
Tutti gli studiosi sanno per i diffusi e ripetuti riferimenti di Sciascia nella sua vasta produzione quanto sia stato problematico il rapporto tra il N. e l’agostiniano scalzo di Racalmuto. Morte dell’Inquisitore “dei miei libri quello che preferisco” — confessava nel 1979 alla Padovani — è un saggio storiografico, di grande storiografia, ma è anche il progetto di ricerca intellettuale di Sciascia durato a lungo nella sua vita.
Abbiamo studiato Diego La Matina con la guida alla lettura che Sciascia predicava nel 1964. In forza dei suoi suggerimenti Diego La Matina sarebbe stato letto, anzi è stato letto come un’anticipazione storica, una prefigurazione o una metafora di Antonio Gramsci e delle carceri della Santa Inquisizione annunzianti la galera del fascismo [“Senza metafisica e senza barocchi orpelli, in tempi più vicini a noi, un uomo di intendimenti non dissimili da quelli del Berino e del Matranga ordina : il cervello di quest’uomo non deve più funzionare”].
Tre anni dopo, nella ristampa de Le parrocchie di Regalpetra scriverà: “[…] questo breve saggio o racconto, su un avvenimento e un personaggio quasi dimenticati della storia siciliana, è la cosa che mi è più cara tra quelle che ho scritto e l’unica che rileggo e su cui ancora mi arrovello. La ragione è che effettivamente è un libro non finito, che non finirò mai, che sono sempre tentato di riscrivere e che non riscrivo aspettando di scoprire ancora qualcosa: un nuovo documento, una nuova rivelazione che scatti dai documenti che già conosco, un qualche indizio che mi accada magari di scoprire tra sonno e veglia…”. Un rovello da insonnia!
Diciotto anni dopo, una generazione (e che generazione!) dopo, l’indizio che sarà sopravvenuto tra sonno e veglia, tra il sonno e la veglia di diciotto anni, un altro mondo un “oltremodo” si raggruma in un volumetto, Cronachette del 1985 che ospita una divagazione borgesiana, quella su don Mariano Crescimanno, benedettino illuminatista o molinista, morto in una cella dell’Inquisizione palermitana nel 1771 che a Sciascia permette di dire, a soluzione del rovello della Morte dell’Inquisitore : “l’inimicizia dei fanatici è propriamente un fatto speculare. Dell’animale che nello specchio non si riconosce e aggredisce la propria immagine. Della destra che diventa sinistra e la sinistra destra. Di una identità ignorata o negata. Di un errore o orrore di sé – errore ed orrore di esistere, in definitiva – come errore ed orrore degli altri.” Il breviario di don Crescimanno attraverso don Gaetano Alessi, consultore e qualificatore del Tribunale dell’Inquisizione, giungerà nelle mani del marchese di Villabianca. Un dono che è la “reliquia di un celebre malfattore”, dirà il marchese. Entrato nella metafora, Sciascia ne esce commentando che “nell’oltremondo il virtuoso e savio marchese di Villabianca si riconobbe nel peccatore e folle don Mariano Crescimanno”.
Lo spazio temporale occupato da un’intera generazione è una piega della storia. Anzi, una piaga. E Sciascia era abituato a pensare che la Storia fosse un vestito plissè, una corsa di pieghe, una teoria di piaghe. A Sciascia, sin dalle scuole elementari piaceva la storia: “le mie preferenze andavano alla storia (ovviamente, stiamo parlando di storiografia che è un sapere inquisitoriale), senza dubbio perché il maestro ce la raccontava in maniera romanzesca”.
