martedì 30 aprile 2013

Leggendo Giuseppe Borri?


Realizzato da Francesco Hayez nel 1846
Leggendo Giuseppe Borri, devoto cognato di Manzoni, scopriamo una Sicilia alla moda. Edificante. Solo perché teneva alla sua identità, al suo onore, all'onore delle sue donne difeso dalla spada, dal coltello, dal forcone. A scanso di equivoci ci teniamo saldi alla rappresentazione di Steven Runciman, The Sicilian Vespers, che è una History of the Mediterranean World in the later thirteenth century (1958, la traduzione italiana di De Donato è del 1971).

Lei, Isabella bionda-Lucia mora, lui Renzo-Guglielmo, l'altro Don Rodrigo-San Remigio, Gran Giustiziere, angioino. Lei e lui dovevano sposarsi nel 1282 nella Sicilia franco-sicula di Carlo d'Angiò contro il modello seicentesco, ispano-lombardo, del cognato, don Lisander, sposo in seconde nozze (1837) di Teresa Borri vedova Stampa. Isabella, consunta dal dolore per la morte del padre e per quella presunta del promesso sposo, Guglielmo, esalerà l'anima qualche giorno prima di Guglielmo che si spegnerà, armi in pugno, a Messina, assediata dalle truppe di Carlo d'Angiò. Tutto questo si legge ne I promessi sposi siciliani e Giovanni da Procida di Giuseppe Borri, un romanzo storico, scritto sul calco de I promessi sposi manzoniani e pubblicato una cinquantina o sessantina di anni dopo la sua composizione.

Il romanzo del Borri, scritto presumibilmente intorno agli anni Quaranta dell'Ottocento - ma forse intorno agli esiti "infami" della seconda guerra d'Indipendenza (1859), conclusa improvvisamente con l'Armistizio di Villafranca, determinando le dimissioni di Cavour dalla Presidenza del Parlamento piemontese - è un romanzo misogallo, antifrancese, tanto che i curatori dell'edizione postuma, i coniugi Cornelio-Massa, scrivevano nella prefazione del 1906 all'edizione della Casa Tipo-lito edit. Sinibuldiana di Pistoia: «L'autore, scrivendo parecchio tempo avanti l'epoca del risorgimento italiano, non poteva ricordare altro che le antiche note storiche, ridondanti dalle oppressioni venute alla Sicilia dalla dominazione francese. Certo - egli se avesse scritto il suo lavoro dopo il 1859 [seconda guerra d'Indipendenza], dopo che il sangue francese si era mescolato col sangue italiano sui campi di battaglia, per liberare la patria nostra dal giogo straniero - avrebbe temperato alcune frasi di risentimento perdonabile verso chi non poteva allora prevedere gli eventi e nutrire per la Francia sentimenti di gratitudine».

In vero, esclusa qualche frangia di cattolici, tutti i protagonisti - cavurriani, mazziniani, garibaldini, pisacaniani del Risorgimento italiano - nutrirono un'avversione - più o meno esplicita ma radicale - nei confronti di Napoleone III e della sua politica sud-europea che tendeva a fare divenire il Mediterraneo a «French lake» - come scriveva e diceva Mazzini, nascondendosi che il Mediterraneo da tempo era «an English Sea», ai suoi amici inglesi che voleva interventisti per non correre con «the non-intervention principle» la perdita del controllo, del monopolio dei traffici economici e militari di quell'area, degli «high British interests in the Mediterranean» (vedi la recente pubblicazione delle «Lettere agli amici di Scozia e d'Inghilterra» di Giuseppe Mazzini, «Nel segno della democrazia», Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011).

Il punto è un altro: perché un milanese si mise a scrivere un romanzo geograficamente, politicamente, storicamente siciliano? Manzoni, il cognato-guru, aveva nutrito nella gioventù giacobinizzante umori "leghisti" - oggi diremmo - affidati all'Etna e in Renzo e Lucia aveva mandato in punizione fra' Cristoforo in un punto fuori dal mondo, a Palermo. Invero dall'inizio dell'Ottocento, i Vespri (il Vespro, meglio, ché Vespri fu conio francese come raccontava nel 1973 Leonardo Sciascia in «Il mito del Vespro», ora in «Opere 1971-1983», Bompiani) si posero come un tema culturale alla moda dalla librettistica musicale alla letteratura. In pittura Francesco Hayez, il pittore, tra gli altri, di Alessandro Manzoni, di Teresa Borri Stampa, rappresentò varie volte nei suoi quadri il Vespro siciliano, prima e dopo l'opera di Michele Amari, edita a Palermo con il titolo rassicurante (ma non tanto da non causargli l'esilio in Francia) «Un periodo delle istorie siciliane del secolo XIII», tormentato in diverse edizioni. Insomma, mentre il Mediterraneo era uno stagno inglese, tenuto saldamente in mano tra Gibilterra, Malta e altri luoghi "informali" di protettorato, il Risorgimento temeva i Francesi: temeva che il Mediterraneo divenisse un lago francese. Boh! La Storia si fa romanzo. Guazzabuglio. Ineluttabilmente. E non distingue tra quel che si pensa e quel che si vede, tra la vista dell'anima e la vista degli occhi!

Tino Vittorio

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