
(o Villa) Bellini a Catania (che è una città immaginaria, un’utopia) è stato oggetto recente di una guerra fra nostalgici, filologi e futuristi, tutti ambientalisti, oche e cigni, paperi e papere. Nostalgia del Paradiso s’intende, per lo stretto rapporto che si è costruito dalle nostre parti tra “giardino” e “Paradiso”, tra Eden e hortus (che apparterrebbe al campo semantico di orior, e quindi del supino ortus secondo le incredibili e mirabolanti etimologie del vescovo di Siviglia, l’hispalensis Isidoro, vissuto tra il 560 e il 636). E Gesù è hortulanus, “giardiniere”, a partire da San Giuseppe di Arimatea per il quale Cristo risorge, apparendo nelle vesti di giardiniere a Maria Maddalena: “Gesù è giardiniere nella misura in cui il giardino è simbolo del cosmo ordinato e ossequiente alla volontà dell’Uomo-Dio; è giardiniere in quanto nuovo Adamo che, sollevando l’umanità dal peso del peccato originale, l’ha sottratta dall’esilio del deserto nel quale il lavoro è conseguenza del peccato e comporta come suo salario la morte; ed è giardiniere in quanto signore del giardino del creato, in quanto, appunto, Creatore”(pagina 29 di Nostalgia del Paradiso. Il giardino medievale di Franco Cardini e Massimo Miglio, Laterza Bari 2002). Alle strette: bisognava spendere dei soldi e ci fu un accorrere caloroso di melenzane che diede vita a una melenzanomachia: tanto starnazzare sul nulla perché nulla è avvenuto in quell’ hortus preso di mira da laici giardinieri. Nulla a parte l’intensificazione (effetto infestazione) del piantume rafforzato anche da spettrali alberelli post-atomici in ferro e abitato da fenicotteri, paperi e papere pietrificati dopo l’esplosione di una bomba all’idrogeno per un’architettura ballardiana e falso eisenmanniana. Qua e là sedie vuote, in disordine, lasciate in fretta e furia da chi scappò con i tavoli sollevati sulla testa a ripararsi dai lavilli in caduta dall’Etna.
Il Laberinto, quale nucleo originatore del Giardino, fu all’inizio lo sfizio autoascetico del massone Principe di Biscari che una straordinaria Villa per le agapi della Loggia di cui era Gran Maestro se l’era costruita, la Villa Scabrosa, fuori città sulle lave rapprese (e scabrose) del 1669 dentro il mare (su cui veleggiare e fare marameo, sottraendosi, alle improvvise incursioni della polizia borbonica antimassonica).
Il Laberinto della vita tortuosa e fallace di questa vita da cui uscire in ascesi, in redenzione morale, in purificazione spirituale.
Il Laberinto venduto nel 1854 al Comune dai proprietari massoni in crisi di liquidità al Comune, amministrato in quegli anni da un massone: una transazione commerciale tra figli della vedova. Fiori e ortaggi e, tra questi, melenzane.
Il Laberinto diventa Giardino per destino se è vero come è vero quel che scrive Paolo Santarcangeli a pagina 192 ne Il libro dei labirinti. Storia di un mito e di un simbolo (Sperlin & Kupfer Editori, Milano 2000) a cui attingiamo citazioni su citazioni: “La costruzione di un giardino nasconde (o esibisce) sempre una nostalgia del Paradiso […]. Il labirinto stava a simboleggiare gli intrichi, i dubbi, le difficoltà e gli inganni di cui è disseminato il cammino dell’uomo che cerca la beatitudine celeste […]”. E la funzione ascetico-resurrezionale Berthelot la ribadiva nella Grande Enciclopédie dove il labirinto, emblema della corporazione medievale di architetti e muratori, costruzione dedalea “quale figura alchemica, si trova in testa di certi manoscritti e fa parte delle tradizioni magiche attribuite a Salomone; il labirinto è considerato come un segno di vita, con le sue diversioni e o suoi ritorni, con gli inevitabili ambagi da cui l’uomo tenta continuamente di districarsi, prima di raggiungere il fine comune dell’esistenza”. Occhio alla filologia storica, dunque, che tutti, popolo compreso, vogliono rispettata. E a noi piace la filologia popolare che ha il sapore del sapere storico di chi non ha storia, la storiografia dell’a-Storia.
