martedì 30 aprile 2013

Eros senza spread

I fondatori della Costituzione italiana provenivano dal Fascismo, da una congiuntura economica di disoccupazione di tutti i fattori produttivi, di inflazione (anni Venti), deflazione (secondi anni Venti e primi anni Trenta) e re-inflazione programmata [svalutazione della moneta a cominciare dalla sterlina (1933) e poi a proseguire con il dollaro (1934) e poi con la lira (1936)]. Furono disoccupazione e guerre di colonizzazione, contadine le loro esperienze traumatiche, formative, ossessive. Fecero la Costituzione e l'articolo 1: "L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro...". Si dimenticarono di chiarire se il lavoro fosse un desiderio, un obbligo o se fosse salariato, reificato, alienato e alienante.

Una Costituzione che non riguarda i disoccupati patenti delle statistiche e dei suicidi, né quelli latenti (i familiari impiegati nelle aziende dove nascondono la loro inutilità lavorativa) né i marxisti né i reichiani-marcusiani (ché il lavoro è una follia, un'alienazione, un dispiacere), né i lettori della Bibbia che sono tanti in un paese di Vecchio e Nuovo Testamento come l'Italia e per i quali il lavoro è una maledizione divina, una cacciata dal Paradiso, un'andata all'inferno.

Una Costituzione che prescinde dai suoi costituiti in gran parte fuori dalla loro Costituzione, lavorativa.

Una Costituzione che pone problemi e non li risolve, che rende incostituzionali i disoccupati, i marxisti, i cattolici e tutti quelli che vennero fuori negli anni Sessanta del secolo scorso per i quali la loro costituzione, personale e psicologica, era fondata sull'eros contro l'ergon. "L'eros è civiltà" scrisse Herbert Marcuse. Tutti l'intesero copulativamente quella "e" congiuntiva di "eros è civiltà". Ma come si dice: carta canta o scripta manent! E verba volant. Amen! Rifondiamo, allora, la Costituzione: "La Repubblica (ma potrebbe a questo punto essere una monarchia, un'oligarchia, un'anarchia) italiana è fondata sul piacere. Il piacere è tutto mio, tuo, suo, nostro! Grazie. Prego".

Comunque, ci vuole poco ad essere civili. L'eros non conosce spread ed è una risorsa abbondantemente diffusa in tutti gli strati sociali e in tutte le stagioni dell'età, non è monopolio dei banchieri né dei vecchi che governano il mondo. I vecchi mentali, non anagrafici! John Maynard Keynes — uno che si intendeva di piaceri e di economia — con tutto il suo circolo di Bloomsbury sarebbe d'accordo.

Tino Vittorio

Leggendo Giuseppe Borri?


Realizzato da Francesco Hayez nel 1846
Leggendo Giuseppe Borri, devoto cognato di Manzoni, scopriamo una Sicilia alla moda. Edificante. Solo perché teneva alla sua identità, al suo onore, all'onore delle sue donne difeso dalla spada, dal coltello, dal forcone. A scanso di equivoci ci teniamo saldi alla rappresentazione di Steven Runciman, The Sicilian Vespers, che è una History of the Mediterranean World in the later thirteenth century (1958, la traduzione italiana di De Donato è del 1971).

Lei, Isabella bionda-Lucia mora, lui Renzo-Guglielmo, l'altro Don Rodrigo-San Remigio, Gran Giustiziere, angioino. Lei e lui dovevano sposarsi nel 1282 nella Sicilia franco-sicula di Carlo d'Angiò contro il modello seicentesco, ispano-lombardo, del cognato, don Lisander, sposo in seconde nozze (1837) di Teresa Borri vedova Stampa. Isabella, consunta dal dolore per la morte del padre e per quella presunta del promesso sposo, Guglielmo, esalerà l'anima qualche giorno prima di Guglielmo che si spegnerà, armi in pugno, a Messina, assediata dalle truppe di Carlo d'Angiò. Tutto questo si legge ne I promessi sposi siciliani e Giovanni da Procida di Giuseppe Borri, un romanzo storico, scritto sul calco de I promessi sposi manzoniani e pubblicato una cinquantina o sessantina di anni dopo la sua composizione.

Il romanzo del Borri, scritto presumibilmente intorno agli anni Quaranta dell'Ottocento - ma forse intorno agli esiti "infami" della seconda guerra d'Indipendenza (1859), conclusa improvvisamente con l'Armistizio di Villafranca, determinando le dimissioni di Cavour dalla Presidenza del Parlamento piemontese - è un romanzo misogallo, antifrancese, tanto che i curatori dell'edizione postuma, i coniugi Cornelio-Massa, scrivevano nella prefazione del 1906 all'edizione della Casa Tipo-lito edit. Sinibuldiana di Pistoia: «L'autore, scrivendo parecchio tempo avanti l'epoca del risorgimento italiano, non poteva ricordare altro che le antiche note storiche, ridondanti dalle oppressioni venute alla Sicilia dalla dominazione francese. Certo - egli se avesse scritto il suo lavoro dopo il 1859 [seconda guerra d'Indipendenza], dopo che il sangue francese si era mescolato col sangue italiano sui campi di battaglia, per liberare la patria nostra dal giogo straniero - avrebbe temperato alcune frasi di risentimento perdonabile verso chi non poteva allora prevedere gli eventi e nutrire per la Francia sentimenti di gratitudine».

In vero, esclusa qualche frangia di cattolici, tutti i protagonisti - cavurriani, mazziniani, garibaldini, pisacaniani del Risorgimento italiano - nutrirono un'avversione - più o meno esplicita ma radicale - nei confronti di Napoleone III e della sua politica sud-europea che tendeva a fare divenire il Mediterraneo a «French lake» - come scriveva e diceva Mazzini, nascondendosi che il Mediterraneo da tempo era «an English Sea», ai suoi amici inglesi che voleva interventisti per non correre con «the non-intervention principle» la perdita del controllo, del monopolio dei traffici economici e militari di quell'area, degli «high British interests in the Mediterranean» (vedi la recente pubblicazione delle «Lettere agli amici di Scozia e d'Inghilterra» di Giuseppe Mazzini, «Nel segno della democrazia», Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011).

Il punto è un altro: perché un milanese si mise a scrivere un romanzo geograficamente, politicamente, storicamente siciliano? Manzoni, il cognato-guru, aveva nutrito nella gioventù giacobinizzante umori "leghisti" - oggi diremmo - affidati all'Etna e in Renzo e Lucia aveva mandato in punizione fra' Cristoforo in un punto fuori dal mondo, a Palermo. Invero dall'inizio dell'Ottocento, i Vespri (il Vespro, meglio, ché Vespri fu conio francese come raccontava nel 1973 Leonardo Sciascia in «Il mito del Vespro», ora in «Opere 1971-1983», Bompiani) si posero come un tema culturale alla moda dalla librettistica musicale alla letteratura. In pittura Francesco Hayez, il pittore, tra gli altri, di Alessandro Manzoni, di Teresa Borri Stampa, rappresentò varie volte nei suoi quadri il Vespro siciliano, prima e dopo l'opera di Michele Amari, edita a Palermo con il titolo rassicurante (ma non tanto da non causargli l'esilio in Francia) «Un periodo delle istorie siciliane del secolo XIII», tormentato in diverse edizioni. Insomma, mentre il Mediterraneo era uno stagno inglese, tenuto saldamente in mano tra Gibilterra, Malta e altri luoghi "informali" di protettorato, il Risorgimento temeva i Francesi: temeva che il Mediterraneo divenisse un lago francese. Boh! La Storia si fa romanzo. Guazzabuglio. Ineluttabilmente. E non distingue tra quel che si pensa e quel che si vede, tra la vista dell'anima e la vista degli occhi!

Tino Vittorio

lunedì 29 aprile 2013

Il transitivo scoppia di salute, il transitivo è malato

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Per Carl Gustav Jung la contemporaneità era Zivilisation im Übergang ovvero civiltà oltrepassata (civiltà al trapasso), quindi barbarie o americanizzazione o dominio della Tecnica. La Svizzera, non geografica ma antropologica, veniva posta come alternativa all'oltrepassamento («Noi svizzeri crediamo nella qualità... Da noi tutto sta nella virtù, nel valore e nella tenacia del singolo». Più in là si dice che lo Svizzero è un montanaro, rinserrato o autoesiliato nella cocciutaggine e nella diffidenza degli... svizzeri).

In questi giorni ci sono studiosi come Latouche o Cassano che vedono l'arretratezza del Meridione (il computer scrive sempre Merdione e io a correggere. Ma se avesse ragione il computer?) o la decrescita del sottosviluppo quali alternative alla crescita o al Settentrione capitalistico. Prima osservazione: la Zivilisation non è un oltrepassamento, non è l'oltrepassamento della Kultur (insomma, siamo al tramonto del tramonto a una formula, vale a dire, in cui la specificazione è una geminazione come la lingua della lingua il piede del piede. Quindi non si aggiunge senso, ma si esclude che ce ne possa essere nel soggetto autospecificato)?

Quanto alla civiltà o Zivilisation di Jung riporto la sua definizione: «Civiltà significa essenzialmente continuità e prevede un'ampia conservazione dell'antico; la ricerca del nuovo invece crea inciviltà e sfocia in pura barbarie». Ma il nazismo, barbarie dei suoi tempi, fu per Jung l'affioramento di antichi archetipi, del passato di Wotan, l'emergere dell'antica bestia bionda messa in sonno dal cristianesimo. Lo Svizzero come la melenzana di serra che è diversa dalla melenzana a campo aperto ma sempre melenzana è! E in effetti la Svizzera è diventato il nuovo centro del mondo, un centro virtuale, un'inesistenza reale, come il denaro delle sue banche, che riempiono quelle banche, svuotate le nostre tasche.

Domanda ineludibile: che cos'è l'anima, Seele, dello Svizzero che non ha terra (poca è quella tra le montagne e nella finanza — il denaro non ha radici) come non ha terra l'Ebreo dei tempi di Jung? Chi non ha terra non ha radici, non ha madre, non ha inconscio, non ha archetipo o principio di vita spirituale. Insomma, è uno psicopatico che deve surrogare con la cura dell'analisi la sua consistenza: «Il contatto con l'inconscio ci avvince alla nostra terra e ci rende duri da smuovere [la cocciutaggine e la diffidenza degli Svizzeri], il che certamente non è un vantaggio nei riguardi della capacità di progredire e di ogni altra forma di desiderabile mobilità. Ma non vorrei dir troppo male del nostro rapporto con la buona Madre Terra [la filiale devozione della melenzana!]. Plurimi pertransibunt [et nullus est qui non intransit, ché siamo tutti viandanti, costruzione del nostro errare, somma dei nostri errori — per dirla con il buon Nietzsche], ma chi rimane attaccato alla sua terra ha durata. Esser lontani dall'inconscio e quindi dalla condizionatezza storica [la Storia, id est: tempo, in Jung è spazio; la medesima convinzione della melenzana che ha una storia nel suo spazio di terra ortiva] significa mancare di radici. Questo è il pericolo che minaccia il conquistatore di un suolo straniero; ma è anche un pericolo per il singolo se [...] perde il nesso con l'oscuro fondo originario materno della terra da cui è cresciuto». Cosi parlò... la melenzana alla balaustra!

Tino Vittorio

Al mulo del tempo

Un romanzo storico «Il martirio del bagolaro» (Carthago Edizioni, 2013) dove la Storia non è magistra vitae, non è memoria da celebrare per ficcarci radici o da studiare come un insetto ripugnante da cui svellere le proprie radici, un romanzo dove la Storia è un alibi che nasconde il parricidio. È un racconto contro la Storia, nonostante o proprio per i diffusi riferimenti alle vicende risorgimentali, al 1812 della Costituzione anglo-siciliana, al 1837 del colera “separatista” o “autonomista” siciliano, al 1848-49 antiborbonico, al 1862 garibaldino e cavourriano (questo è l’anno di inizio del romanzo quale contributo all’Unità d’Italia nel suo centocinquantesimo anno — meno tre mesi ché il libro è edito nel dicembre del 2012, mentre l’anniversario nazionale cade nel marzo del 2013).

