davanti a un alveare crepato.
       Si riduceva ulteriormente l’attività agricola (dal 1951 al 1981 l’agricoltura perdeva il 27,9% dei suoi addetti), il terziario dell’impiego pubblico, del commercio al minuto e della vita di espedienti si innalzava e si allargava come un “fungo” atomico (dal 30,3% del 1951 al 53,9% del 1981).
La città si de-urbanizzava con un decremento di popolazione residente del 4,9% tra il 1971 e il 1981, passando nel decennio dai 400.048 abitanti  ai 380.328).
Negli anni di cui tratta Lazzaro Danzuso, tutto il comparto delle attività legate all’acqua, al gas, alle industrie estrattive, a quelle manifatturiere per la trasformazione dei metalli e per la meccanica di precisione beneficiò dell’incremento irrisorio di 371 unità (ma la si continuava a chiamare, Catania, la Milano del Sud). Era il settore delle costruzioni(comprese le industrie di installazione degli impianti di edilizia) a fare un ragguardevole balzo in avanti raggiungendo la quota di 2.665 unità  che erano 911 nel 1971.
Mentre a Torino comandava Agnelli, a Catania - ricorda Lazzaro Danzuso - la politica della città che era cronaca giudiziaria sceglieva ad interlocutori privilegiati gli astri autoctoni dell’imprenditoria: Ferrini, Massimino e i quattro cavalieri dell’Apocalisse.
La città, odiata-amata da Giuseppe Fava, si preparava ad essere rappresentata spietatamente dai romanzi (romanzi?) di Silvana La Spina, Enzo Russo, Alfio Caruso, di Antonio Di Grado. La città si preparava ad accogliere il viaggiatore apocalittico Ceronetti per fargli scrivere che “a Catania non c’è di bello che quel che è in sfacelo […]. Questo era un popolo fatto dalla povertà, nato per essere povero; il denaro l’ha fritto come in un’enorme padella, e oggi la sua faccia è annerita, ustionata”.
Non ci capivamo niente: a Catania la delinquenza ubiquitaria dei quartieri stava trovando il suo posto di eccellenza nella mafia. Uno l’aveva capito, ma noi non avevamo capito che Giuseppe Fava l’aveva capito. Ci pareva fosse una trovata teatrale (Catania è una città teatrale diceva Sciascia, dice Lazzaro Danzuso, diciamo noi che mai la prendemmo, la prenderemo sul serio), un’esagerazione da cui distogliere attenzione ed energie, indirizzate, invece, nei laboratori rivoluzionari. Che fossero mafiosi i nostri imprenditori, non lo si voleva riconoscere perché ciò  avrebbe ridimensionato l’impegno dell’apocalisse rivoluzionaria a solletico riformista, a predica morale: per noi il capitalismo era intrinsecamente violento, a Milano, felpatamente morbido, a Catania spudoratamente mafioso. Insomma, la mafia era un aggettivo del sostantivo “padrone”. E noi eravamo ragazzi di sostanza, sostanzialisti.
Non ci capivamo niente, ma Catania non ci piaceva. Non ci piacevano i suoi giornalisti, non leggevamo la stampa locale ed aspettavamo, come gli Ebrei il Messia giustiziere, l’uscita di “Giovane Critica” o l’arrivo dei “Quaderni Piacentini”.
Il libro di Giuseppe Lazzaro Danzuso ci fa capire le ragioni di quel disagio generazionale ed antropologico che subivamo e che non capivamo.
Un libro coraggioso: ci vuole coraggio ad iniziare il racconto di una città amata (grottescamente, ironicamente amata) con le imprese di Pippo Pernacchia o Pippu d’e pirita, uno che “si guadagnò da vivere per cinquant’anni praticando,  da vero virtuoso, lo sberleffo sonoro”. Pippo Sapienza come Julien Sorel de Il rosso e il nero di Henri Beyle: quello sberleffava a pagamento la città, questo leggeva contro la sua città, contro la sua famiglia. Non lo capivamo, ma Pippo era tutti noi, i contestatori che sognavano l’altrove, Parigi (o Londra).