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Riflettendo sull’originaria vocazione “ortofrutticola” del terreno dei Padri Benedettini, proprietari dell’Orto di S. Salvatore e della collina vignata da cui si ricavava un buon vino, centellinato dai frequentatori durante lunghe partite di bocce ingaggiate sulla pista all’uopo attrezzata dell’Orto, non si può non considerare con riserva la valenza “ideologica” della filologia. Quell’Orto, dopo l’aggiudicazione comunale del 1883 diventa il Piazzale Centrale di Villa Bellini che accoglierà cavalli, carrozze, cicisbei fuori tempo, filologicamente incuranti dei beoni e delle etiliche, ancorché storiche, abitudini.
L’Orto aveva una “estensione di ettari 5,45 are e 70 centiare di terreno, nella strada delle Fosse [il prosieguo, ma trazzera impraticabile, della via S. Euplio] contiguo alla Villa Bellini con n. 564 alberi diversi, due case e pagliara, confinante con vie pubbliche e con la Villa Bellini […]. Sulla sommità della seconda collina sorgeva un caseggiato rurale […] indicato con il nome di Masseria”.
Citiamo da una nota autografa di S. Frazzetta, conservata tra le carte, in via di classificazione, dell’Archivio Comunale di Catania: “Tutto il terreno sul quale sorse il piazzale era coltivato ad ortaggio e veniva indicato col nome di Orto di S. Salvatore, e nella collina esisteva un vigneto. Orto e vigneto appartenevano al soppresso monastero dei Padri Benedettini, ed al Comune fu possibile procedere allo acquisto dell’Orto di S. Salvatore all’asta pubblica per le conseguenze dell’applicazione della legge relativa alla soppressione delle congregazioni religiose. L’Orto di S. Salvatore era anche esso meta dei pellegrinaggi pomeridiani dei cittadini di Catania. Si può dire che essi, arrivati dinanzi all’ingresso del Labirinto, si dividessero a seconda delle loro speciali inclinazioni. I contemplativi entravano nel Labirinto e vi restavano a godersi il tempo destinato al loro svago. I meno contemplativi si recavano nell’Orto di S. Salvatore dove pare che esistesse la possibilità di dedicarsi all’appassionante gioco delle bocce”.
Ancora. Ad un occhiuto rigore filologico non sfugge il manierismo provinciale che domina l’estetica e l’urbanistica orografica del Giardino, costipato di modelli e di mode.
In strettissimi spazi si è voluto impiantare il giardino all’inglese (nonostante l’involontario effetto-ironia dei giardinieri o del giardiniere francesi) che per quei viali e vialetti produce una estenuante esperienza fisica. Le irregolarità naturali dei percorsi sono godibili visivamente, ma non realmente: l’impianto viario è un concentrato di dettagli di scuola su cui è data la folla delle varietà botaniche. Un giardino per giardinieri, pretesto per l’accanimento di tecniche dell’ars topiaria. La pulsione romantica o antindustrialista, tesa alla realizzazione di spazi compensativi dell’antropizzazione e della pietrificazione degli insediamenti urbani ottocenteschi, resta esclusa o implode.
La ripresa progettuale o la riprogettazione del Giardino avrebbe dovuto misurarsi con la filologia del manufatto storico, ma anche con la filosofia dei manifattori, passati e presenti, e con la demografia della Catania ottocentesca che al censimento generale del dicembre 1881 ospitava 100.417 abitanti. Per usare un’immagine: manca l’aria (e l’acqua).