La Storia del tempo vissuto da Sciascia è una sequela di piaghe/pieghe: il fascismo, l’antifascismo, la guerra, il Sessantotto, Dubcek, il terrorismo delle BR, l’entrata e l’uscita dal PCI, il sequestro, l’inquisizione brigatista e l’uccisione di Moro, il caso Tortora e i Radicali e la Sicilia, la piega, questa, più piagata a volere bene intendere quanto confessò alla Padovani: “la storia siciliana è tutta una storia di sconfitte: sconfitte della ragione, sconfitte degli uomini ragionevoli. Anche la mia storia è una storia di sconfitte. O più dimessamente di delusioni. Da ciò lo scetticismo: che non è, in effetti, l’accettazione della sconfitta, ma il margine di sicurezza, di elasticità per cui la sconfitta … non diventa definitiva e mortale. Lo scetticismo è salutare. E’ il migliore antidoto per il fanatismo. Impedisce cioè di assumere idee, credenze e speranze con quella certezza che finisce con l’uccidere l’altrui libertà e la nostra”.
Diego non era scettico. Diego era fanatico, di tenace concetto, qualità rinvenutagli da un altro consultore e qualificatore, e pertanto anch’esso uomo di tenace concetto, come tutti gli inquisitori, Girolamo Matranga. Diego non era uno scettico ma di mucha terquedad, di molta ostinazione. Fa pensare, la terquedad, spagnola, per assonanza, italiana, alle robuste terga del mulo e non alle sofisticherie mentali di un uomo, ostaggio della propria intelligenza. Insomma i cretini non impazziscono e Diego non era folle, ma cretino, fanatico come Cisneros. E Sciascia temeva la follia (“sono così soddisfatto della mia mente che una paura mi assale: di doverne vivere il contrappasso nella follia”).
L’uomo di tenace concetto, Diego, non impazzisce (la locura del 1655 ottobre: enloquecido porque sus discursos eran despropositados y las acciones de loco) e non confessa a la primiera mancuerda (del 1652), essendo già “folle”, fanaticamente pertinace.
Lo scetticismo come abito di chi vuole abitare senza oltranze ideologiche o religiose la Storia che è rappresentazione delle sue pieghe, delle piaghe.
Come ha ben detto Ambroise “la morte dell’inquisitore, l’eretico ha da attuarla dentro di sé” per distanziare quell’abitudine al tenace concetto che lo imprigiona nel fanatismo di uno speculare apparato mentale inquisitorio. E in Morte dell’inquisitore le vittime protagoniste sono due, la morte riguarda Cisneros e Diego. Chi dei due non è l’inquisitore?
Un grande modello di rappresentazione della Storia è quello del saggio storiografico o del racconto-inchiesta de I promessi sposi che è la storia romanzata o il racconto storiografico (e la storiografia è un racconto di fatti storici) di una piaga, la peste del 1630, che esalta un’altra piaga, la tortura su cui si erigerà la “colonna infame” costruita nel sito dell’abitazione distrutta degli untori, altra piaga a seguito, questi, della piaga primaria.
A sua volta la colonna infame avrà altre pieghe di libro — Verri Pietro, Alessandro Verri, protettore dei carcerati come il Diego sciasciano, di Cesare Beccaria, di Alessandro Manzoni con la sua Storia della Colonna infame “alla quale mai ci stancheremo di rimandare il lettore” scriveva Sciascia, ricordando la peste del 1624 diffusasi in Sicilia due anni dopo la nascita di Diego La Matina venticinquenne nei moti rivoltosi del 1647, come annota Vittorio Sciuti Russi nel tentativo pregevole (di un suo volumetto) di dare coordinate storiche e sociali all’intuizione di Sciascia, relativa alla definizione dell’eresia di Diego.
Manzoni solo alla fine degli anni Trenta dell’Ottocento si deciderà a rendere parte integrante del romanzo il suo studio sulla colonna infame che riprendeva le Osservazioni sulla tortura dello zio Pietro Verri (il padre reale o naturale di Manzoni è Giovanni Verri). Una decisione che dovette risentire del ritorno della Storia attraverso l’epidemia del colera del 1835-1837, attraverso gli untori, agenti della Storia, pedine colerose dei tempi del Manzoni, per ben quattro volte spettatore della pandemia presente nella sua Italia ottocentesca del 1835-1837, del 1849, del 1854-55 (il 1855 è l’anno del colera de I Vicerè di Federico De Roberto), del 1865-67, e poi del 1884-86 e del 1893.