L’Italia, dopo la matria scozzese di Walter Scott, è una delle patrie (ma i russi non scherzano: basterebbe soltanto Tolstoj a sostenerne millanta di romanzieri storici!) del romanzo storico (Manzoni, il cognato di Manzoni con un suo contributo romanzato alla conoscenza dei Vespri Siciliani, gli emuli manzoniani coevi, i siciliani De Roberto, Pirandello, Tomasi di Lampedusa, Consolo e così via). Il paradigma italiano di questo genere letterario è fornito da I promessi sposi dove la fiction è usata per denunciare la feroce vergogna del sistema procedurale del diritto penale italiano, fondato (non del tutto tramontato, se pensiamo al caso orribile del giovane Cucchi) sulla tortura che — per l’ambito manzoniano — fu un cruccio dello zio di Manzoni, Pietro Verri, fratello maggiore di Giovanni, padre naturale di Manzoni, del nonno del Manzoni e poi di Alessandro Manzoni con la Storia della colonna infame, relativa alla peste del Seicento e che è il perno storico del romanzo.

Manzoni con il suo romanzo storico intendeva rendere più efficace la narrazione nobilitandola o accreditandola con la documentazione storica, l’esordiente ventiseienne Rosario Russo usa la Storia per denunciarne la mistificazione, l’inutilità e il danno — per dirla con il famoso titolo della Seconda «Considerazione inattuale» di Nietzsche. Il suo non è un romanzo sul Risorgimento, ma una presa in giro del Risorgimento e della Storia come disciplina accademica. Della Storiografia, vale a dire. Ognuno — e qui va detto — se ne libera come può della Storia, preda da caccia della storiografia che la studia spietatamente per mummificarla, per impagliarla e metterla in soffitta ad evitare che il passato si presenti irriconoscibile — per gli sprovveduti o/e entusiasti cercatori di radici — come futuro ché sarebbe un futuro da zombie. D’altra parte la storiografia — la sua produzione e il suo consumo — è in relazione negativa con la Storia (lo stesso rapporto tra Kultur e Zivilisation come insegna Spengler, ribadito in «Critica della notte», splendido e prezioso libriccino del mio ospite).

Gli scrittori abitanti in Sicilia hanno partecipato e partecipano vocazionalmente alla crescita del romanzo storico. Il loro Beruf è il romanzo storico, come l’attrazione del vuoto. In questo Risorgimento di Russo opera una setta mai esistita dei Martiri del Tricolore, punitori di quei fedeli borbonici che nel 1848 agevolarono la repressione dei liberali per mano del principe di Satriano, Carlo Filangieri. E per tutta la durata del romanzo Russo ci fa credere che il vecchio Leonardo Mancini, trovato ammazzato nella sua camera da letto, sia stato vittima della vendetta degli unitari. Un sapiente intreccio, guastato qua e là da qualche ingenuità linguistica come «a cavallo di un mulo» o come l’uso transitivo, siciliano, del verbo «uscire».

Il titolo è un omaggio al vero martirio che non è quello degli unitari risorgimentali, ma quello di Saverio, di Edoardo, di Nardo, di Venera. Un omaggio anche al minicucco, il bagolaro, presso cui si costituisce il nucleo del romanzo dell’amore contrastato e punito fra due ragazzi costretti o incoraggiati all’omosessualità dalla detenzione tre le mura dell’Oratorio dove Saverio ed Edoardo erano stati consegnati, reclusi dai rispettivi genitori.

Il protagonista è un giovane aristocratico acese, Nardo Mancini, che scapperà dalla Sicilia con la sua Venera, la criata della famiglia, prima a Napoli e poi a Milano dove andrà a fare il bibliotecario mentre tutti i parenti l’hanno dato per suicida o rapito dai briganti.

È un romanzo dove si agita il complesso di Telemaco o di Astianatte, un romanzo che piacerebbe a quello che oggi sembra essere l’analista lacan-junghiano più alla moda in Italia, Massimo Recalcati. I protagonisti sono i figli, i nostri figli che si vivono come creditori di un risarcimento generazionale inesigibile. Un romanzo che è una sorta di manifesto disperato dei giovani, di quei giovani italiani, europei, occidentali maltrattati dai loro “indegni” padri e che per questo «vorrebbero scomparire per sempre», come confessa Nardo subito dopo la scoperta del parricidio dello zio Saverio prete con cui il giovane si era intrattenuto a parlare dell’omicidio del nonno, ammazzato dallo zio Saverio: la pena di morte contro la costrizione a indossare la tonaca, all’obbligo della rinuncia alla primogenitura a favore del fratello, padre di Nardo, alla cancellazione del suo destino di edonista e per avere indotto al suicidio Edoardo, il coetaneo amante.

«Uscì da quella stanza…» — e sembra, Nardo Mancini, un calco della manzoniana madre di Cecilia «scendeva dalla soglia di uno di quegli usci» — «uscì da quella stanza con un senso di ribrezzo verso il mondo che lo circondava. Si era aspettato che lo zio c’entrasse qualcosa con la morte del nonno, ma scoprire tutte quelle violenze, quelle sofferenze… Ma altro che scapparsene alla piana [di Catania]… qua si trattava di darci un taglio definitivo, di sparire per sempre da questo mondo. Ormai era arrivato al limite. La vita aveva perso ogni valore». Per trovarne o ritrovarne uno, bisogna andarsene da quel melenzanaio che è la Sicilia. Lontano. «Per dove? Da dove?» mi chiedo con il titolo di uno straordinario mai invecchiato saggio di Claudio Magris dedicato al suo Joseph Roth, cantore, ciantro della fine del mondo che fu la dissoluzione dell’impero austro-ungarico!

Tino Vittorio

L'arte degenerata della paternità

Da quando ho finito di leggere un romanzo di un ragazzo acese (Rosario Russo, «Il martirio del bagolaro») che racconta di un parricidio (il figlio è un omosessuale punito dal padre dopo la scoperta della diversità filiale), mi sono rimesso a lustrare gli ottoni bibliografici (Freud, Dostoevskij, etc.) del parricidio e mi sono imbattuto, oltre che in Massimo Recalcati («Il complesso di Telemaco»), anche in Zoja, «Il gesto di Ettore».

Tutti dicono che il padre è un'invenzione recentissima nella specie animale, un'invenzione paradossale perché frutto di una scelta contro natura. Il padre è il principio della civiltà, il luogo da cui prende inizio la civiltà contro la natura. Insomma la femmina è immediatamente madre, il maschio deve scegliere di essere padre, rientrando a casa per accudire i cuccioli, consegnandosi alla monogamia. È una scelta recente (qualche migliaio di anni contro i 4,5 miliardi di anni della Terra) e fragilissima. Da qui la ricerca continua del padre, del fondamento simbolico, perché la paternità è artificiale, simbolica e non naturale. Siamo tutti senza padre o, per dirla con Nietzsche, «chi non ha un padre, se lo deve dare». Il parricidio (simbolico o reale) pertanto è l'atto più inutile che si possa compiere, un maramaldeggiamento («tu uccidi un uomo morto»), ma per questa inutilità esso fonda un carattere, un progetto di vita — quello del parricida — su un vaneggiamento che procura nevrosi e scompensi affettivi e psichici. In Jünger l'Operaio è un orfano che surroga la paternità perduta o assente con l'artificio della Tecnica. Grande Jünger, più grande di Freud e di Jung!

Tino Vittorio

Cannoni, studenti e melenzane

Per avvistare la differenza tra una melenzana e un marinaio leggiamo, con la guida di Karl Schlögel, «Il Tempo del Settecento nello Spazio del mondo».

Il filosofo, pensando il mondo, rimprovera lo storiografo di non pensare il mondo, di non capire lo Spazio e il Tempo, di non sapere la lettura dello Spazio nel Tempo o del Tempo nello Spazio (Spazio e Tempo sono funzioni reciproche, l'uno dell'altro). Guardo il Tempo di Horatio Nelson (1758-1805) e quello di Rosario Gregorio (1753-1809). Guardo lo Spazio dell'uno (il mondo, il mondo anglicizzato) e dell'altro (la Sicilia dell'abate Vella e dell'arabica impostura). Tutt'e due, conterranei (del quartiere Olivuzza di Palermo e dei feudi di Bronte) e contemporanei, si saranno visti o — per poco — è mancato che si vedessero in Sicilia. L'uno era l'esponente dell'illuminismo siculo, l'altro era l'anima nautica dell'imperialismo inglese, del mondo anglicizzato. L'uno è l'eroe della storiografia settecentesca e dell'antiquaria "normanna" degli studiosi siculi, l'altro cambiava a cannonate il mondo. Sapete chi dei due è materia formativa degli studenti in Sicilia?

Tino Vittorio

Colonizzatori Ebrei e melenzane italiane

«Una persona stupida (o un partito politico o un'ideologia o un regime) è una persona che causa un danno ad un'altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita» (Carlo M. Cipolla, Allegro ma non troppo).

Mentre l'impero ottomano andava cadendo a pezzi, l'Europa cristiana e giudaica pensava, da iena, di mangiarne i resti. La Libia, ad esempio, sembrava un bel boccone. Sin dal primo Ottocento la si studia, vi si viaggia e se ne dà conto antropologico e geologico da parte di geografi e di archeologi. Gli Inglesi vorrebbero sistemarvi gli Ebrei. John Walter Gregory, professore di geologia all'Università di Glasgow, pubblica nel 1909 (la guerra di Libia dell'Italia contro la Sublime Porta è del 1911) e per conto della Jewish Territorial Organization, una relazione: Report on the Work of the Commission Sent out by the Jewish Territorial Organization to Examine the Territory Proposed for the Purpose of a Jewish Settlement in Cyrenaica. E sarebbero stati, i sionisti, ben accolti in quei territori. I Turchi li preferivano come colonizzatori della Cirenaica e alleati contro la temuta invasione che gli Italiani stavano preparando. Ma quel terreno fu rifiutato dagli Ebrei che pure, dopo i pogrom russi di fine Ottocento e il Congresso di Basilea del 1897 dominato dal sionismo di Theodor Herzl, cercavano decisamente «un focolare garantito dal Diritto Pubblico» in giro per il mondo e nel Nord America (dove da tempo il Far West era diventato un pretesto per fare marketing di Geografia e Storia — notevolissimo il racconto della fregatura subìta da immigranti inglesi, tedeschi, francesi, russi imbrogliati dai pubblicitari imbonitori delle terre del West, fatto da Jonathan Raban, «Bad Land», relativo alla regione del Montana orientale).

Gli Ebrei scemi non erano. Avevano rigettato l'Uganda della proposta inglese del 1903 e abbandonano adesso il progetto libico, nonostante il ben volere turco e l'ipotesi che la Cirenaica potesse essere un rifugio temporaneo per la sistemazione (in seguito definitiva nei territori del colle di Sion, la Palestina). In Cirenaica, altopiano calcareo e carsico, la disponibilità d'acqua era insufficiente e gli indigeni arabi assai turbolenti. Finì che ci andarono gli Italiani a spendere immensi capitali, a fare strade, a creare villaggi, a metter in piedi un impero di cartapesta a ricordo vivo del trionfo dei fasti dell'antica Roma, a depositare le eccedenze demografiche rappresentate — come un'escrescenza tumorale a danno dell'economia italiana — dai contadini pugliesi, abruzzesi, veneti, calabresi, siciliani. Melenzane che depositavano melenzane per produrre melenzane. Una produzione di melenzane a mezzo di melenzane in un deserto carsico da trasformare in orto: questo fu il fascismo coloniale. Un regime economico deflattivo che viveva di spesa pubblica, di bonifiche in casa e in Libia: da una parte produceva fenomeni di disoccupazione di capitale e lavoro, tenendo alto il valore della lira per attirare investimenti e finanziamenti esteri, dall'altra spendeva e spandeva fino all'obbligata svalutazione del 40% nel 1936 a dieci anni dalla svolta di Pesaro, quando la lira fu portata a quota 90 (una sterlina contro 90 lire, mentre sul mercato la sterlina aveva superato il valore di 150 lire).

