lunedì 29 aprile 2013
La stessità della melenzana siciliana o della zuppa di cavolo russa
Orlando Figes ne La danza di Natasha (2002), tradotta e pubblicata da Einaudi nel 2004, costruisce un saggio sull'identità o, meglio, A Cultural history of Russia che non è la Storia della cultura russa (XVIII-XX secolo), come recita in ingannevole traduzione italiana il sottotitolo einaudiano. E a noi che nutriamo insicurezze sull'identità il saggio ci pare ghiottissimo nutrimento quanto i sali di serra per il pomodoro o per la melenzana di Pachino o di Pechino (ci sono melenzane a Pechino?). L'identità o la stessità, la qualità — id est — dell'idem che, non ammettendo nel caso della Russia, l'esistenza di "alcuna cultura essenzialistica, ma solo quella di immagini mitiche, come la versione che Natasha esegue del ballo contadino" al suono della balalajka, si mostra imperiosa tra i piedi della giovane contessina Rostova che mai aveva ascoltato quella musica prima di quella giornata di caccia nei boschi della tenuta dello zio di Guerra e Pace di Tolstoj. Vale riflettere su questo passo iniziale dell' Eumeswil di Ernst Jünger: “Precisare ciò che è vago, definire sempre più nettamente l’indefinito, è questo il compito di ogni evoluzione, di ogni fatica esplicata nel tempo. In tal modo si rivelano, nel corso degli anni, sempre più distinte le fisionomie e i caratteri […]. Ciò che è vago, indefinito, anche nelle scoperte, non è falso. Può essere errato, ma non necessariamente insincero. Un’asserzione — vaga ma non falsa — può venir chiarita frase per frase, finché la faccenda si assesta e si centralizza. Se però l’affermazione si inizia con una menzogna, dovrà essere sostenuta da sempre nuove menzogne, finché l’edificio crolla". Insomma, tutto è vago, indefinito ma non per chi, mal sopportando la vaghezza, il vagare nel mondo, l'errare o lo spostarsi da errore in errore, si consola, si afferra, si inchioda e si irradica nell'essere-sempre-se-stesso, siciliano o italiano o americano o arabo. E sembra l'identità o stessità del cane, edificata sulla salvaguardia del territorio fisico, marcato dal piscio, tanto comodo al pastore di mandrie per dirla con il seguente aforisma di Musil: "L'importanza esagerata che si dà al fatto di trovarsi in un luogo piuttosto che in un altro risale all'età delle orde di nomadi, quando bisognava tener bene a mente dov'erano i terreni a pascolo". Ma torniamo a Figes che ha voluto dimostrare l'esistenza di "un temperamento russo, un insieme di costumi e di credenze innate, qualcosa di viscerale, di emotivo, di istintivo trasmessosi attraverso le generazioni, che è servito a modellare la personalità e a cementare la comunità". Contro quel temperamento, per quel di "viscerale e istintivo" che declassava deplorevolmente la Russia agli occhi del filoccidentale Pietro, Caesar<Zar, fu decisa nel 1703 la costruzione di San Pietroburgo in un sito paludoso, desolato e sterile, deserto come un'inidentità. Essere europei per non essere russi e ballare alla musica "nazionale" russa, inventata da un italiano, Catterino Cavos, il veneziano che arrivò a Pietroburgo nel 1798 dove i russi colti parlavano in francese, si dicevano cose d'amore in francese e proibivano ai "bambini di parlare russo se non di domenica e nelle feste religiose". Poi, contro Napoleone, a partire dal 1812 arrivarono gli slavofili e dal desco russo sparirono i piatti alla francese, l'haute cuisine, per lasciare il posto allo kvas, alla zuppa di cavolo, al pane di segale e soppiantare il francese, lingua dell'inganno, per il russo, lingua della sincerità. Il punto è che neppure la matrioska è russa, la bambola ad incastro, inventata da Sergej Maljutin, che — sottolinea Figes — "non ha alcuna radice nella cultura popolare russa. Fu escogitata per rispondere alla richiesta dei Mamontov di creare una versione russa dell'analoga bambola giapponese". Esicasmo e starec, Rasputin della setta dei "flagellanti" (chlysty corruzione di christy, cristiani per antonomasia) non disdegnanti i piaceri sessuali come gli "illuminatisti" spagnoli di qualche tempo prima (non esiste il peccato se si è in grazia di Dio) e gli skopcy, i "castrati" che al contrario pensavano la salvezza dell'anima nella mortificazione degli strumenti sessuali, tutto questo assieme ai calmucchi della steppa (il più occidentale russo del Novecento fu il calmucco Lenin), ai "biomeccanicisti" alla Aleksej Gastev che preparava negli anni Venti del secolo scorso l'apocalisse del "messia di ferro", tutto questo si allontana sullo sfondo della lettura di questo magnifico saggio alla cui dissolvenza Marina Cvetaeva (1892-1941), una che era "tutta manoscritti", lascia la sua nostalgia con un "saluto alla segale russa, il suo granturco alto più di una donna". E il grande Stravinskij , grande anche a non sopportare Puccini, disse terragnamente, come avrebbe potuto dire una melenzana o un cavolo all'orto: "L'odore della terra russa è diverso, e queste sono cose che non si possono dimenticare. Un uomo ha un solo luogo di nascita, una sola patria, un solo paese... e il suo luogo di nascita è il fattore più importante della sua vita". Come un vanniaturi, un banditore, alla pescheria di Catania: "Masculini nostrali!" E zuppa di cavoli! E tutti fanno ressa!
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