«Da allora [1805] e fino alla conclusione delle guerre napoleoniche, la Sicilia fu un'isola britannica, un protettorato di fatto del governo della Gran Bretagna, con Bentinck in funzione di governatore» (Lucy Riall, La rivolta. Bronte 1860, Bari Laterza, 2012). La cosa "divertente" è che nel decennio inglese si elabora la Costituzione del 1812 alla quale i Sicili-Ani autonomisti, i siciliani per eccellenza, sono devoti. E Giuseppe Mazzini, durante il suo secondo soggiorno londinese, pubblicava agli inizi degli anni '50 l'opuscolo La rivoluzione siciliana e l'intervento britannico in Sicilia, dove si sottolineava l'interesse commerciale dell'isola per l'Inghilterra, ma si rimarcava anche l'influenza «né benefica, né onorevole» che gli Inglesi vi esercitarono dalla pace di Utrecht fino al 1849 per esortarli nel futuro ad «evitare ogni sospetto di ambizioni egoistiche nei riguardi della Sicilia» (e ancora: «non si devono sostenere gli schemi della Costituzione del 1812 e l'indipendenza dell'isola da Napoli e dalle altre province italiane, ma l'unione della Sicilia al resto di un'Italia indipendente». Cfr. p. 124 di Emilia Morelli, L'Inghilterra di Mazzini, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 1965).
La Costituzione materiale, degli interessi materiali, era data dalla strategia imperiale dei militari e dai commercianti di vini, di olio, di zolfo degli operatori albionici, guidati e protetti da William Cavendish Bentinck. In quegli anni, in buona sostanza, la Sicilia fa parte di un impero informale come risposta al blocco continentale di Napoleone. I Siciliani, come scimmiette sia pure furbe, discutevano di quel che il domatore loro ammanniva in ammaestramento e pensavano di essere autonomi. Erano, in vero, automi di quell'imperialismo costituzionale britannico che veniva espandendosi per il Mediterraneo in Corsica come in Sicilia, come a Malta, come nelle Isole Ionie della Repubblica settinsulare (vedi la magistrale trattazione di Carlo R. Ricotti, Il costituzionalismo britannico nel Mediterraneo (1794-1818), Giuffrè-Luiss University Press,Milano2005). Contemporaneamente era in mano inglese (in "semi-protettorato") il Piemonte sabuado a cui era stata "imposta" l'annessione di Genova e del suo porto franco con il trattato di Parigi del maggio del 1814: "Il Piemonte si presentava [...]e nelle province di terraferma e, a maggior ragione, in Sardegna, come un pèaese ad economia agricola affatto sfornita d'industria (quella della seta ecctuata) e poverissimo di capitali: che l'Inghilterra lo considerasse come una possibile colonia di sfruttamento, da mettere in valore con un considerevole apporto di capitali, dimostra ampiamente il pullulare di case di commercio inglesi stabilitesi a Genova dal 1814, e a Cagliari durante l'ultimo periodo della residenza della Corte sabauda nell'isola. Ottimamente situato fra Austria, Svizzera (Germania) e Francia, il Piemonte era insomma destinato dall'Inghilterra a diventare il commesso viaggiatore dei suoi prodotti nell'Europa centrale" (Nello Rosselli, Inghilterra e Regno di Sardegna dal 1815 al 1847, Einaudi Torino !954, p.9).
Ma torniamo alla Riall che spiega il suo interesse per la Ducea di Bronte, donata a Horatio Nelson da Ferdinando nel 1799, grato per l'abbattimento della Repubblica partenopea dell'ammiraglio Caracciolo e della Pimentel Fonseca : «Pur avendo vissuto la maggior parte della mia vita a Londra, sono di origini irlandesi; e quando non sono a Londra, sono quasi sempre in Italia [docente di Storia all'Istituto universitario europeo di Firenze]. Spero di essere riuscita a mostrare che Bronte, come l'Irlanda nella quale sono cresciuta, si porti dietro un'identità difficile, frammentata, e una lunga tradizione di lotta contro la presenza britannica. Nel suo passato, inoltre, il movimento nazionale italiano incrocia il colonialismo. Si potrà quindi capire che un luogo come Bronte, la cui atmosfera richiama in modi vari e mutevoli elementi italiani, inglesi e irlandesi, ha sempre conservato per me un fascino particolare». La Sicilia-Irlanda subì una trasformazione duratura in quello che è chiamato decennio inglese e, se dopo la scomparsa di Napoleone si allontanò il pericolo francese dello strangolamento mediterraneo dell'impero inglese, non si poteva non ricordare che «nel 1808» scrive la Riall «i mercanti britannici valutavano ormai che la Sicilia (assieme a Malta) costituisse un investimento migliore del Sudamerica, e nel 1808, allorché si determinò una crisi dei rapporti con la monarchia borbonica, furono loro stessi a fare pressioni sul governo britannico perché non ritirasse le sue forze dall'isola. Essendo impediti i rapporti con l'Europa del Nord e con il resto d'Italia, la Sicilia acquisì un'eccezionale importanza tanto per gli imprenditori inglesi quanto per gli interessi strategici dell'Impero. Nel 1811 c'erano circa 20.000 soldati britannici di stanza a Messina, e gli uomini d'affari inglesi avevano preso in affitto alcune delle più eleganti residenze palermitane... E tuttavia [dopo che nel 1815 la famiglia reale dei Borboni lasciò l'isola], nonostante il tramonto del sogno imperiale riferito alla Sicilia, l'impero insulare britannico nel bacino del Mediterraneo si rafforzò, con le colonie di Gibilterra, di Malta e delle isole ionie, e la regione mantenne la sua importante funzione di corridoio strategico; inoltre in Sicilia sopravvisse una sorta di informale impero britannico...».
La partita dell'Unità d'Italia, dello sbarco dei Mille era truccata o, se si vuole, fu un pietiner sur place, un moto dei piedi sulla stessa mattonella, senza spostamenti. La mattonella del Mediterraneo rimase — come da tempo — fuori dall'Italia. E se ci fu un fuoruscito nell'Ottocento italiano, quello fu il Mediterraneo. Dall'Italia.
Tino Vittorio
Nessun commento:
Posta un commento