Non desiderare la terra d'altri. La colonizzazione italiana in Libia è il meticoloso lavoro di Federico Cresti (Carocci, 2012). Lo leggi e vai pensando che i fascisti non furono ... fascisti, ma italiani, non furono i capitalisti putrescenti (perché nella fase suprema il capitalismo andrebbe in putrefazione), non esportarono — imperialisti — eccedenze di capitale finanziario, non furono ricercatori di Lebensraum, non furono soltanto (e fu parecchio!) etnocidi della Senussia. Melenzane furono. Con la trovata che la questione meridionale, agraria, dell'eccedenza demografica si potesse risolvere allungando come un elastico l'Italia meridionale fino a farla coincidere con la Libia. Melenzane elastiche!

Tino Vittorio

La quistione merdionale

A conclusione del suo contributo al centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia, il napoletano Paolo Macrì cita il nativo di Melfi (Basilicata) Francesco Saverio Nitti (1868-1953) di Nord e Sud (1900): «È innegabile che politicamente i meridionali hanno rappresentato un elemento di disordine. Le loro amministrazioni locali vanno, d'ordinario, male; i loro uomini politici non si occupano, nel maggior numero, che di partiti locali. Un trattato di commercio ha quasi sempre per essi meno importanza che non la permanenza di un delegato di pubblica sicurezza». Insomma, l'unificazione del Paese non ha estirpato la mala pianta del dualismo economico. E nella consapevolezza che «il dualismo economico è un fenomeno strutturale, politico, ideologico troppo lungo e articolato per essere riassunto nell'amara severità di Nitti», Macrì commenta che — in quanto professore universitario — è elemento della classe dirigente meridionale: «La citazione [...] allude a quel che sembra il punto critico — per non dire la genesi — della questione, ovvero al rispecchiarsi assai poco virtuoso, nei municipi e nelle constituencies del sud, tra elettori ed eletti, amministrati e amministratori, comunità e notabilato [...]. Il che significa che, qualunque sia stato storicamente il ruolo dei governi centrali, molta parte del problema del dualismo va addebitato alle classi dirigenti e alle comunità del Mezzogiorno» (in Unità a Mezzogiorno, Il Mulino 2012).

Al Mezzogiorno va autoaddebitato il suo sottosviluppo come al suo terriccio la formazione, il sapore, il colore, la razza della melenzana per la quale il Tempo o la Storia (per gli uomini) è un insignificante accidente dello Spazio (per dirla tutta, lo Spazio non sa cosa sia il Tempo). È un debito che l'uomo nero, il guineano Yali di Diamond, non riconosce con  una domanda che strinse l'ornitologo Jarred Diamond a elaborare per venticinque anni una risposta (Guns, Germs and Steel. The Fates of Human Societies, 1997): «Come mai voi bianchi avete tutto questo cargo [ascie di acciaio, fiammiferi, medicine, vestiti, bibite, ombrelli...] e lo portate qui in Nuova Guinea, mentre noi neri ne abbiamo così poco?». Yali vuole dire che i meridionali non sono ... meridionali (sono le melenzane ad essere melenzane!), ma ci sono meridionali che si trattano come melenzane, si specchiano, si riflettono allo specchio vegetale della loro intelligenza come se fossero melenzane, frutto senza Tempo, immemori di una tirannica, atemporale, deterministica spazialità. Macrì, invece, dice che l'Unità fu una bella idea ammaloratasi nell'incontro con il Mezzogiorno dove la «guerra [di Garibaldi all'esercito borbonico] diventa guerriglia. La rivoluzione si intreccia con le faide locali. La politica si trasforma in cospirazione. La legalità è garantita dai gruppi illegali. Gli ideali si sfilacciano nel camaleontismo. Lo stato si autodistrugge» (p. 87). Napoli risorgimentale cade in mano a «Michele 'o Chiazziere, allo Schiavetto, a Tore 'e Crescenzo e agli altri capi della criminalità». E Palermo, come tanti altri municipi meridionali si intruppò di «persone di perduta fama, persone implicate in processi tuttavia pendenti per furto e per omicidio, persone che subirono condanne sotto il regime borbonico non già per reati politici, ma per truffe, per risse a mano armata, per furti e altre iniquità». Sembra la descrizione di quest'Italia antropologicamente berlusconiana, governata o sgovernata da Berlusconi che non nacque, non crebbe e non visse a Scampia! E ... questa tastiera che invece di meridionali batte perfidamente, razzisticamente, melenzanamente merdionali!

P.S. Paradosso del merdionale: può dire qualcosa di buono un meridionale che ritiene i meridionali incapaci di dire (e fare) qualcosa di buono? Yali direbbe che il paradosso è nella convinzione che ci siano meridionali con la stessa evidenza ontologica (l'essere alla vista) della melenzana!

Tino Vittorio

Who's afraid of Mr. Bentinck?

«Da allora [1805] e fino alla conclusione delle guerre napoleoniche, la Sicilia fu un'isola britannica, un protettorato di fatto del governo della Gran Bretagna, con Bentinck in funzione di governatore» (Lucy Riall, La rivolta. Bronte 1860, Bari Laterza, 2012). La cosa "divertente" è che nel decennio inglese si elabora la Costituzione del 1812 alla quale i Sicili-Ani autonomisti, i siciliani per eccellenza, sono devoti. E Giuseppe Mazzini, durante il suo secondo soggiorno londinese, pubblicava agli inizi degli anni '50 l'opuscolo La rivoluzione siciliana e l'intervento britannico in Sicilia, dove si sottolineava l'interesse commerciale dell'isola per l'Inghilterra, ma si rimarcava anche l'influenza «né benefica, né onorevole» che gli Inglesi vi esercitarono dalla pace di Utrecht fino al 1849 per esortarli nel futuro ad «evitare ogni sospetto di ambizioni egoistiche nei riguardi della Sicilia» (e ancora: «non si devono sostenere gli schemi della Costituzione del 1812 e l'indipendenza dell'isola da Napoli e dalle altre province italiane, ma l'unione della Sicilia al resto di un'Italia indipendente». Cfr. p. 124 di Emilia Morelli, L'Inghilterra di Mazzini, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 1965).

La Costituzione materiale, degli interessi materiali, era data dalla strategia imperiale dei militari e dai commercianti di vini, di olio, di zolfo degli operatori albionici, guidati e protetti da William Cavendish Bentinck. In quegli anni, in buona sostanza, la Sicilia fa parte di un impero informale come risposta al blocco continentale di Napoleone. I Siciliani, come scimmiette sia pure furbe, discutevano di quel che il domatore loro ammanniva in ammaestramento e pensavano di essere autonomi. Erano, in vero, automi di quell'imperialismo costituzionale britannico che veniva espandendosi per il Mediterraneo in Corsica come in Sicilia, come a Malta, come nelle Isole Ionie della Repubblica settinsulare (vedi la magistrale trattazione di Carlo R. Ricotti, Il costituzionalismo britannico nel Mediterraneo (1794-1818), Giuffrè-Luiss University Press,Milano2005). Contemporaneamente era in mano inglese (in "semi-protettorato") il Piemonte sabuado a cui era stata "imposta" l'annessione di Genova e del suo porto franco con il trattato di Parigi del maggio del 1814: "Il Piemonte si presentava [...]e nelle province di terraferma e, a maggior ragione, in Sardegna, come un pèaese ad economia agricola affatto sfornita d'industria (quella della seta ecctuata) e poverissimo di capitali: che l'Inghilterra lo considerasse come una possibile colonia di sfruttamento, da mettere in valore con un considerevole apporto di capitali, dimostra ampiamente il pullulare di case di commercio inglesi stabilitesi a Genova dal 1814, e a Cagliari durante l'ultimo periodo della residenza della Corte sabauda nell'isola. Ottimamente situato fra Austria, Svizzera (Germania) e Francia, il Piemonte era insomma destinato dall'Inghilterra a diventare il commesso viaggiatore dei suoi prodotti nell'Europa centrale" (Nello Rosselli, Inghilterra e Regno di Sardegna dal 1815 al 1847, Einaudi Torino !954, p.9).

Ma torniamo alla Riall che spiega il suo interesse per la Ducea di Bronte, donata a Horatio Nelson da Ferdinando nel 1799, grato per l'abbattimento della Repubblica partenopea dell'ammiraglio Caracciolo e della Pimentel Fonseca : «Pur avendo vissuto la maggior parte della mia vita a Londra, sono di origini irlandesi; e quando non sono a Londra, sono quasi sempre in Italia [docente di Storia all'Istituto universitario europeo di Firenze]. Spero di essere riuscita a mostrare che Bronte, come l'Irlanda nella quale sono cresciuta, si porti dietro un'identità difficile, frammentata, e una lunga tradizione di lotta contro la presenza britannica. Nel suo passato, inoltre, il movimento nazionale italiano incrocia il colonialismo. Si potrà quindi capire che un luogo come Bronte, la cui atmosfera richiama in modi vari e mutevoli elementi italiani, inglesi e irlandesi, ha sempre conservato per me un fascino particolare». La Sicilia-Irlanda subì una trasformazione duratura in quello che è chiamato decennio inglese e, se dopo la scomparsa di Napoleone si allontanò il pericolo francese dello strangolamento mediterraneo dell'impero inglese, non si poteva non ricordare che «nel 1808» scrive la Riall «i mercanti britannici valutavano ormai che la Sicilia (assieme a Malta) costituisse un investimento migliore del Sudamerica, e nel 1808, allorché si determinò una crisi dei rapporti con la monarchia borbonica, furono loro stessi a fare pressioni sul governo britannico perché non ritirasse le sue forze dall'isola. Essendo impediti i rapporti con l'Europa del Nord e con il resto d'Italia, la Sicilia acquisì un'eccezionale importanza tanto per gli imprenditori inglesi quanto per gli interessi strategici dell'Impero. Nel 1811 c'erano circa 20.000 soldati britannici di stanza a Messina, e gli uomini d'affari inglesi avevano preso in affitto alcune delle più eleganti residenze palermitane... E tuttavia [dopo che nel 1815 la famiglia reale dei Borboni lasciò l'isola], nonostante il tramonto del sogno imperiale riferito alla Sicilia, l'impero insulare britannico nel bacino del Mediterraneo si rafforzò, con le colonie di Gibilterra, di Malta e delle isole ionie, e la regione mantenne la sua importante funzione di corridoio strategico; inoltre in Sicilia sopravvisse una sorta di informale impero britannico...».

La partita dell'Unità d'Italia, dello sbarco dei Mille era truccata o, se si vuole, fu un pietiner sur place, un moto dei piedi sulla stessa mattonella, senza spostamenti. La mattonella del Mediterraneo rimase — come da tempo — fuori dall'Italia. E se ci fu un fuoruscito nell'Ottocento italiano, quello fu il Mediterraneo. Dall'Italia.