Il colera che ci interessa, quello tra “Ventisettana” e “Quarantana”, quella de I promessi sposi senza e quello de I promessi sposi con La storia della colonna infame alla quale rimandava Sciascia nel 1986, il colera che ci interessa è quello del 1835-1837 con il 35,5 per mille dei morti in Sicilia in aggiunta alle vittime delle conseguenti rivolte antinapoletane e il 13 per mille della Lombardia (l’8,5 per mille solo a Milano), seconda regione della penisola per tasso di mortalità colerosa. E si rividero i monatti, i medici di dotta ignoranza che visitavano i pazienti, ricoperti con uno spaventoso burqa di pece, di cappa nera, il lazzaretto, i carri funebri, la caccia agli untori, “pagati” dai governanti per odio nei confronti delle classi inferiori e pericolose che chiamavano alle armi contro i gendarmi che avvelenavano i pozzi.
Mentre la Storia degli anni Trenta dell’Ottocento veniva fuori con la prepotenza del vibrione coleroso, arretrava il romanzo storico de I promessi sposi, sconfessato negli stessi anni in cui veniva pensata l’edizione della “Quarantana”, si affacciava la storiografia, il racconto-inchiesta della Storia della colonna infame.
Tre anni prima di lasciarci, a conferma del rovello tenace avverso al Tribunale dell’Inquisizione del Luogo Comune, prodotto dalla cultura alta e legittimata dalla credulità popolare, di quel Luogo che non ama ospitare l’eresia della contraddizione e dell’intelligenza scettica, nel 1986 Sciascia pubblicò un omaggio, “un sommesso omaggio” a Manzoni, La strega e il capitano dove si narra della morte nel 1617 per strangolamento ed abbruciamento di Caterina de Medici, una povera donna che, creduta maga fattucchiera, si credeva di essere una strega con il potere di “maleficiare” il senatore Luigi Melzi, personaggio storico de I promessi sposi.
Sciascia rinviene in Manzoni lo storiografo della tortura o l’indagatore dell’origine del luogo comune, origine individuata nella dotta ignoranza dei “cretini intelligentissimi” o dei “perfetti cretini” (“non per modo di dire: ché la perfezione sta alla cretineria meglio che all’intelligenza; l’intelligenza ha sempre, come i tessuti dei navajos, una qualche imperfezione o fuga”). Negli inquisitori, uomini di tenace concetto.
Non fu Sciascia uomo di tenace concetto. Lo fu, invece, don Mariano Arena con la sua aria di famiglia, “familiare” di Diego e di Cisneros.
Ebbe Sciascia sempre chiare l’ambivalenza, la polivalenza, la plurieffabilità della realtà degli uomini, la multiversità dell’universo umano e la relatività dei suoi codici interpretativi. E, pertanto, non poteva non contraddirsi e si contraddisse come il suo Manzoni che scrisse un romanzo storico, che ripudiò per la Storiografia, tout court… mentre approntava de I promessi sposi la nuova e definitiva edizione, la quarantana, nella quale c’era un nuovo ripudio… ripudiato, riconciliato, cioè, con la storiografia del saggio conclusivo de La storia della colonna infame. I fanatici non si contraddicono. Il loro ora è sempre.
Sciascia amava contraddirsi, “folle” d’amore per la sua intelligenza, giustiziera dei fanatismi, dei tenaci concetti. Sempre sedotto parimente dalla penna e dalla spada, fu decisamente un uomo di penna, del dubbio creativo. Non fu uomo di tenace concetto. Sciascia, come ogni mistico della conoscenza, fu un Werdender, un diveniente: divenne Sciascia mollando Diego La Matina. E non usava il verbo credere in alternativa a pensare. Non credeva, pensava. Credono solo gli uomini di tenace pensiero, Il pensiero se è tenace si fa duro. La tenacia del pensiero è la credenza.
Tino Vittorio
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