lunedì 29 aprile 2013

L'arte degenerata della paternità

Da quando ho finito di leggere un romanzo di un ragazzo acese (Rosario Russo, «Il martirio del bagolaro») che racconta di un parricidio (il figlio è un omosessuale punito dal padre dopo la scoperta della diversità filiale), mi sono rimesso a lustrare gli ottoni bibliografici (Freud, Dostoevskij, etc.) del parricidio e mi sono imbattuto, oltre che in Massimo Recalcati («Il complesso di Telemaco»), anche in Zoja, «Il gesto di Ettore».

Tutti dicono che il padre è un'invenzione recentissima nella specie animale, un'invenzione paradossale perché frutto di una scelta contro natura. Il padre è il principio della civiltà, il luogo da cui prende inizio la civiltà contro la natura. Insomma la femmina è immediatamente madre, il maschio deve scegliere di essere padre, rientrando a casa per accudire i cuccioli, consegnandosi alla monogamia. È una scelta recente (qualche migliaio di anni contro i 4,5 miliardi di anni della Terra) e fragilissima. Da qui la ricerca continua del padre, del fondamento simbolico, perché la paternità è artificiale, simbolica e non naturale. Siamo tutti senza padre o, per dirla con Nietzsche, «chi non ha un padre, se lo deve dare». Il parricidio (simbolico o reale) pertanto è l'atto più inutile che si possa compiere, un maramaldeggiamento («tu uccidi un uomo morto»), ma per questa inutilità esso fonda un carattere, un progetto di vita — quello del parricida — su un vaneggiamento che procura nevrosi e scompensi affettivi e psichici. In Jünger l'Operaio è un orfano che surroga la paternità perduta o assente con l'artificio della Tecnica. Grande Jünger, più grande di Freud e di Jung!

Tino Vittorio

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