Tino Vittorio

Vecchie recensioni, polverosi cassetti

I professori universitari sono uomini normali, forse troppo normali. Sono piccoli e brutti, o alti e deformi, oppure obesi e scheletrici, quasi cachettici. Prima della moda Pilates (una ginnastica che non ti fa sudare... quando uno fa palestra per sudare e farsi una doccia che è la più geniale delle invenzioni umane!) disattenti alla cura del corpo, ma corporalmente esigenti. Mangiano e amano come gli altri, più degli altri. Sono normali, troppo normali. Il loro è un meschino, stretto, piccolo mondo. Small World. An Academic Romance (1984): questo è il titolo originale dell'esilarante romanzo, un po' autobiografico di David Lodge, professore universitario londinese, oggi settantottenne acquariano in pensione. La Bompiani lo tradusse e pubblico in Italia nel 2001, presentandolo come Il professore va al congresso, con una prefazione del docente universitario che bello bello non è — Umberto Eco. E' un romanzo di avventure sessuali di un gruppo di professori universitari di letteratura e critica letteraria d'area anglofona. Professori che vanno in giro per il mondo come gli ariosteschi paladini di Francia, Rinaldo di Montalbano e Orlando dalla magica durlindana, professori o paladini che cercano Angelica o Joy o... Professori per i quali il sesso è strategico, è il pane, e la vita il companatico. Professori onesti comunque, perché onestamente insegnano che tra il testo di un libro (o la copia di un documento d'archivio) e uno spogliarello non corre differenza, mentre loro corrono la cavallina. Angelica Pabst, la donna vagheggiata da più di uno dei nostri professori, ma che non sarà impalmata da alcuno di loro, è una specialista di epica cavalleresca e critica letteraria freudiana. Sapete cosa risponde a un giovane intervenuto a una sua conferenza? La domanda era: Se è vero — come la Pabst insegnava — che l'organo sessuale con cui o per cui si scrivono opere epiche è il fallo, se quello della tragedia è l'apparato testicolare, se quello del romanzo cavalleresco è la vagina, qual è l'organo sessuale della commedia? L'ineffabile, leggiadra, conturbante, intellettualissima Angelica rispose: "L'ano". Si tenga presente che la commedia, divina o umana, dantesca o albertosordesca, benignesca o malignesca è il genere letterario in cui eccellono gli italiani, itali ani!

Rett(o)rale

All'Università di Catania in questi giorni si parla di elezioni rettorali. Poco tempo fa i 4 candidati hanno parlato. Nessuno ha ricordato che c'è un calo di iscrizioni negli atenei dell'oltre il 50%, nessuno ha detto che la politica ha disinvestito dal settore della formazione universitaria. Un candidato, il più giovane, sembrava un puffo di candore salesiano che veniva a parlare di buoni sentimenti. Il prof Cicca Stonchiti, un ergumeno, ha detto che la colpa ce l'ha il Sessantotto che ha abolito il merito (l'energumeno è entrato all'Università dopo che il Sessantotto ha consegnato la Facoltà di Lettere al suo preside che ha rimorchiato Stonchiti alla presidenza durante la quale Cicca non ha fatto nulla contro quelli che hanno strangolato il merito, essendo Cicca la strangolatrice del merito). Ha aggiunto, dimenticando che stava accusando o ringraziando il '68 per essere a quel posto che coerentemente con il suo discorso (?) non meritava, ha aggiunto che l'Università di Catania nelle sue mani darà/darebbe un contributo alla soluzione della crisi internazionale (te l'immagini la ripartenza della domanda dei mercati internazionali attivata dal Rettorato di Piazza Università di una città che oltre Paternò nessuno conosce!). Ma subito s'è ripreso parlando della fondamentale importanza del rapporto tra Ateneo e territorio, alludendo all'arrusti-e-mangia che - assieme 'o sangeli nella quarara (sanguinaccio bovino messo a bollire in voluminosi recipienti) - è stato introdotto al Monastero dei Benedettini, sede di Dipartimento universitario, raccogliendolo dalle strade, intorno, dell'economia dei vicoli "pericolosi" dell'Antico Corso dove è conficcato a testa in giù una parte del sapere umanistico della città. Un altro candidato ci ha fatto una lunga lezione di diritto costituzionale. L'ultimo si è spinto a Sx, anzi è rimasto dov'era, visto che è di Sinistra. Alla fine la parola alla società civile, un imprenditore di impiantistica che ai convenuti, esperti di aoristi, illustrava il suo mestiere. C'erano degli studenti universitari iscritti per imparare altri mestieri, da quello del medico a quello del matematico, del chimico, del farmacista, del grecista. Chi se n'è accorto? Alla fine della prima tornata di interventi, sono scappato a coltivare il mio interesse per le mulinciane!

La stessità della melenzana siciliana o della zuppa di cavolo russa

Orlando Figes ne La danza di Natasha (2002), tradotta e pubblicata da Einaudi nel 2004, costruisce un saggio sull'identità o, meglio, A Cultural history of Russia che non è la Storia della cultura russa (XVIII-XX secolo), come recita in ingannevole traduzione italiana il sottotitolo einaudiano. E a noi che nutriamo insicurezze sull'identità il saggio ci pare ghiottissimo nutrimento quanto i sali di serra per il pomodoro o per la melenzana di Pachino o di Pechino (ci sono melenzane a Pechino?). L'identità o la stessità, la qualità — id est — dell'idem che, non ammettendo nel caso della Russia, l'esistenza di "alcuna cultura essenzialistica, ma solo quella di immagini mitiche, come la versione che Natasha esegue del ballo contadino" al suono della balalajka, si mostra imperiosa tra i piedi della giovane contessina Rostova che mai aveva ascoltato quella musica prima di quella giornata di caccia nei boschi della tenuta dello zio di Guerra e Pace di Tolstoj. Vale riflettere su questo passo iniziale dell' Eumeswil di Ernst Jünger: “Precisare ciò che è vago, definire sempre più nettamente l’indefinito, è questo il compito di ogni evoluzione, di ogni fatica esplicata nel tempo. In tal modo si rivelano, nel corso degli anni, sempre più distinte le fisionomie e i caratteri […]. Ciò che è vago, indefinito, anche nelle scoperte, non è falso. Può essere errato, ma non necessariamente insincero. Un’asserzione — vaga ma non falsa — può venir chiarita frase per frase, finché la faccenda si assesta e si centralizza. Se però l’affermazione si inizia con una menzogna, dovrà essere sostenuta da sempre nuove menzogne, finché l’edificio crolla". Insomma, tutto è vago, indefinito ma non per chi, mal sopportando la vaghezza, il vagare nel mondo, l'errare o lo spostarsi da errore in errore, si consola, si afferra, si inchioda e si irradica nell'essere-sempre-se-stesso, siciliano o italiano o americano o arabo. E sembra l'identità o stessità del cane, edificata sulla salvaguardia del territorio fisico, marcato dal piscio, tanto comodo al pastore di mandrie per dirla con il seguente aforisma di Musil: "L'importanza esagerata che si dà al fatto di trovarsi in un luogo piuttosto che in un altro risale all'età delle orde di nomadi, quando bisognava tener bene a mente dov'erano i terreni a pascolo". Ma torniamo a Figes che ha voluto dimostrare l'esistenza di "un temperamento russo, un insieme di costumi e di credenze innate, qualcosa di viscerale, di emotivo, di istintivo trasmessosi attraverso le generazioni, che è servito a modellare la personalità e a cementare la comunità". Contro quel temperamento, per quel di "viscerale e istintivo" che declassava deplorevolmente la Russia agli occhi del filoccidentale Pietro, Caesar<Zar, fu decisa nel 1703 la costruzione di San Pietroburgo in un sito paludoso, desolato e sterile, deserto come un'inidentità. Essere europei per non essere russi e ballare alla musica "nazionale" russa, inventata da un italiano, Catterino Cavos, il veneziano che arrivò a Pietroburgo nel 1798 dove i russi colti parlavano in francese, si dicevano cose d'amore in francese e proibivano ai "bambini di parlare russo se non di domenica e nelle feste religiose". Poi, contro Napoleone, a partire dal 1812 arrivarono gli slavofili e dal desco russo sparirono i piatti alla francese, l'haute cuisine, per lasciare il posto allo kvas, alla zuppa di cavolo, al pane di segale e soppiantare il francese, lingua dell'inganno, per il russo, lingua della sincerità. Il punto è che neppure la matrioska è russa, la bambola ad incastro, inventata da Sergej Maljutin, che — sottolinea Figes — "non ha alcuna radice nella cultura popolare russa. Fu escogitata per rispondere alla richiesta dei Mamontov di creare una versione russa dell'analoga bambola giapponese". Esicasmo e starec, Rasputin della setta dei "flagellanti" (chlysty corruzione di christy, cristiani per antonomasia) non disdegnanti i piaceri sessuali come gli "illuminatisti" spagnoli di qualche tempo prima (non esiste il peccato se si è in grazia di Dio) e gli skopcy, i "castrati" che al contrario pensavano la salvezza dell'anima nella mortificazione degli strumenti sessuali, tutto questo assieme ai calmucchi della steppa (il più occidentale russo del Novecento fu il calmucco Lenin), ai "biomeccanicisti" alla Aleksej Gastev che preparava negli anni Venti del secolo scorso l'apocalisse del "messia di ferro", tutto questo si allontana sullo sfondo della lettura di questo magnifico saggio alla cui dissolvenza Marina Cvetaeva (1892-1941), una che era "tutta manoscritti", lascia la sua nostalgia con un "saluto alla segale russa, il suo granturco alto più di una donna". E il grande Stravinskij , grande anche a non sopportare Puccini, disse terragnamente, come avrebbe potuto dire una melenzana o un cavolo all'orto: "L'odore della terra russa è diverso, e queste sono cose che non si possono dimenticare. Un uomo ha un solo luogo di nascita, una sola patria, un solo paese... e il suo luogo di nascita è il fattore più importante della sua vita". Come un vanniaturi, un banditore, alla pescheria di Catania: "Masculini nostrali!" E zuppa di cavoli! E tutti fanno ressa!