L’autunno “caldo” delle lotte operaie e studentesche si faceva inverno algido degli anni di piombo, annunciato dall’uccisione dei braccianti di Avola del dicembre del 1968 e di due operai di Battipaglia nella primavera del 1969, esploso nel dicembre del 1969 con una bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano, e Giuseppe Pinelli cadde dalla finestra e, poi, all’anniversario, come una celebrazione di ricorrenza, il principe Junio Valerio Borghese tentò il colpo di Stato (ridicolo perché abortito) e Giovanni Leone, superstizioso come una maschera della commedia italiana, avvocato di un esponente della famiglia dei cavadduzzu in un processo per omicidio, eletto nel 1971 Presidente degli Italiani,di tutti gli Italiani, siciliani e il sottoscritto compresi, e Boia-chi- molla a Reggio di Calabria e Catania, dei sindaci incolori Magrì e Marcoccio, divenne nera: nelle elezioni comunali del 1971 il Movimento sociale Italiani ottenne un grande riconoscimento elettorale con il 21,5% dei voti.
 Il prezzo del petrolio dei paesi dell’Opec nell’autunno del 1973 giunse alle stelle, svalutando ulteriormente la lira, in balia dei cambi instabili seguiti all’abbandono (agosto1971) del gold exchange standard degli accordi di Bretton Woods del 1944 (la convertibiltà del dollaro in oro): giungeva al termine la ricreazione del lungo quarto di secolo dalla conclusione della seconda guerra mondiale.
 La stagflazione si aggirava per l’economia dell’Occidente: un matrimonio di sposi solitamente incompatibili, inflazione di prezzi con aumento della circolazione monetaria ( con il contributo locale dell’invenzione dei miniassegni di Pippo Recca, rammenta Lazzaro Danzuso) e stagnazione di produzione e reddito.
“Nixon boia”, tra Vietnam e Watergate, erano nel frattempo nate le Brigate rosse, era nato il Gap di Giangiacomo Feltrinelli, e si rapiva il giudice di Genova Mario Sossi. Una bomba a Brescia in piazza della Loggia (otto morti) e fu guerra civile tra i giovani. Gli adulti, i democristiani compagni di partito di Leone, Rumor e Gui, il socialdemocratico Tanassi prendevano tangenti dalla compagnia aerospaziale, Lockheed. E si sparava, senza misericordia e a bersaglio, alle gambe, al cuore, in testa a Montanelli, a Carlo Casalegno, a Walter Tobagi, a magistrati, a poliziotti, ad operai, a professori universitari, a studenti, a povera gente, ad Aldo Moro.
Come si poteva amare il paese di Giovanni Leone, quello delle corna apotropaiche, delle Brigate rosse e del terrorismo rosso e nero (solo cromaticamente stendhaliano)?
E chi poteva avere testa alla mafia di Catania? Solo uno: Giuseppe Fava che amava ed odiava Catania. Noi avremmo voluto essere (ed eravamo) altrove. Come Sciascia, maestro di stendhalismo, che, inaugurando i suoi romanzi (romanzi?)  di mafia con Il giorno della civetta (1961, rappresentato nel 1964 da Giancarlo Sbragia allo Stabile di Catania), “insegnando” (e trasfigurando in fantasma letterario) la mafia, in irriducibile opposizione aveva caparbiamente testa al “compromesso storico” tra Sinistra e “masse cattoliche che non esistono”, tra l’esistente (caspita, se esistente!) Andreotti e Berlinguer, nel cui partito alle comunali palermitane del 1975 il grand’uomo di Racalmuto veniva eletto come indipendente.  
Noi eravamo di casa, a due passi da casa, nella guerra dello “Yom Kippur”, dell’attacco militare egiziano ad Israele (ottobre 1973), nella guerra civile tra musulmani, palestinesi e cristiani maroniti del Libano, disputato da Siria ed Israele.
 Noi eravamo lontani dalla mafia e da casa; eravamo di casa in quella schifezza feroce del cambogiano Pol Pot, nel Cile del povero Allende e dell’abominevole Pinochet, nel Portogallo post-salazarista e nella Spagna senza Francisco Franco.
Eravamo in ogni luogo, tranne che a Catania. E conoscevamo Sarti, Burgnich, Facchetti e Gigi Meroni. Sapevamo tutto dei Drusi, dei Falascià etiopi, dei Senussiti libici, delle nazioni degli Indiani del Nord America, di Sartre e di Camus.
Non ci restava tempo per informarci delle correnti democristiane nazionali, degli “ascari” dei partiti romani.
Drago, chi era Drago? E Micale? Di Turi Micale sapevamo quanto quel graffitaro insospettato di Checco Rovella aveva pittato sui muri cittadini: “Il Pigno ha sete e Micale se ne fotte”.
Chi, invece, era tutto a Catania di cui capiva gli umori profondamente superficiali, popolari, quello fu Pippo Recca, il geniale pioniere a Catania della “terza rivoluzione industriale” (televisione, informatica e telematica) che aveva fatto i primi passi negli Usa degli anni Cinquanta e i secondi, di corsa, in Giappone.
E a questa città, alla sua città regalò lo specchio, fedelissimo specchio: la televisione, “Teletna”.
Il libro di Lazzaro Danzuso è un omaggio a Pippo Recca e, nel contempo, un racconto stendhaliano (inconsapevole?) di questa nostra Grenoble, passata, prossima e ventura.



“La gioia che dà Stendhal è imprevedibile quanto la vita, quanto le ore di una giornata e quanto le giornate di una vita. Quando e quanto più crediamo di conoscerlo, ecco che ci sorprendiamo a scoprirlo in un passo, in una frase; o a sovvertire, tra i suoi libri, l’ordine delle preferenze, delle affezioni”










Testi di riferimento:


           Guido Ceronetti, Un viaggio in Italia, 1981-1983, Einaudi 1983
Franco Sidoti, Povertà, devianza, criminalità nell’Italia meridionale, Franco Angeli 1989
Alfio Caruso, Tutto a posto 1991 e  I penitenti, Mondadori 1993
Claudio Fava, La mafia comanda a Catania (1960-1991), Laterza 1991
Antonio Di Grado, Casa la Gloria, Il Girasole 1992
Enzo Russo, Nato in Sicilia, Mondadori 1992
Silvana La Spina, L’ultimo treno da Catania, Bompiani 1992
Tino Vittorio, L’ordine e la moralità negli affari a Catania, Collegio de Ragionieri di       Catania 1993
Fabio Albanese, La tele dell’Etna, Bonanno 2007