Da quando ho finito di leggere un romanzo di un ragazzo acese (Rosario Russo, «Il martirio del bagolaro») che racconta di un parricidio (il figlio è un omosessuale punito dal padre dopo la scoperta della diversità filiale), mi sono rimesso a lustrare gli ottoni bibliografici (Freud, Dostoevskij, etc.) del parricidio e mi sono imbattuto, oltre che in Massimo Recalcati («Il complesso di Telemaco»), anche in Zoja, «Il gesto di Ettore».
Tutti dicono che il padre è un'invenzione recentissima nella specie animale, un'invenzione paradossale perché frutto di una scelta contro natura. Il padre è il principio della civiltà, il luogo da cui prende inizio la civiltà contro la natura. Insomma la femmina è immediatamente madre, il maschio deve scegliere di essere padre, rientrando a casa per accudire i cuccioli, consegnandosi alla monogamia. È una scelta recente (qualche migliaio di anni contro i 4,5 miliardi di anni della Terra) e fragilissima. Da qui la ricerca continua del padre, del fondamento simbolico, perché la paternità è artificiale, simbolica e non naturale. Siamo tutti senza padre o, per dirla con Nietzsche, «chi non ha un padre, se lo deve dare». Il parricidio (simbolico o reale) pertanto è l'atto più inutile che si possa compiere, un maramaldeggiamento («tu uccidi un uomo morto»), ma per questa inutilità esso fonda un carattere, un progetto di vita — quello del parricida — su un vaneggiamento che procura nevrosi e scompensi affettivi e psichici. In Jünger l'Operaio è un orfano che surroga la paternità perduta o assente con l'artificio della Tecnica. Grande Jünger, più grande di Freud e di Jung!
Tino Vittorio
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