La melenzana dell'Occidente

Caro Pasquale, ti racconto sul tramonto dell'Occidente delibato con il punto interrogativo (Il tramonto dell'Occidente?) a Siracusa tra l'11 e il 12 di gennaio 2013. Mi si chiamò proditoriamente alla premiazione di un giovane ingegnere derridiano. Avrei voluto commentare con le seguenti parole (non l'ho fatto per non sembrare il guastafeste, il "tipo" esibizionista): Il tramonto dell'Occidente è un'espressione insignificante, come il tramonto del tramonto, o meglio il tramonto del tramonto del sole (occidente ovvero cadente). Oltre ad essere insensata, l'espressione è irreale, non ha alcun rapporto con il fenomeno della realtà post-tolemaica astronomica a cui fa riferimento. Dopo Galilei, all'incirca, si è stabilito che il sole è una stella fissa che non tramonta né sorge, ma che splende e, irradiandosi, si consuma, mentre nasce finisce, come ogni cosa. E la terra è ogni giorno per dodici ore "abendland", terra della sera od occidente, e per le altre dodici ore terra della luce o del giorno. E ancora, l'Africa islamica è Maghrib (occidente) Mashrek (oriente), assumendo come punto zero (simultaneamente occidente e oriente) l'Egitto. Per non parlare della India o della Cina o del Giappone paesi per i quali il sole sorge a Occidente, l'Oriente è occidentale. Insomma, è la terra che si muove senza che il sole sorga o tramonti, si desti o vada a letto. E allora? Il mondo, quello che conosciamo, è una realtà finita, un'aurora tramontante (pare che l'abbia detto Hegel). Il tramonto è tolemaico, l'Occidente una presunzione. Insomma inesistenze! Tu, Pasquale, mi dici che la traduzione del titolo del famoso saggio di Oswald Spengler, Der Untergang des Abendlandes, sarebbe La caduta dell'Occidente, ma sarebbe – aggiungi – un'arida traduzione (che vuoi mettere la suggestione letteraria che induce la parola "tramonto"?). Caro Pasquale, ad essere pignoli e tolemaici la traduzione sarebbe la caduta del cadente (ma uno che sta cadendo non è caduto. Aut aut: o caduto o cadente!). Ma io ritengo che un tramonto non tramonti (una cosa non può essere il suo divenire, non può essere il suo non-essere) un tramonto – tolemaicamente parlando – lascia il suo posto alla sera o alla notte (la sera, l'Abend, non è il tramonto e non tramonta, succede semmai al tramonto). Mi dicono che la traduzione italiana di Untergang sia di Julius Evola. Boh! Untergang – leggo nel dizionario – è l'andata sotto di una cosa, dal suo Zenith passa al suo Nadir, i poli dell'orizzonte. E così ritorniamo all'astronomia per scoprire che siamo in presenza di ficta. E lo stesso termine "Occidente" è un fictum, come il termine "influenza" che rimanda a uno stato della temperatura corporea modificato – secondo la medicina magica – per influenza astrale. Ma non c'è nessun medico che organizza convegni sul raffreddore, lavorando lessicalmente e concettualmente sull'influenza, sul fluire, sulla luna, a meno che non sia un medico... lunatico. Insomma, fictum ma comodo. Per stare comodi, caro Pasquale, fingiamo, ma non fino a pensare di potere giungere alla verità – pur con tutto lo scarto dell'indeterminazione heisenberghiana –attraverso le finzioni (ah, Borges, divino Borges!) L'imperatore Giuseppe d'Absburgo ad un certo punto della sua vita decise di fingersi sordo, per ascoltare tutto quello che alle sue spalle e protetto dalla sordità della Sua Maestà si tramava o gossipava nella corte imperiale di Vienna. Loro parlavano, parlavano, sparlavano... tanto il vecchio era sordo! Ora, dico io, si può fingere di essere sordi, si può fingere di essere scemi, ma non si può fingere di essere intelligenti, si può fingere di essere morti, ma non si può fingere di essere vivi. Quindi caro Pasquale, non esiste l'Occidente, non esiste l'Oriente, se non come ficta. E lo stesso Tolomeo direbbe che l'Occidente (il cristianesimo e la classicità greco-romana) nasce ad Oriente (ebraismo o Mesopotamia), che la Cina ha al suo oriente il Giappone e poi l'America. Insomma, a me pare che Oriente e Occidente sono gli equivalenti dei climi freddi e dei climi caldi di Montesquieu: "Nei climi freddi si ha maggior vigore... Questa maggior forza non può non produrre svariati effetti: per esempio, maggior confidenza in se stessi, cioè maggior coraggio, consapevolezza della propria superiorità, cioè minor desiderio di vendetta, maggior senso di sicurezza, cioè più franchezza, meno sospetti e meno intrighi politici... Si immagini invece un uomo racchiuso in un luogo caldo: egli soffrirà, per ciò stesso, di grande prostrazione. Se in tali circostanze gli si propone un'azione coraggiosa, ne sarà tutt'altro che entusiasta... I popoli dei paesi caldi sono vili come lo sono i vecchi, quelli dei paesi freddi coraggiosi come i giovani...". Sì, Pasquale io so che te la stai ridendo perché hai letto Jared Diamond che, studiando la storia del mondo negli ultimi tredici mila anni come recita il sottotitolo della traduzione italiana di Guns, Germs and Steel, colloca lo sviluppo economico e sociale (l'Occidente, direbbero i tolemaici) tutt'attorno alla parte centrale del globo e il sottosviluppo a Nord e a Sud, nei paesi caldi e nei paesi freddi, nordici! Sì, Pasquale ridi pure, ma... chista è a zzita!

Il teschio di Amleto, la melanzana di Isidoro

Geofilosofia del Mediterraneo è il titolo ossimorico di una raccolta di saggi di prestidigitazione di Caterina Resta (Mesogea 2012): si osserva il Mediterraneo dall'asciutto di una postazione filosofica terragna, eliminando il mare che quì è un pretesto per la battigia, anzi, è battigia. Infatti il Mediterraneo è l'equilibrio fra terra e mare, il punto di incontro fra la rassicurante terra e il disperante mare. Incontro equilibrato di terra e mare è un'isola, come la Sicilia, ma non come la grande isola hegeliana che è l'America, e neppure come l'altra isola, piccola, che è l'Inghilterra, proiettata nello smarrimento "dell'infinito, illimitato spazio omogeneo e vuoto della distesa oceanica, là dove nessuna terra è all'orizzonte, né davanti, né dietro di noi"'. Insomma, non pare vero che un'isola sia l'incontro tra terra e mare, battigia oceanica o mediterranea. E' discutibile la faccenda: una volta è punto di incontro, un'altra è un in-sulso galleggiare, perché isola, in greco nesos, deriva – secondo l'etimologia proposta dalla Resta – dal verbo necho che significherebbe nuotare, galleggiare, sull'acqua, navigare. Questo galleggiante è polifonia di voci se il suo liquido è il Mediterraneo, "mare tra terre... luogo per eccellenza della relazione, del rapporto, dell'incessante interrogare, del continuo incontrarsi del proprio e dell'estraneo", luogo di Amleto (che invece era anglo-danese, isolano perché Giacomo I, al tempo dell'indecisione della Modernità, come insegna Schmitt di Amleto o Ecuba). Se il mare in cui galleggia è l'Oceano, gli Oceani, quell'isola è perfida Albione. E voilà!, è scomparso il mare: tutto l'orizzonte è occupato da una melenzana, la Sicilia che aspetta il suo saggio da titolare ossimoricamente Talattosofia dei Continenti. Scrive infatti il padre di tutti gli etimologisti, Isidoro di Siviglia che "mare est aquarum generalis collectio. Omnis enim congregatio aquarum, sive salsae sint sive dulces, abusive maria nuncupantur, iuxta illud: 'Et congregationes aquarum vocavit maria'. Proprie autem mare appellatum eo quod aquae eius amarae sint" (il mare è stato così chiamato per via del fatto che le sue acque sono amare). Isidoro scriveva tra il 556 e il 571 dell'era cristiana quando il Mare Mediterraneo era Mare Magnum, Gran Mare, che "ex Oceano fluit" e "magnum appellatur quia cetera maria in comparatione eius minora sunt. Iste est et Mediterraneus, quia per mediam terram usque ad orientem perfunditur, Europam et Africam Asiamque disterminans". Il Mediterraneo il più grande di tutti, come il dio islamico Akbar! Isidoro vescovo era, la melenzana è un ortaggio indoeuropeo, importato in Europa attraverso gli Arabi dall'India, che non ha avuto – ché non poteva averlo per la consecutio temporum – il conforto etimologico isidorico, ma: Hortus nominatus quod semper ibi aliquid oriatur. Nam cum alia terra semel in anno aliquid creet, hortus numquam sine fructu est! Se c'è un orto originerà sempre una melenzana. La Teleologia della Storia mediterraneocentrica è una bella melenzana, una mela folle, mela insana, con rispetto parlando!  – Il mare è la costa, come l'uomo è la sua ombra

Ei fu: la melenzana del giudice

Leggiamo Le regole dei giornalisti di Caterina Malavenda, Carlo Melzi d’Eril, Giulio Enea Vigevani (Il Mulino 2012) per trovarvi il diritto all’oblio, identificato il 9 aprile del 1998 dalla Cassazione civile, e che risponde all’aspettativa di ogni persona, “pure in passato coinvolta in fatti di cronaca negativi, a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata…”. E’ un testo – quello da cui è tratta la citazione – per operatori del Diritto e per operatori dell’informazione, non solo giornalisti ma anche storiografi che per statuto deontologico conoscono l’oblio come il medico la malattia, ma non riconoscono il diritto all’oblio come il medico non riconosce alcun diritto alla malattia. Questo saggio, firmato da avvocati e postfato dal giornalista Francesco Merlo, è un testo “scandaloso” per un semplice dato: vi si narra del conflitto tra giudice e giornalista, disputanti la preda dell’informazione, vi si sostiene che la disinformazione ha un alleato – a sua insaputa, credo – nel Diritto, vi si racconta che il giudice è l’unico antagonista del giornalista o del filosofo heideggeriano, di quello che ritiene la verità, l’a l è t h e i a, (αληθεια e non αλητεια, a l e t è i a) entità fondata, strutturalmente, ontologicamente sulla vocazione alla guerra contro l’oblio. Il Diritto, quindi, contro la ricerca dei giornalisti e, ribaltato il ruolo che ha nella filosofia platonica, il giudice si fa filosofo, si fa il filosofo di Platone frequentante l’Iperuranio delle Idee di cui gli uomini cavernicoli, i giornalisti, posseggono di esse la larvalità come l’amante il cadavere dell’amata, subendone o percependone la proiezione di mostruose ombre. E così non si dà evento vero che prima non possa o debba essere visto dal giudice. Nulla accade se non visto dal giudice che autorizza – previa la sua visione – la visione degli altri, quella del giornalista, nel nostro caso. Video ergo Iudico ergo est aut sum aut es. Dalla conoscenza per anamnesi dal mito della caverna del settimo libro de la Repubblica – di Platone (e non di Ezio Mauro) – ogni buon giornalista dovrà passare al Pirandello de La giara dove si apprende che, per non avere noie con il mondo, per non stare storti con il Diritto, bisogna pur fare come don Lolò Zirafa, omaggiato dal suo avvocato, Scimè, di un libriccino rilegato in tela rossa. Non era il messale, ma il Codice civile dove don Lolò “ha imparato a leggerci e a lui non la fa più nessuno, neppure il Padreterno! Contemplato tutto, qua: caso per caso”. Ma ad onor dell’evidenza resta da dire che per i Greci e per Heidegger la verità è la negazione dell’oblio di cui pare – per quanto leggiamo in Malavenda – che il Diritto si faccia difensore contro l’informatore professionista, giornalista o storiografo o sociologo o… fate voi. Ma è anche vero che se da sdrucciola, alètheia, diviene piana e la sua dentale (θ) perde l’aspirazione trasformandosi in τ, la verità si fa errore, aletèia. Tra la verità e l’errore corre una piccola differenza: di accento e di aspirazione. Importa però – altra raccomandazione del Diritto – l’essenzialità argomentativa e scrittoria (della Tecnica Retorica) che può pure correre il rischio di sostanziarsi in reticenza. Insomma, se uno muore per cause accidentali, per violenza altrui o propria, per cause naturali non è necessario saperlo: dinnanzi alla morte tutto è uguale! Essenziale per parteciparne l’informazione è dire: Ei fu. Come ci insegna Alessandro Manzoni che era, ahimè!, un poeta il quale non doveva preoccuparsi di informare che la cosa riguardava Napoleone Bonaparte. La manifestazione di quella preoccupazione un complemento di notizia esorbitante sarebbe stato, atto a sommuovere l’ordine pubblico! E così non successe niente.