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ll Popolo di Sicilia, 4 agosto 1937: “L’anno X [1932] resta certamente caratterizzato da due opere principali, veramente importanti: la costruzione dell’ingresso monumentale del Giardino Bellini e i lavori del viale XX Settembre. La prima, che ha esercitato un influsso notevolissimo sulla viabilità cittadina, creando una parallela sussidiaria di via Etnea, è veramente opera degna che ha pregi notevolissimi, sia per l’armonica disposizione delle parti, sia per la creazione della superba piazza pensile che consente una delle più belle e suggestive visioni dell’Etna […]”.
La sistemazione dell’ingresso del Giardino Bellini, proposta da un ordine podestarile nel giugno del 1929, si collocò all’interno di una bufera di polemiche, ospitate per tutto l’anno nel giornale cittadino, Il Corriere di Sicilia, avente per oggetto il destino di via delle Fosse (Via S. Euplio) e come bersaglio polemico il razionalismo “bolscevico” per la penna acida e virulenta di Raffaele Leone, Segretario etneo del Sindacato fascista degli architetti, fautore di uno stile (improbabile) nativista, che scorazzò, in compagnia di Francesco Fichera, ne “il Popolo di Sicilia” per tutto il 1931.
Davanti, la bufera del dibattito sull’architettura della città contemporanea; alle spalle, la burrasca della città contemporanea, “futurista”, tempesta di razionalisti modernisti, piacentiniani monumentalisti ed autarchici localisti, rumori di traffico veicolare e di passanti vocianti, pioggia di luce meridiana, di abbagliante e frastornante forza, come può risplendere in un cielo mediterraneo che il siciliano Giuseppe Samonà ben sentiva, quotidianità indaffarata in quell’incrocio di via Etnea e di via Umberto, nuovo centro borghese di espansione delle residenze dei fortunati imprenditori di fine Ottocento. Atmosfere appena increspate, lievemente mosse, delicatamente fisse, da pomeriggio assorto di una città che non era certo quella dei “grandi alberghi, delle stazioni ferroviarie, delle strade immense, dei porti colossali, dei mercati coperti, delle gallerie luminose, dei rettifili, degli sventramenti salutari”. Una città metafisica che doveva riconoscersi nell’ingresso monumentale del Giardino di Giuseppe Samonà.
Una città — ribadiamo — che non aveva conosciuto gli azzardi futuristi, se non nella versione letteraria che ospiterà (1934) della aeropittrice catanese Adele Gloria (1910-1984) il “desiderio assillante/ di sporcare/ quel cielo/ troppo azzurro/ col gettarvi fango a due mani. Impiastricciarlo/ insozzarlo/ far scoppiare/ mille cannoni potenti/ per assassinare/ questo silenzio incolore […]. Tutto/ sotto la sferza del sole/ vive/ ma pare che muoia/ abbacinato […]”.
Tra edifici nuovi in progetto e strade da ricavare da “fosse” (Via S.Euplio), tra cavalcavie e piazze in corso di attuazione, la città a ridosso del Giardino era un cantiere “tumultuante, agile, dinamico in ogni sua parte”, futurista nel frastuono, passatista nella forma, nello stile decò degli anni Venti per il quale valeva, verosimilmente, lo scherno del Sant’Elia rivolto all’architettura italiana della prima decade del Novecento: “una gioconda insalata di colonnine ogivali, di foglione seicentesche, di archi acuti gotici, di pilastri egiziani, di volute rococò, di putti quattrocenteschi, di cariatidi rigonfie […]”.
Come in un Ritorno di Tobia del “metafisico” Carrà, Samonà lascia lo spazio del tempo per uno “senza tempo”. Sospeso, come in quel dibattito tra vecchio e nuovo, internazionale e nazionale, tra “tradizionalismo ed internazionalismo architettonico” (è il titolo di un suo scritto di indecisione di quegli anni) sta irrisolto e forse spaesato Giuseppe Samonà, laureato in ingegneria a Palermo nel 1922 e dal 1927 assistente alla cattedra di Enrico Calandra a Messina.
Lo spazio del tempo era guarnito da architetture filtrate dalla distanza, ritardate da Scilla e Cariddi, da “chiese senza arte, case senza stile, aristocratici e matrone da teatro dei piccoli”.
