
Leonardo Sciascia, compendio della letteratura siciliana del Novecento — tra Luigi Pirandello e Stefano D'Arrigo (nato ad Ali Marina messinese nel 1919), straordinario ed eccentrico creatore linguistico (Horcynus Orca 1975) — lo scrittore di Racalmuto, dicevamo, nei narratori siciliani vissuti tra il XVIII e il secolo suo colse un tratto comune: la condizione dell'esclusione e, quindi, dell'esilio. Vale l'opportunità della citazione: "Da Palmieri a Quasimodo ogni siciliano che fugge dalla Sicilia sarà nella condizione dell'esule, di colui cioè che non può tornare. E in alcuni questa condizione si fa dolente memoria, nostalgia, mito; in altri volontà di dimenticare, insofferenza, rancore. Tutti comunque hanno sentito drammaticamente e vissuto con dolorosa ansietà il fatto di essere siciliani, di fare parte di una realtà, di un modo di essere, di una condizione umana diversa ed irreversibile; e più o meno consapevolmente, più o meno liberamente, non si sono sottratti alla condanna di rappresentare quella realtà, quel modo di essere, quella condizione umana".
I Siciliani sono, pertanto, conversatori per scelta e per obbligo, per virtù necessitata (Elio Vittorini, siracusano 1908-1966, Conversazione in Sicilia 1941), grafomani o retori, straordinari artigiani della parola scritta od orale, come quel sofista, Gorgia da Lentini, fondata nel 729 a. C. dai Calcidesi di Naxos.
Di Lentini, centro agrumicolo, è un suo grande scrittore Manlio Sgalambro (1924), di intelligenza scintillante e di eleganza scrittoria, di parole ordinate e lustrate in rigorosi sillogismi, aforismi taglienti come staffilate o apparizioni brucianti, comete solcanti il ciclo: "il destino di un'isola è nel suo inabissamento". E di Lentini era Sebastiano Addamo (1925-2000), saggista (Vittorini e la narrativa siciliana contemporanea, 1962), poeta e narratore (II giudizio della sera, 1974; Un uomo fidato, 1978).
Scrivere, mettere insieme e curare parole a surrogato della realtà delle cose, abbaglianti o luttuose, sovraesposte o sottoesposte.
Fuori fuoco per eccesso o per difetto, su di un piano sghembo alla Storia, dentro il calligrafismo, il virtuosismo della bella scrittura di Gesualdo Bufalino, ragusano di Comiso (1920-1996), con Diceria dell'untore, 1981: Argo il cieco, 1985; Le menzogne della notte, 1988.
Fuori dal mare, un'isola (che è insula, in salo, un accidente della sua substantia, l'acqua salsa) è un luogo mentale, una costruzione di carta, un delirio o una prigione, un latifondo, una zolfara, un'epopea di minatori come in Baltico (1988) dell'agrigentino Matteo Collura (nato nel 1945 ed esordiente, come romanziere, nel 1979 con Associazione indigenti) o un delirio onirico di riscatto ne La rosa di zolfo (1957) del catanese Antonio Amante (1900-1983) di Viagrande, terra vignata dell'Etna, fuggito a Parigi dopo una provocatoria messa in scena teatrale di Sant'Agata, impersonata da una donnina.
Gli è per questo che la letteratura isolana è un pianto rurale di lacrime sulfurue o irriverenza anarchica, alambicco di lingua o arabesco di dialetto, poesia contro: contadini e zolfatai, entrambi protagonisti dell'Almanacco per il popolo siciliano (1924) e dei Mimi Siciliani (1928) dell'ennese di Valguarnera Caropepe, Francesco Lanza (1897-1933).
Fuori dalla Storia, perché "perfetti" come ne II Gattopardo (1958) di Giuseppe Tornasi, palermitano, principe di Lampedusa (1896-1957) e, quindi, contro la Storia, impostura dei vincitori sui vinti, che va da tempo denunciando nei suoi romanzi anche il messinese Vincenzo Consolo (nato a S. Agata di Militello nel 1933), con la sua scrittura di generi e stili contaminati.
Paesaggi trasognati o visti attraverso l'occhio della luna, il sogno ed ancora il sogno sui miti antichi, sui simboli esoterici che travalicano la Storia inospitale alla marginalità estetica di forte sentire dei gemelli, Fanciulli divini con libro d'arcobaleno, Antonio e Gaetano Brancato (nati a Floridia siracusana nel 1937), pittori favolosi di Orfeo, di Mercurio e di Pegaso, di Centauri, di Labirinti, di Astolfo che cerca il senso di Orlando, di Terra che gira intorno a me ed io intorno ad essa, di antri incantati in riva al ciclo dopo il Diluvio.
Isola, templi, vulcani, cieli e mare mitizzati da visione di capriccio di Enzo Indaco (nato a Paterno catanese nel 1940); pittura colta, esoterica, densa di simboli massonici, di figure archetipiche, di Streghe e di Medee, di corpi di raffìnatissima sensualità, (s)coperti in drappeggi di caldi, torridi colori che trasmutano in civette, serpenti, minotauri, pavoni, animali sacri d'Egitto e della Grecia antichi di Alberto Abate (nato a Catania nel 1946, figlio d'arte del padre Carmelo); giocosità lucente di pittura scultura ed incisione che nasconde la grande tradizione internazionale dei Picasso, Modigliani o Klee del maestro Sebastiano Milluzzo (nato a Catania nel 1915); cromatismo puro, informale, gioco spensierato e allegro, barocco come le forme architettoniche della Sicilia orientale risorta dopo il terremoto del 1693, carnevalesco come una pioggia di coriandoli, di sapienza tecnica volta ad animare l'informe sintetico del materiale di plastica, di Nino Mustica (nato ad Adrano catanese nel 1946).