Il sarchiapone e la melenzana

In Sicilia un’isola, in-sula ché adagiata in salso, nel brodo salato del mare non v’ha alcuno che, pur insulso o perché insulso, non sappia cosa è la questione meridionale. E’ fuori dall’isola che l’ovvietà fa salti acrobatici. In Finlandia, per dire, cos’è la “questione meridionale”? Verrebbe di rispondere: Il “Sarchiapone” di Carlo Campanini e Walter Chiari, un oggetto argomentativo di cui si postula la consistenza e di cui si può congetturare di tutto. Insomma, meridionalismo come sarchiaponismo, ricettacolo di ogni presunzione, qui comica, lì tragica. E scorrendo le varie e innumerevoli discettazioni sull’argomento non si può non riandare allo sketch di Campanini e Chiari con il primo che introduce il tema, nascosto sotto un panno che copre un cesto vuoto, e con il secondo che deliba professoralmente, con dottrina e mimica esilaranti, tutto il presumibile, fino alla rissa finale. Ero ragazzo nel 1958, anno di nascita del Sarchiapone di Campanini e Chiari e non immaginavo che sulla “questione meridionale” Walter Annichiarico, pugliese di Verona, avrebbe preso il sopravvento su Antonio Gramsci, sardo di Torino. Ovviamente in quel Walter Chiari che farnetica sul “Sarchiapone” ci sono anch’io, per quanto oscura e modestissima sia la mia presenza nella costruzione dell’ideologia meridionalistica. Non è finita: c’è una coda – temo – lunga. Al “Sarchiapone” mancava la coda ed eccola arrivare da uno dei luoghi più insospettabili, dalla Finlandia e da un’Università. Tatu Westling dell’Helsinki Center of Economic Research dell’University of Helsinki nel luglio del 2011 presentò una ricerca su dati disposti tra il 1960 e il 1985 relativa al legame tra lo sviluppo economico e la lunghezza del pene (“the link between economic development and male organ or penile length”). Ebbene, è risultata una correlazione inversa tra la lunghezza penica e lo sviluppo economico: oltre i 16 centimetri (la media virtuosa sarebbe di 13 centimetri), africani o sudamericani c’è il collasso economico, in Asia al contrario economia sviluppata, e l’Europa – il nord Europa – al centro. Tra i 121 paesi presi in esame (come non è detto) al primo posto si pone l’Algeria all’ultimo il Papua preceduto da Nuova Zelanda (13,99), Indonesia (11,67) Australia (13,31) e poi su US (12,9), l’Italia all’80° posto (15,74), la Germania al 76° (14,48), la Finlandia al 74° (13,77). Tra parentesi i centimetri del “male organ”. Insomma, Meridionali europei, africani e sud americani sottosviluppati, Nord europei, Nord americani e asiatici sovrasviluppati. E perché mai un pene extralong “sottosviluppa” economicamente? Perché appaga tutti quegli bell’Antonio che sono (a loro insaputa?) gli abitanti maschi del pianeta che, soddisfatti della “size”, per avere gratificazioni non cercano altro, non si industriano in altro, quanto, invece, i sottodotati che – per piacere alle femmine e compensare una loro anomalia – sono capaci di tutto e di creare la ricchezza delle nazioni, the Wealth of Nations (la ricerca finnica del 2011 è una Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, una ricerca con altri attrezzi di quelli utilizzati da Adam Smith nel 1776). Il portafoglio, quindi, quale surrogato penico! Se è questa la “questione meridionale” non resta che la castrazione come ultimo tentativo d’uscita dalla trappola del sottosviluppo. Castrarsi e decollare, decollarsi per decollare! Ma per evitarmi di sarchiopeneggiare ulteriormente (ho già dato il mio contributo questiomeridionalista alla Walterchiarità nella mia Storia del mare e, molto prima, ne Il lungo attacco al latifondo) su quella specialità tutta ortiva dell’identità meridionale, dell’isolano più meridionale del Meridione europeo con relativo attrezzo extrasized, per non parlare, maledicendo, di quella melenzana, di quello sproposito che è l’identità costruita sulla geofisica come il pomodoro di Pachino o l’uva di Mazzarone o il carciofo di Raddusa, ricordo solo che il pianeta gira attorno al sole, ruota attorno al suo asse e una volta a te, una volta a me, tremila anni a te, tremila anni a me, tocca di essere centro del mondo. Prima di Cristo e poi per mille e cinquecento anni, il Mediterraneo fu centro del mondo. Sono soltanto cinquecento gli anni che il Mediterraneo non lo è più. Un po’ di pazienza, via!

P.S. Il sarchiapone è una variante faunesca della melenzana.

La Costituzione del 1812 in Sicilia: i baroni e una melanzana

Leggevo di Alexandre Dumas la traduzione italiana per l’Einaudi (2004) di Viva Garibaldi! Une odyssée en 1860, resoconto al 1862 di una crociera al seguito dei Mille. Fra le tante cose notevoli che l’immaginifico padre dei Tre moschettieri sottolinea, a sua insaputa, c’è foltissimo il numero di aristocratici che accolgono le “camicie rosse” all’ingresso dei paesi a mano a mano conquistati. A fronte dell’incredulità popolare, dello scarso credito che sulle prime viene accordato ai Mille, della paura per la prevedibile rappresaglia della feroce e vendicativa gendarmeria borbonica, a fronte dei timori che paralizzavano gli auspicati moti di insorgenza delle masse, a fronte, in buona sostanza, della scarsa partecipazione della gente comune che mostrava agli sbarcati da Quarto, fiacchi e debilitati per il mal di mare, la “freddezza di Marsala” con le porte, finestre e balconi chiusi, si fecero subito vedere i baroni, il barone Mistretta di Salemi, il barone Morcarda con i loro campieri e gabelloti armati, con pecore, galline, formaggi, vino. E pian pianino spuntarono gli altri, la fungaia nobiliare, una distesa di nomi e doppi cognomi a cavallo, tutti i protagonisti del saggio di cui parla Cettina Laudani ne L’appello dei Siciliani alla nazione inglese (Bonanno editore 2011), vale a dire, il marchese di San Martino, il principe Corrado di Niscemi, il barone Giovanni Colobria Riso, il principe Francesco Giardinelli, il cavaliere Notarbartolo di San Giovanni, il conte Tasca, il barone Trabonella, il principe di Fitalia, Ruggero Settimo, “il patriarca della libertà siciliana”, il figlio maggiore del duca di Legiaro, il duca Della Verdura (il marchese Della Frutta, il conte del Dessert e il Cavaliere della Melenzana erano altrove indaffarati). Ovviamente (ovviamente per la naturale teatralità degli abitanti di quella Medina dell’Elefante ricostruita teatralmente dopo il terremoto del 1693) a Catania a farsi notare o a monopolizzare l’attenzione dell’equipaggio della Emma, la goletta di Dumas, non è l’aristocrazia. E’ un signore, un tizio che aveva portato l’arte del nuoto al suo stadio di perfezione — racconta Duma: “Stava seduto in acqua più o meno come un turco sul suo divano o un sarto sul suo banco da lavoro. Quel signore non faceva alcun movimento. Si sosteneva naturalmente in acqua, o piuttosto l’acqua lo sosteneva naturalmente”. Galleggiava come una melenzana prima di essere affettata per essere fritta a condire la pasta alla Norma: la melenzana Normante, che è Norma, ché è normale accostarla al genio di Vincenzo Bellini, del Cigno, fattosi piatto di identitari spaghetti.

Torniamo ai baroni della Laudani che, con alle spalle il bagaglio del discepolato con Enzo Sciacca, autore di molti lavori (e di quello più importante a rifrazione sullo studio dell’allieva Laudani e che si intitola Riflessi del Costituzionalismo europeo in Sicilia, del lontano 1966) assume a pretesto di storia politica della Sicilia una doppia versione, una inglese e un’altra francese, dell’Appello dei siciliani alla nazione inglese, un libello di una ventina di pagine, pubblicato nel 1817 a Londra e attribuito dall’autrice a Niccolò Palmeri. Nella traduzione dei due appelli, vergati verosimilmente nell’originale lingua italiana dal Palmeri, la Laudani rimarca la differenza tra “popolo” e “nazione” — che poi è la differenza tra “Parlamento di popolo” e “Parlamento di baronaggio” — ed è una differenza che segna la diversità delle istituzioni nella storia della Francia e dell’Inghilterra. Da questi due termini opposti prende l’abbrivio della ricerca che si fa rassegna della storia istituzionale della Sicilia con i Normanni, protagonisti positivi. Per la Laudani e per chi scrive ma anche per Pasquale Hamel e per un gruppo vivace e qualificato di Normannisti palermitani Ruggero è il primo costruttore dello Stato in Sicilia, di uno Stato che “affermava l’autorità regia sugli altri poteri [per] consentire a rex Rogerius di mettere in atto il suo, programma di espansione verso le coste africane e verso l’impero d’Oriente”. E in un colpo la Laudani ci libera della sicilianista e melenzanata retorica rumorosa dentro cui è stato messo a galleggiare Federico II, presunto fondatore dello Stato in Sicilia per consegnarlo alla sua dimensione reale di protagonista di una medievale strategia imperiale sostenuta dal feudo siciliano, amministrato come un bancomat, in funzione antagonista degli elettori imperiali tedeschi, dei Comuni settentrionali e del Papato. Quindi lo Svevo e quinci il rapporto di identità tra Autonomia siciliana e privilegio baronale. La Laudani sostiene che questa è una terra che non ama pagare le tasse e che è disposta a fare cose da pazzi — più gravose delle tasse stesse, se si dà il caso — pur di non pagarle. D’altra parte la nobiltà francese inscientemente inaugurò con la sua “rivolta nobiliare” una politica antifiscale e di sfiducia verso la Corona, destinata involontariamente a consegnare la Francia al Terzo Stato e ai giacobini. E’ una terra quella dei Siciliani che trasforma in allodio (vale a dire che libera, privatizza, aliena ai privati) tutti i feudi concessi in devoluzione al demanio, è una terra che trasforma i feudatari a tempo, i possessori di beni per concessione feudale, in proprietari senza tempo. E’ una terra che ha avuto la disgrazia della reazionaria occupazione inglese, antifrancese e antinapoleonica. Una terra dove — pare — l’illuminismo arrivò diffusamente ma che per mano dei suoi intellettuali ebbe la ventura di giustificare e di coonestare privilegi baronali ed ecclesiastici e, perfino, di giustificare la pratica della tortura. Sono note le considerazioni di Romeo: “La classe intellettuale era la sola che avrebbe potuto accogliere con favore l’illuminismo. Senonché, essa in Sicilia continuava a reclutarsi in gran parte, come per il passato, fra l’aristocrazia e il clero, che per secoli avevano avuto il monopolio della cultura, un po’ per la loro posizione economica, un po’ perché erano le sole categorie che avessero un proprio mondo ideale da esprimere, e fosse pure il mondo del provincialismo, della feudalità e della Controriforma […]. La religione cattolica permaneva cioè come limite continuo alle indagini della ragione” (Il Risorgimento in Sicilia, Laterza Bari, 1973 pp. 36 e 42).

L’autonomismo è una rivendicazione di autonomia proprio perché è assente una reale autonomia, è il peccato originale di questa isola che da soggetto motore della storia italiana grazie ai Normanni mediterranei divenne (e diviene, rinnovandosi) ricettacolo di istanze rivendicazioniste che seppelliranno in querela lagnosa l’autonomia reale e dinamica dopo i Vespri. Gli Angioini spostarono a Napoli l’anima del Mediterraneo peninsulare, per terragnizzarlo, lasciando che la Sicilia divenisse l’inferno dei baroni, il motore a ritroso dello sviluppo, la marcia indietro del vettore storico.