La guarnizione socio-architettonica (quella di Antonio Bruno e della sua Biancavilla) visivamente e umoralmente si estendeva pure a Catania, ancorché arricchita negli anni Venti da architetture decò, sparse un po’ dovunque nella città post-vaccariniana e poste a tenaglia sul Giardino Bellini con gli edifici dell’architetto Francesco Fichera (1881-1950), progettista dell’Istituto Tecnico Commerciale “De Felice” (1926-1929) di piazza Roma e del palazzo delle Poste e Telegrafi di via Etnea (1919-1929).
Un’area sovreccitata da teatri ed arene vuote (come l’Arena Pacini, dove sorgerà Largo Paisiello, l’Arena Verdi, l’Arena Italia, l’Arena Gangi) e dal progettato Palazzo delle Poste, calamita di uomini e veicoli. Liberty, barocchetto alla Giovannoni e monumentalismo alla Piacentini. Doveva essere questo impasto lo stile nativista, autarchico-siciliano quando Samonà mette mano al suo ingresso “monumentale” (così lo magnificava la guida del Touring Club Italiano nella “prima edizione di 420.000 esemplari” della Sicilia del 1933, supplemento della rivista mensile, N. 1, Le Vie d’Italia).
Una sorpresa, un’estraneità voluta, uno scafandro dove rifugiarsi per vedere, forse, ma sicuramente per non essere coinvolto: fra tanto schiamazzo urbano, un pollice di estraniante
silenzio, fra tante pietre urbane, un indice di metafisica spaziale, fra tante piazze di arene uno spiazzo dechirichiano.
In principio, quindi, doveva esserci la sorpresa. E la fine, perfezione di ogni origine, è sorprendente. Nel mezzo la sorpresa e/o il mistero si nascondono discretamente, lungi dall’enfatizzazione, dall’esibizione didascalica. Un giuoco di scuola, la bambolina russa.
Dopo quell’ingresso il Giardino (Laberinto all’origine, non dimentichiamolo) diventerà un labirinto, un percorso di sorprese; per la città un mistero.
L’ingresso è architettura di sentire dechirichiano, un sentiero-espediente che conduce ad uno spiazzo “metafisico”, di smarrimento come può essere un labirinto, il “Laberinto”, di matrice massonica del principe Ignazio Paternò Biscari.
Il mistero e la sorpresa, cifra emotiva dell’estetica del Giardino, preparati, introdotti dal suo contrario, dal perturbante, ossimorico impianto dellingresso del Samonà; una spazialità autoreferenziale, come nelle piazze spettrali dei quadri di De Chirico, nell’estetica metafisica: “nella costruzione delle città, nella forma architetturale delle case, delle piazze, dei giardini e dei paesaggi, dei porti, delle stazioni ferroviarie, ecc. stanno le prime fondamenta d’una grande estetica metafisica […]. I portici, le passeggiate ombreggiate, le terrazze erette come platee innanzi i grandi spettacoli della natura (Omero, Eschilo), le tragedie della serenità” (Giorgio de Chirico, 1919).
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L’asfalto, uno e trino: uno, l’asfalto, al posto di tre, i cavalli, le carrozze, i pedoni. Corriere di Sicilia 23 settembre 1958: “E’ intendimento […] dell’Ufficio tecnico comunale di fare asfaltare il grande piazzale centrale dove verrà pure creato un vasto parcheggio per le auto […]. Nel quadro delle innovazioni che verranno operate tra poco al Giardino Bellini sarebbe anche il caso di far entrare quella riguardante la soppressione del viale che, correndo tutt’attorno all’esterno del piazzale centrale, è riservato ancora oggi all’ippica […]. Eliminando il viale dei cavalli ed abbattendo il siepone che lo divide da quello riservato alle auto si otterrebbe l’interessante scopo di allargare notevolmente questo ultimo sul cui lato destro si potrebbe consentire il parcheggio delle auto […]”.