Tra quei paesaggi, disegnati con tratti "veristi" da Roberto Rimini, palermitano (1888-1971), non mancano le forme urbane, le città (Elio Vittorini, Le città del mondo, 1952-1959). Di Enna, ombelico siculo, scrisse Nino Savarese (1882-1945) ne I fatti di Petra (1937). Laureatosi con una tesi criticamente ingenerosa su Federico De Roberto (1861-1927) autore de I Viceré (1894), il più grande romanzo della letteratura contemporanea italiana, di Catania Vitaliano Brancati che pure ebbe i natali a Pachino di Siracusa nel 1907 (morì nel 1954) è stato il cantore, rinominandola Natàca quale antipode anagrammatico di Catana. La città è assunta quale metafora del mal di vivere, cifra del mondo rimpicciolitosi a nero tugurio su cui s'è venuto ad abbassare il cielo con la corte di nuvole nere che offuscano l'orizzonte, chiusosi sulle viuzze del gallismo, sulle alcove dell'amore mercenario che alimentano la prepotenza dell'impotenza sessuale ed esistenziale (Don Giovanni in Sicilia, 1941 e II bell'Antonio, 1949). Anni perduti (1935-1939 ) è il romanzo di una generazione quella fascista (rappresentata mirabilmente nel Rubè del critico, commediografo, saggista Giuseppe Antonio Borgese, 1882-1952) che vide nella costruzione della Torre Alessi la metafora di una postazione capace di dare una visione alta, "di mettere il piede sopra il cielo". La Torre Alessi era, in realtà, una giara aerea, un contenitore idrico con terrazzo-belvedere utilizzata per l'irrigazione degli agrumeti — a nord del centro urbano — di proprietà di un imprenditore, tale Alessi. Non ne è rimasta traccia se non nella toponomastica della via omonima di un quartiere ingranditosi con l'ampliamento edilizio del secondo dopoguerra. Nell'immaginario comune dei catanesi è Valtrove del deserto dei tartari di buzzatiana memoria, materiale costruttivo di strategie di evasione dalla Sicilia.
Gli anni si perdono, ancora oggi, in visioni turrite alla Brancati. O in racconti di cavalleria sulle sponde dei carretti in un retablo di scene di paladini e saraceni davanti ai quali si fissavano gli occhi del ragazzo Renato Guttuso (nato a Bagheria palermitano nel 1912 e morto a Roma nel 1987) che, grazie al maestro futurista Pippo Rizzo (Corleone 1897-1964), farà esplodere nella maturità il suo segno personale di "realismo sociale ed esistenziale".
Al movimento di Filippo Tommaso Marinetti, "caffeina d'Europa" succosissimo fu l'apporto tributato dai Siciliani in pittura e in letteratura, "veloci colline di lava ottimista e creatrice". Per la Sicilia orientale è sufficiente citare la catanese Pickwick, "la rivista più piccola del mondo" o la messinese La Balza Futurista; per l'area palermitana Arte futurista italiana con l'aereopittura di Vittorio Corona (1901-1966), di Giulio D'Anna (1908-1978), di Adele Gloria (1910-1984 catanese, poetessa pure), di Giovanni Varvaro (1888-1973).
Ai futuristi che restano da esuli interni fa da controcanto negli anni Trenta un esodo cospicuo di artisti che giungeranno alla fama e alla maestrìa come Giuseppe Migneco di Messina (1908) o Emilie Greco (1913) o Elio Romano trapanese (1908), paesaggista di atmosfere rurali o, ancora, Nunzio Sciavarello, catanese di Bronte (1918), incisore, innanzitutto, allievo di Mino Maccari o Domenico Lazzaro (1905-1968) che precocemente brucerà l'esperienza futurista e si inoltrerà nell'attività di scultore (la sua opera più nota, ma non più interessante esteticamente, è la statua della Giustizia (1953) del Tribunale di Catania: una giustizia senza bilancia, persa nei corridoi del Palazzo).
Ritorneranno dopo il secondo dopoguerra a guidare la mano dei nuovi artisti che a Catania in buona parte guarderanno e guardavano alla scuola di Pippo Giuffrida (1912-1977).
Rientreranno in Sicilia, come Piero Guccione (1935) per "ricavare dalla luce e dai cieli di questa isola i colori da mettere nelle tele" o per immergersi — è stato detto — nel mare di Scicli o di Vendicari nel gesto senza tempo del tuffatore etrusco dell'affresco di Paestum e salvare la memoria del mare con "piccole schiume in cima alle onde, come fosse la pagina di un concerto o una preghiera da recitare" — per dirla con Corrado Sofìa, altro eminente uomo di lettere siciliano da poco scomparso.
In ogni paesino, in ogni città, eminente o laterale (ed in Sicilia è laterale il centro), in ogni quartiere o rione urbano si nascondono mutriosi e talentasi ingegni che scrivono memorie locali, poesie, trattati di filosofia, pamphlet apocalittici o che dipingono con colori impastati di lava o scolpiscono la pietra dell'Etna di racconti omerici.
Uno per tutti vale citare Angelo Scandurra, sindaco di Valverde, un piccolo centro alla falde del vulcano. È un poeta, ermetico e solare, con alle spalle del suo studio istituzionale una gigantografìa, a tutta parete, di Totò in Uccellacci ed uccellini di Pier Paolo Pasolini.
Non il Crocefisso, né la foto del Presidente della Repubblica, ma uno sberleffo antistituzionale a risarcimento della Storia dei vinti, a compensazione della sconfitta di tutti gli intellettuali dei Meridioni del mondo.
Un rancore teatralizzato come nelle feste religiose di Sicilia, come nelle espressioni d'arte isolana.
Tino Vittorio
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