Una veloce contestualizzazione del dibattito relativo alla Costituzione siciliana del 1812: l’isola vive di un regime a sovranità limitata. E’ occupata dalle truppe inglesi che difendono e sussidiano Maria Carolina e Ferdinando, scappati per la seconda volta da Napoli. In Sicilia comanda Lord Bentinck che sogna e briga di annettere all’Inghilterra, dopo averla costituzionalizzata all’inglese, in senso conservatore rispetto ai dettami dell’ingegneria istituzionale della Francia rivoluzionaria, la Sicilia. All’Inghilterra bastano le isole ionie, l’isola di Malta, già sottratta al Regno di Napoli con la pace di Amiens, basta Gibilterra, basta la presenza armata in Egitto per assicurarsi il dominio incontrastato del Mediterraneo insidiato un po’ da tutti. (È un bastevole alluvionale quell’inglese controllo a spizzichi sapienti del Mediterraneo!). In quegli anni l’Inghilterra che cinquant’anni prima aveva ottenuto il predominio sugli Oceani da cui aveva espulso con il Trattato di Pace di Parigi seguito alla Guerra dei Sette Anni (1756-1763) l’antagonista francese, era in guerra con le ex colonie britanniche dell’Atlantico, costituitesi in Stati Uniti. E la Francia napoleonica stava organizzando la rivincita con una guerra a tutto campo per l’Europa. Nel continente peninsulare si mettono in piedi regni e repubbliche napoleonidi. La guerra francoamericana-inglese si andava facendo sempre più pesante e costosa. Il re e la regina napoletani ai quali non basta il sussidio inglese, chiedono soldi ai baroni, beneficiari della “legge eversiva” della feudalità sia pure in ritardo di oltre un lustro rispetto a quella napoletana ma che trasformava — come detto — in allodio i beni, concessi in usufrutto sotto forma di feudi e che in qualsiasi momento o all’estinzione del rappresentante del casato infeudato dovevano essere devoluti o integrati al demanio regio. I Reali vogliono soldi per apprestare — dicono — eserciti e protezioni difensive, impongono la tassa dell’1% su ogni transazione commerciale, alimentando rivolte e malesseri sociali anche nei sudditi della potenza alleata. I baroni non ne vogliono sentire e tirano in ballo la trovata linguistica secondo cui le tasse sugli averi dei baroni sono doni, “donazioni”, al Re ma che per questi doni (con il dono, secondo Mauss, si imprigiona l’anima del donato su cui si insignorisce) ci vuole un Parlamento contro il quale il re non può fare nulla, non deve fare nulla, essendoci chi lo rappresenta. I baroni non vogliono pagare le tasse e vogliono l’Indipendenza da Napoli. I baroni non vogliono pagare tasse e vogliono il re privato delle prerogative assolute, sciolte, absolutae, cioè, da altri poteri. Si discute della Costituzione con baroni che, come nell’iconografia dei bari (micro baroni come le mele per il melone) del tressette, sotto il tavolo prendono accordi con gli Inglesi, con la regina che trama contro gli inglesi a favore dei francesi, con deputati di Sinistra filo-francesi provenienti dalla Sicilia a-feudale della parte orientale. Una grande confusione in cui è chiaro il ruolo protagonista dell’antica ruling class siciliana, la classe della grande proprietà terriera latifondistica isolana che rivendica un regno autonomo. Ecco l’Autonomia!

Perché l’Autonomia? Non per restaurare la progettualità imperiale e mediterranea dei Normanni, ma per tenere chiusa la saccoccia e frignare. E anche nelle argomentazioni costituzionaliste dei migliori non si va al di là del sapere giuridico, non si individua al di là della formula giuridica la cosa, vale a dire, il senso storico di quell’espressione geografica che è la Sicilia. Allora, come in seguito, l’Autonomia e l’autonomismo sono stati strumenti preservativi o letargici rispetto al fuoco del mondo. Dietro gli avvocati e i giuristi… il nulla o la presunzione che la politica surroghi l’economia, i valori politici quelli economici. E ovviamente la colpa non è del Diritto e non è della politica. Nessuno ha colpa, ma nessuno che non abbia interessi è interessante. Allora come ora. Dove erano gli imprenditori siciliani che avrebbero dovuto dettare o suggerire la scrittura della Costituzione? I baroni erano sazi di avere senza colpo ferire allodializzato i loro beni. Un margine di discussione s’era aperto sul fidecommesso e sul maggiorasco. Ma l’essenziale era stato ottenuto. Dove sono oggi gli imprenditori normanni, imperiali, lanciati alla conquista di un ruolo interno al motore del grande flusso economico che si forma in Cina, in India? Melanconia… melanzania! Baroni… bari!

L'Imbecille (al-badingian)


La cornice è la storia europea (nord-americana e giapponese, a dire il vero), dentro cui trova collocazione temporale il carteggio epistolare tra George Sand e Gustave Flaubert, intelligentemente ed evocativamente intitolato da Vito Sorbello Fossili di un mondo a venire, della raffinata casa editrice Nino Aragno, un amoroso scambio intellettuale tra due personaggi, assai distanti caratterialmente ed intellettualmente, tra Aurore Dupin, baronessa di Dudevant, vissuta tra il 1804 e il 1876, e Gustave Flaubert, vissuto tra il 1821 e il 1880. Un carteggio di 13/14 anni, iniziato nel 1863 quando la baronessa aveva 59 anni e l’autore di Emma Bovary 42, e compiuto alla morte di Aurore. Un carteggio ricchissimo di implicazioni relative alla poetica, all’estetica, alla sensibilità o insensibilità politica dell’uno e dell’altra.

Il 1870 rappresenta l’anno epocale verso cui si dirige e da cui prende costituzione adulta l’umore intellettuale di questo carteggio; il 1870 è l’anno che segnerà l’inizio della prussianizzazione dell’Europa e che spingerà i Francesi ad elaborare un ideale che 40 anni dopo si realizzerà compiutamente con la prima guerra mondiale, con la rivincita antitedesca e la riappropriazione dell’Alsazia e della Lorena, cedute a Bismarck dopo Sedan: “L’assassinio in grande vuole essere il solo fine dei nostri sforzi, l’ideale della Francia”.

Ma prima di esaminare l’ Epochenjahr (nel settembre di quell’anno Flaubert scriverà: “Qualunque cosa accadrà, un altro mondo sta per avere inizio. Ed io mi sento assai vecchio per piegarmi a nuovi costumi”), è necessità piacevole soffermarsi su una notizia del 14 giugno del 1867 che la Sand ci offre a p. 127: “A proposito di zingari, sai che esistono zingari di mare? Ne ho visto nelle adiacenze di Tameris, presso delle sperdute scogliere, alcuni barconi ben riparati, con donne, bambini, tutta una tribù costiera, smilza, cotta dal sole, che pesca per mangiare, senza fare grande commercio, parlante una lingua a sé, che la gente del luogo non comprende, che non abita da nessuna parte se non in questi barconi, che vengono tirati sulla sabbia, allorché la tempesta li tormenta nelle loro anse rocciose. Costoro si sposano tra di loro, inoffensivi e tetri, timidi o selvaggi, non rispondono quando gli si parla. Non so più come li chiamano [...]”. È un riferimento centrale e che supporta la scelta del titolo. Fossile o zingaro o rinoceronte prossimo alla morte sono sinonimi in Flaubert, autodichiaratosi rappresentante dell’aristocrazia legittima (il termine “fossile” si riscontra tre volte nel carteggio per significare “sopravvissuto”. Lo vediamo per la prima volta nella missiva del sabato notte-domenica mattina del 15-16 dicembre del 1866. Poi viene ripreso un sabato notte, il 21 maggio 1870, qualche mese prima dello scoppio della guerra franco-prussiana che è del luglio e che si conclude subito a settembre con la sconfitta e la resa di Napoleone III a Sedan. Quella notte scrive a Sand: “Mi sembra di diventare un fossile, un essere senza rapporto alcuno con la creazione circostante”. Due anni dopo, aprile 1872, scriverà alla sua amica: “Siamo fossili che sussistono, dispersi in un mondo nuovo”. Flaubert si sente un fossile, uno zingaro anche, un beduino errante per i deserti della modernità.

La Sand ha una visione femminile, godereccia del mondo, socialisteggiante, di un cattolicesimo paganeggiante. Non si percepisce come un fossile e, se deve fare una concessione al suo tesoro, al suo zingaro lo fa alla sua maniera, senza afflizione, senza autocommiserazione, con gioia panteistica, con goduria sensuale. Lei ama la vita, lui la odia e la vuole eludere con l’inchiostro, con la letteratura. Il punto è che in questo epistolario il protagonista è Flaubert, un uomo che assiste alla nascita della modernità e della democrazia, cioè dell’Idiozia o della reificazione marxiana. E idioti erano un po’ tutti: lo era Napoleone III, per 4 lustri imperatore dei francesi, “un cretino” (un cretino che fece l'Italia, l'Italia l'ha fatta un cretino?) a sentire Adolphe Thiers (1797-1877), orleanista, che fu più volte capo del governo. Ministro degli interni, ministro degli esteri e poi sostenitore del suo "cretino", Luigi Bonaparte, da questi temporaneamente proscritto e, poi, capo dell’esecutivo della Repubblica francese del febbraio del 1871 ed anche Presidente della Repubblica. Uno che non doveva essere cretino, che aveva pubblicato tra il 1823-1827 dieci volumi della “Storia della Rivoluzione francese” e altri 20 volumi tra il 1845 e il 1862 della “Storia del Consolato e dell’Impero”. Capita anche ai "cretini" pubblicare libri ma Thiers non doveva essere cretino, ma lo era per Flaubert che conia per lui il termine stronziforme, variante di un “trionfante imbecille, crostoso assai abietto”, p. 154 . Ad aggravare la sua posizione, a rendere più pesante il quadro diagnostico del povero Thiers c’è la sua attività giornalistica, fondatore, Thiers, del National. E il giornalismo ha una grande colpa: dispensa dal pensare (“la stampa è una scuola di abbrutimento, poiché dispensa dal pensare”; “il sogno della democrazia consiste nell’elevare il proletario a livello dell’idiozia del borghese. Il sogno è in parte realizzato! Egli legge gli stessi giornali e ha le stesse passioni”). Il monumento all’imbecillità che è un po’ un autoritratto è Bouvard e Pécuchet (“i miei due deliziosi imbecilli”, 31 maggio 1873, p. 528).

Secondo Impero di Napoleone III e Terza Repubblica con il battesimo della Comune di Parigi (26 marzo 1871) sono — per usare un'immagine pasoliniana — gli eventi che determinano la “scomparsa delle lucciole”, dove si enuclea una sorta di degenerazione antropologica che un altro francese Alexis de Tocqueville alcuni decenni prima aveva cantato come una sorta di resurrezione dell’uomo nella Democrazia in America. Cosa stava avvenendo, cosa avveniva nella seconda metà dell’Ottocento dell’emisfero occidentale? Per Flaubert è chiaro: “Il nostro si avvia a diventare un grande paese piatto ed industriale come il Belgio. La scomparsa di Parigi (come centro dell’amministrazione) renderà la Francia incolore ed opprimente. Senza più cuore, più centro e, credo, più anima…”. Sembra una contrapposizione polemica ed irriverente ad un testo che aveva conosciuto a quell’epoca una quindicina di edizioni, sembra una contestazione di quanto aveva scritto nel capitolo terzo del Libro primo di Démocratie en Amérique (1835) intitolato “La libertà di stampa negli Stati Uniti”, Tocqueville: “Gli Stati Uniti non hanno una capitale: la cultura e il potere sono disseminati dappertutto in questo vasto paese; i raggi dell’intelligenza umana, invece di partire da un centro comune, vi si incrociano in tutti i sensi; gli Americani non hanno collocato da nessuna parte la direzione generale del pensiero. Esattamente come quella degli affari”. E mentre per Tocqueville la democrazia era la nuova religione della politica, per Flaubert è il contrario: “Odio la democrazia” (p. 396).

Questo è il periodo dell’industrializzazione di tutti i paesi europei, degli Stati uniti e del Giappone della restaurazione del Tenno Meji. Quelli del carteggio di cui stiamo parlando sono gli anni del Secondo Impero, anni di preparazione della grande depressione del venticinquennio 1870-1895. La industrializzazione si internazionalizza, immettendo sul mercato una incredibile quantità di prodotti che porteranno alla caduta dei prezzi, alla crisi internazionale della domanda, alla costruzione degli imperi dei paesi industrializzati, alla creazione di mercati riservati, all’adozione di pratiche neo-mercantilistiche, di protezione doganale, alla istituzione di cartelli, di trust, di monopoli e monopsoni. Per Flaubert questa straordinaria trasformazione che investì la sostanza antropologica del pianeta si con-densò nella morte di Théophile Gautier “crepato della Comune [...] Il 4 settembre ha inaugurato un nuovo ordine di cose, per cui persone come lui non avevano niente da fare al mondo. Non bisogna chiedere mele agli aranci. Gli artigiani di lusso sono inutili in un mondo in cui domina la plebe… Egli ha avuto due odii. L’odio per i droghieri in giovinezza. E l’odio per la canaglia nella maturità”. Giudizio condiviso da Flaubert che dirà “[dei comunardi] m’importa assai poco”.