E gli architetti, e gli urbanisti dove erano, se non affacciati dai finestrini delle loro auto parcheggiate a salutare e congratularsi con i colleghi, “le persone più quotate nell’ambiente dell’Ufficio tecnico [che] vorrebbero con una modesta spesa, sistemare a bitume tutta l’estensione di terreno e così dare […] più spazio ai piccoli (1 settembre 1959, Corriere di Sicilia)?
C’è stata una sorta di necessaria ineluttabilità nella successione della macchina al cavallo; la modernità ha fatto sparire il cavallo dai campi di lavoro, dalle strade, dalle campagne di guerra; la macchineria (il macchinismo) subentrava alla cavalleria. Un cavallo, una macchina, un carro armato, un autoveicolo. Resiste la melanzana!
In questa logica la sociologia (la zoologia, rectius) dell’urbanistica a Catania reclamava l’asfalto. Si era ben lontani dal 1886, anno (equino) in cui il sindaco don Antonino Alonzo affidava alle cure di uno “specialista in lavori di giardinaggio”, Giuseppe Dumanale, il Labirinto, comprato nel 1855 dal Patrizio don Mario Scammacca e venduto dalla Nobil Donna Marianna Paternò Castello in Moncada per la somma di onze dodici mila.
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Nel disegno dei Futuristi Venezia potrebbe (avrebbe potuto) scansare un destino di città di camerieri dell’industria turistica per i visitatori del Ponte di Rialto o per quello dei Sospiri, se fosse (fosse stata) interrata. Togliere l’acqua a Venezia. In questa città immaginaria, Catania, dovrebbe avvenire il contrario con il suo allagamento totale o parziale. Il prato (e l’acqua), meglio: il parterre d’eau: “Il prato è l’evoluzione del campo di bocce (bowling alley) dell’epoca Tudor, un gioco non da interno, ma che si svolgeva all’aperto, su un’area erbosa circondata di alberi”.
È un passo, quello appena citato, tratto da L’uomo e la natura di Keith Thomas, tradotto e pubblicato da Einaudi nel 1994 (1983). Lo studioso inglese mostra quanto siano profondamente english il giardino contemporaneo, l’amore per i fiori e l’entusiasmo per le piante tributati — lungo tutto il Settecento — come un pianto post-prandiale del coccodrillo che ha appena mangiato i figli.
La reintegrazione del rapporto tra uomo e natura o, meglio, la rivalutazione della natura dopo secoli di antropizzazione, diffusa ad oltranza, sul territorio inglese, si impose quando, ai secoli di bonifica ambientale degli acquitrini e delle paludi, del disboscamento finalizzato all’uso del legname per la Navy, si sommava vorticosamente la fenomenologia dell’industrializzazione.
Quella natura di foreste e boschi e paludi che rischiava la scomparsa, quella natura, english, doveva essere risarcita e ristorata.
Il “giardino verde”, il prato, è un’invenzione di fine Settecento che si imporrà come moda, innestandosi al giardino di riflessione e di diletto, agli orti di Arcadia delle ville rinascimentali italiane. Una moda che, con la forza di un luogo comune e in associazione con il giardino alla francese, andrà a fiottarsi anche a Catania, anche in Sicilia dove i giardini godevano di una lunga tradizione arabo-islamica, ruotante attorno al principio organizzatore dell’acqua.
Acqua (dei giardini islamici) e non verde (dei giardini dell’Europa non islamica), giochi d’acqua (maghrebini, portoghesi, spagnoli) e non fughe di manti erbosi o teorie di alberi (inglesi, francesi, toscani o romani italo-centrosettentrionali).
Acqua e gioco delle bocce attraverso cui si farà strada la plausibilità del prato (al di fuori della tipologia diffusa con il giardino botanico). E noi sappiamo che il terreno che diverrà lo spiazzo centrale del Giardino Bellini, destinato alla sosta delle carrozze e al passeggio, allo struscio di damine e cicisbei attardati, inizialmente era un orto sui cui sentieri incolti erano stati ritagliati dei campi di bocce.