Amava la Storia, non sapeva di starci dentro. Odiava il suo tempo, la sua Storia. Detestava la politica, perché arte dei mediocri che avevano impestato, mediocrizzato la Storia presente. Aveva scelto come antidoto la Cartaginese Salambò. Contro se stesso, monsieur Bovary.

domenica 28 aprile 2013

Uomini e/o melenzane

Scriveva Nietzsche in Al di là del bene e del male che “parlare molto di sé può anche essere un modo per nascondersi” e l’autobiografia non si sottrae alla tendenza a sottrarre, a nascondere la biografia… con evidenza, come l’invisibile, perché evidente, lettera rubata di Edgar Allan Poe. (Recentemente è uscito un bel saggio sull’argomento di Ivan Tassi, Storie dell’Io. Aspetti e teorie dell’autobiografia, Laterza 2007). Un autobiografia sciasciana quella di Milazzo, Un italiano di Sicilia (Bonanno editore, 2009), ma più radicale Milazzo che non Leonardo Sciascia. Più radicale per due motivi: il primo, perché porta alle sue estreme conseguenze la domanda retorica di Sciascia (come si può essere siciliani?) alla risposta che neppure in Italia per un siciliano è semplice vivere in Italia; l’altro, ben più radicale, conclude e risolve l’insopportabilità della sicilianità e poi sicilitudine facendo pensare alla de-sicilianizzazione quale soluzione del problema. Sciascia come Marx nella questione ebraica che propose di risolvere, l’uomo di Treviri, con l’auto-eliminazione dell’ebraismo, dell’identità ebraica, dell’identità fondata sulla religione o superstizione dei Padri.

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Incontravo in questi giorni in via Penninello a Catania un “trans” il quale aggressivamente sosteneva di essere orgoglioso della sua sessualità, del suo genere. Mi pareva che facesse necessità virtù del gay-pride. Ma può degli uomini una caratteristica naturale o casuale essere fonte di orgoglio? Si può essere orgogliosi del proprio genere, del proprio naso, della propria chioma o calvizie, della propria vescica mingitoria? Può essere orgogliosa di sé una melanzana o un pomodoro di Pachino solo perché hanno avuto i natali, il nutrimento nel territorio, nella terra di Pachino? La sicilianità in tal senso è melanzanità: una convinzione che traggo pari pari e consequenzialmente (spinto alle ultime conseguenze) da Leonardo Sciascia, un siciliano (vale a dire un abitante di Sicilia) che ha trattato Racalmuto o la Sicilia come l’ermo colle leopardiano che chiude la visione vicina per aprirne una infinita. Sciascia appartiene all’infinito della letteratura mondiale; la Sicilia è un ermo colle, una montagna di pretesto. Sciascia è spagnolo, è francese, è italiano, è arabo, è americano (per la giallistica, come Dashiel Hammett). E Milazzo non ha nulla di siciliano. La riprova per tutti coloro che non ne hanno familiarità o non ne condividono l’amicizia è L’Indipendente, un suo giornale “inglese” cioè imperiale, planetario fin dalla grafica (prima di cadere nella trappola leghista di Vittorio Feltri).

Quella di Milazzo è un’autobiografia drammatica, scritta e soppesata in diciassette anni, tra il 1992 e il 2009. Da leggere con intelligenza e con il sorriso da ignoto marinaio come è da vivere la vita di ognuno che abbia avuto la sorte o la malasorte di abitare l’Italia o la Sicilia (abitare in un luogo non significa che si è, si appartiene a quel luogo, abitare non è essere: in una casa abitano uomini e topi, ma gli uomini non dovrebbero essere topi).

Avevo da poco chiuso le pagine di un romanzo di mare, Corsair, tradotto La rotta dei corsari e scritto da un indiano, Tim Severin. Il protagonista di Severin è un irlandese del XVII secolo, Hector Lynch che da un villaggio costiero dell’Irlanda papista finisce per una scorreria dei Barbareschi in un “bagno” di Algeri dove si trova ammassata tanta umanità (e disumanità) europea: greci, russi, spagnoli, francesi, inglesi. I peggiori captivi della Barberia sono due: un italiano sodomizzatore e un siciliano, ladro impenitente, dalle orecchie e dal naso mozzati. E non bisogna essere o fare l’indiano per tenere distinti l’italiano dal siciliano, per non riconoscere l’italiano in un siciliano. I siciliani non si sentono italiani. Insomma, Garibaldi si è fermato ad Eboli, delegando a Bronte Nino Bixio. L’aveva capito, al battesimo della stagione indipendentista di Mario Turri/Antonio Canepa, il Maresciallo d’Italia, Roatta, quando, non sapendo che pesci pigliare sotto l’attacco delle armate alleate, proclamò un invito ai siciliani all’unione con gli italiani e con i tedeschi contro gli anglo-americani dell’operazione Husky (“Strettamente fiduciosi e fraternamente uniti, voi fieri siciliani e noi militari italiani e germanici della FF.AA. Sicilia, dimostreremo al nemico che di qui non si passa”). Avevo da poco chiuso le pagine de Il vulcano spento di Piero Isgrò che in gemellaggio inconsapevole scrive dell’Italia/Sicilia, vale a dire, di Catania che è “un delitto perché è una città che dorme come su un vulcano spento, senza l’intimo ribollire delle colate laviche nelle sue vene, priva d’attive necessità, votata più al sonno, e al sogno, che al risveglio, schiava della furbizia e dell’imbroglio e che non riesce a riconoscere il suo male invischiata com’è nel calcolo e nel distinguo”.

L’ho letta questa autobiografia, il più difficile dei generi storico-letterari, come se l’autore fosse Beppe Fenoglio o Italo Calvino, come un romanzo da collocare, specialmente per i primi capitoli, tra Una questione privata e Il sentiero dei nidi di ragno. L’ho letta con diffidenza una prima volta, con spirito festoso una seconda volta.

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C’è da diffidare dei Siciliani che scrivono. Pensano di essere speciali, di avere uno stile speciale anche quando o proprio perché non hanno stile. Il guaio è che Nino Milazzo è speciale, lo è per me, per i suoi amici. E per i suoi nemici. Ogni capitolo di questa sua lunga confessione merita una discussione puntuale, puntigliosa. Un’autobiografia dominata da due protagonisti, uno vero e, per questo, vitale, un altro falso e, per questo, mortale. Il primo protagonista è la vecchiaia di un uomo ben vissuto, l’altro è la Sicilia. Un uomo ben vissuto non è un uomo giusto (sono giusti i Santi. Ma sono giusti i Santi?). Vive bene un uomo ricco di esperienze, di curiosità, di errori e di erranze. Si può dire di Nino Milazzo: ha molto errato. Ed erra chi si muove senza punto di riferimento o con un falso punto di riferimento, come quello del dolore sordo ad un fianco che non ti permette di avere pace, girandoti ora da una parte, ora da un’altra.

La Sicilia/Italia di Nino Milazzo è la Grenoble di Stendhal, la Parigi di Baudelaire, del Cigno, dell’Andromaca baudaileriani, la Francia di Flaubert dopo il 1870 popolata da intellettuali stronziformi (il termine coniato da Gustave Flaubert si trova nel carteggio epistolare con George Sand, tradotto mirabilmente e pubblicato con la casa editrice Aragno da Vito Sorbello con il titolo Fossili di un mondo a venire).

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La Sicilia è l’ibi di un alibi, è una sorta di Itaca, di luogo del ritorno e della ripartenza, inconsistente come un espediente affabulatorio quanto è consistente vitale, invece, il viaggio, l’odissea, il vuoto da colmare tra l’andata e il ritorno.

Nella periegesi mercuriale di Ulisse, Itaca è inconsistente, come lo è un pre-testo che rimanda al testo, è inconsistente come una rappresentazione fredda, un deserto dei tartari. Insomma la Sicilia è il giornale La Sicilia o i giornali che la rappresentano o i giornalisti o i viaggiatori o le vecchiette che mentre fanno la calza se la coltivavano come un luogo comune. Solo se leggiamo dal rovescio l’autobiografia (lettura consigliata dallo stesso Nino Milazzo a pag. 207), scopriremo che la desolazione della pagine siciliane è la distesa indeterminata del mondo da cui è assente la Sicilia, il mondo deserto della Sicilia: è quell’andare su e giù per l’Italia secondo gli umori paterni, è il Veneto, marginale come la Sicilia ma senza l’oppressione dei paesaggi e del dialetto verghiani, è il fascismo giovanile, è la Germania, è Milano 1 e Milano 2, è l’America, è la Milano 3 della condirezione de La Sicilia, è la Milano 4 della direzione di Telecolor, è la Milano-mondo.

L’alibi di Nino Milazzo, il suo bovarismo, il suo volere essere altrove è il suo ivi; la sua seconda o, meglio, la ricerca della seconda patria è la vera patria. Anche perché la Sicilia è un capriccio geofisico, un’espressione geografica. E non se ne può fare — dice giustamente Francesco Merlo nella Prefazione — una categoria dello Spirito. La Sicilia è determinante alimento per l’identità degli ortaggi (il pomodoro ciliegino di Pachino, il carciofo di Raddusa), per la frutta (il pistacchio di Bronte o il ficodindia di San Cono), per il caciocavallo ragusano o la provola di Casal Floresta o il salame di S. Angelo di Brolo. Un uomo può essere un salame? La questione meridionale, pertanto, non riguarda gli italiani di Sicilia, essendo quistione che vuole coinvolgere l’antropologia partendo dall’assenza del mercato o dalla perdita di quote di mercato dello zolfo, degli agrumi. Non vendevano più il vino e ne fecero una questione meridionale, e tutti, anche gli astemi, divennero vignaioli e medici e scrittori, proprietari terrieri e filosofi, tutti a lutto per il vino che non partiva più dal porto di Riposto. Questo ammanco di cassa è la questione meridionale. Un ricatto ideologico su cui, mutatis mutandis, aveva scritto pagine importantissime Stendhal in un suo pamphlet, pubblicato in Italia/Sicilia (1988) da Sellerio su suggerimento sciasciano: Di un nuovo complotto contro gli industriali. Pensate: era il 1825! Che ha da spartire — si domandava polemicamente e sarcasticamente Henri Beyle — un uomo con il prezzo di una pecora, che c’entra un uomo con gli affari di un contadino, di un industriale, dell’industriale del ficodindia?

Noi di Sicilia/abitanti di questo pianeta siamo deplacierten, “fuori posto” come cantava nel 1924 Kurt Tucholsky, un ebreo berlinese socialdemocratico e poi comunista della Repubblica di Weimar, a 45 anni suicida nel 1935: “Ci han fatto nascere, credo, fuori posto. /Ora per colpa dell’epoca e del luogo/ tutti sperduti e tremanti ce ne stiamo, /maledicendo la nostra solitudine/ (in tedesco è Einsamkeit, in italiano è sicilitudine). Nino Milazzo, di forte carattere, è un fuori-posto come ogni intelligenza viva di questo pianeta (“ce ne ricorderemo di questo pianeta”). Ha litigato con mezzo mondo, con Vittorio Feltri e con Mario Ciancio, dove l’uno non è settentrionale e l’altro meridionale, ma sono tutt’e due ermo colle, a prospettiva bassa. Nino ha una visione religiosa dell’informazione. Lo racconta con chiarezza signorile, sacerdotale. Litigherebbe, litigherà con il Padreterno che osasse, che oserà mettersi di traverso al suo, ad un suo giornale. E non sarà assediato dai tartari della solitudine o similitudine.