Cade in taglio la lunga considerazione di Simon Schama che ha dedicato nel suo saggio di ecostoriografia, Paesaggio e memoria, Mondadori Milano 1997 (1995), alla storia del prato quale risultato finale, nel secolo XIX, della lunga battaglia tra uomo civilizzato e uomo selvatico, tra arcadia selvaggia ed arcadia bucolica. “Un acro alla volta, inesorabilmente, il prato verde, nella forma specifica del tappeto erboso cosiddetto all’inglese, divenne il paesaggio della civiltà: prato nei campi di bocce dei parchi metropolitani che (a detta delle autorità) avevano la capacità di rendere pacifiche le classi lavoratrici, che avrebbero altrimenti sperperato il loro denaro nell’alcool e nella lussuria. Prato nei campi di cricket dell’Impero britannico, dai Caraibi a Singapore, dove le divisioni di classe e di razza tra gentiluomini e giocatori, indigeni e padroni, in teoria venivano spazzate via da palle e mazze. Il prato verde impiantò la sua strategia di conquista dei giardini metropolitani a metà dell’Ottocento, secondo i dettami di Frank Jesup Scott, il “categorico” autore di The Art of Beautifying Suburban Home Grounds (L’arte di abbellire i giardini urbani, 1870). Un prato come si deve, dichiara Scott, non può non giungere a filo della strada, perché nulla di “barbaro e incivile … impedisca a noi e i nostri vicini di godere delle libere grazie della Natura”.
A quella data confluiscono riflessioni e realizzazioni “giardinesche”, sparse per il mondo, che avevano assunto nel 1833 una decisa formalizzazione istituzione nel primo rapporto al Parlamento inglese del Selected Committee on Public Walks con cui si determinava il fabbisogno di aree verdi e si sottolineava, auspicando programmi di intervento pubblico, la necessità del risanamento, della moralizzazione e della ricreazione per quelle classi lavoratrici che si vedevano rinchiuse negli spazi delle fabbriche e nelle abitazioni degradate delle città industrializzate.
Specchi d’acqua e prati dove passeggiare, giocare per disarmare “le tentazioni della taverna e della birreria”, per arginare l’immoralità e il vizio delle osterie che, a Catania, si “coltivavano”, attecchivano ingenuamente sulla collinetta destinata ad ospitare uno dei due chiostri. Nei concorsi banditi, ad esempio a Manchester, per la realizzazione negli anni Quaranta dell’Ottocento di Peel Park, Queen’s Park e Philips Park, si chiedeva ai progettisti di prevedere “per ognuno dei parchi, una palestra, una o più fontane d’acqua pura, numerosi sedili e spazio per il tiro con l’arco, per il gioco dei birilli, per il campo di bocce, etc.”. Il prato si doveva pure prestare a fungere da tovaglia naturale, da tappeto erboso su cui disporre le vivande per spuntini o pranzi all’aria aperta. (Le citazioni sono tratte dal saggio di Alessandra Ponte, contenuto nella raccolta curata da Monique Mosser e Georges Teyssot, L’architettura dei giardini d’Occidente, Electa, Milano 1990).
Erboso, quindi, il “giardino” europeo, e roccioso. Ma di una rocciosità europea.
La roccia etnea, invece, è la lava a cui bisogna fare luogo. (Il luogo è lo spazio antropizzato, segnato da simboli umani). In natura la lava rappresa e solidificata occupa spazi insignificanti
quanto un’eruzione.
In natura l’effusione lavica che conforma il paesaggio, conclusa la sua opera distruttiva, è un’astrazione dove smarrirsi; nel rifacimento umano degli spazi, disegnati da manufatti in lava, il magma freddo è una risorsa costruttiva ed estetica che trasforma lo spazio in un luogo che organizza, secondo progetto, il ritrovarsi.
In colloquio con il prato e con l’acqua, la lava (non solo basole, ma architettura e scultura), darà, darebbe solidità a quell’anima della città che altrove è liquida, nei suoi fiumi (Amenano, Simeto), nel suo mare.
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Sculture di lava che raccontino la storia della Terra, di questa terra, distribuite su di un coerente leggìo, sulla teoria di prati e di basolate laviche.
Ad ognuno il suo giardino! A ogni mela insania!
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