lunedì 29 aprile 2013

Al mulo del tempo

Un romanzo storico «Il martirio del bagolaro» (Carthago Edizioni, 2013) dove la Storia non è magistra vitae, non è memoria da celebrare per ficcarci radici o da studiare come un insetto ripugnante da cui svellere le proprie radici, un romanzo dove la Storia è un alibi che nasconde il parricidio. È un racconto contro la Storia, nonostante o proprio per i diffusi riferimenti alle vicende risorgimentali, al 1812 della Costituzione anglo-siciliana, al 1837 del colera “separatista” o “autonomista” siciliano, al 1848-49 antiborbonico, al 1862 garibaldino e cavourriano (questo è l’anno di inizio del romanzo quale contributo all’Unità d’Italia nel suo centocinquantesimo anno — meno tre mesi ché il libro è edito nel dicembre del 2012, mentre l’anniversario nazionale cade nel marzo del 2013).

L’Italia, dopo la matria scozzese di Walter Scott, è una delle patrie (ma i russi non scherzano: basterebbe soltanto Tolstoj a sostenerne millanta di romanzieri storici!) del romanzo storico (Manzoni, il cognato di Manzoni con un suo contributo romanzato alla conoscenza dei Vespri Siciliani, gli emuli manzoniani coevi, i siciliani De Roberto, Pirandello, Tomasi di Lampedusa, Consolo e così via). Il paradigma italiano di questo genere letterario è fornito da I promessi sposi dove la fiction è usata per denunciare la feroce vergogna del sistema procedurale del diritto penale italiano, fondato (non del tutto tramontato, se pensiamo al caso orribile del giovane Cucchi) sulla tortura che — per l’ambito manzoniano — fu un cruccio dello zio di Manzoni, Pietro Verri, fratello maggiore di Giovanni, padre naturale di Manzoni, del nonno del Manzoni e poi di Alessandro Manzoni con la Storia della colonna infame, relativa alla peste del Seicento e che è il perno storico del romanzo.

Manzoni con il suo romanzo storico intendeva rendere più efficace la narrazione nobilitandola o accreditandola con la documentazione storica, l’esordiente ventiseienne Rosario Russo usa la Storia per denunciarne la mistificazione, l’inutilità e il danno — per dirla con il famoso titolo della Seconda «Considerazione inattuale» di Nietzsche. Il suo non è un romanzo sul Risorgimento, ma una presa in giro del Risorgimento e della Storia come disciplina accademica. Della Storiografia, vale a dire. Ognuno — e qui va detto — se ne libera come può della Storia, preda da caccia della storiografia che la studia spietatamente per mummificarla, per impagliarla e metterla in soffitta ad evitare che il passato si presenti irriconoscibile — per gli sprovveduti o/e entusiasti cercatori di radici — come futuro ché sarebbe un futuro da zombie. D’altra parte la storiografia — la sua produzione e il suo consumo — è in relazione negativa con la Storia (lo stesso rapporto tra Kultur e Zivilisation come insegna Spengler, ribadito in «Critica della notte», splendido e prezioso libriccino del mio ospite).

Gli scrittori abitanti in Sicilia hanno partecipato e partecipano vocazionalmente alla crescita del romanzo storico. Il loro Beruf è il romanzo storico, come l’attrazione del vuoto. In questo Risorgimento di Russo opera una setta mai esistita dei Martiri del Tricolore, punitori di quei fedeli borbonici che nel 1848 agevolarono la repressione dei liberali per mano del principe di Satriano, Carlo Filangieri. E per tutta la durata del romanzo Russo ci fa credere che il vecchio Leonardo Mancini, trovato ammazzato nella sua camera da letto, sia stato vittima della vendetta degli unitari. Un sapiente intreccio, guastato qua e là da qualche ingenuità linguistica come «a cavallo di un mulo» o come l’uso transitivo, siciliano, del verbo «uscire».

Il titolo è un omaggio al vero martirio che non è quello degli unitari risorgimentali, ma quello di Saverio, di Edoardo, di Nardo, di Venera. Un omaggio anche al minicucco, il bagolaro, presso cui si costituisce il nucleo del romanzo dell’amore contrastato e punito fra due ragazzi costretti o incoraggiati all’omosessualità dalla detenzione tre le mura dell’Oratorio dove Saverio ed Edoardo erano stati consegnati, reclusi dai rispettivi genitori.

Il protagonista è un giovane aristocratico acese, Nardo Mancini, che scapperà dalla Sicilia con la sua Venera, la criata della famiglia, prima a Napoli e poi a Milano dove andrà a fare il bibliotecario mentre tutti i parenti l’hanno dato per suicida o rapito dai briganti.

È un romanzo dove si agita il complesso di Telemaco o di Astianatte, un romanzo che piacerebbe a quello che oggi sembra essere l’analista lacan-junghiano più alla moda in Italia, Massimo Recalcati. I protagonisti sono i figli, i nostri figli che si vivono come creditori di un risarcimento generazionale inesigibile. Un romanzo che è una sorta di manifesto disperato dei giovani, di quei giovani italiani, europei, occidentali maltrattati dai loro “indegni” padri e che per questo «vorrebbero scomparire per sempre», come confessa Nardo subito dopo la scoperta del parricidio dello zio Saverio prete con cui il giovane si era intrattenuto a parlare dell’omicidio del nonno, ammazzato dallo zio Saverio: la pena di morte contro la costrizione a indossare la tonaca, all’obbligo della rinuncia alla primogenitura a favore del fratello, padre di Nardo, alla cancellazione del suo destino di edonista e per avere indotto al suicidio Edoardo, il coetaneo amante.

«Uscì da quella stanza…» — e sembra, Nardo Mancini, un calco della manzoniana madre di Cecilia «scendeva dalla soglia di uno di quegli usci» — «uscì da quella stanza con un senso di ribrezzo verso il mondo che lo circondava. Si era aspettato che lo zio c’entrasse qualcosa con la morte del nonno, ma scoprire tutte quelle violenze, quelle sofferenze… Ma altro che scapparsene alla piana [di Catania]… qua si trattava di darci un taglio definitivo, di sparire per sempre da questo mondo. Ormai era arrivato al limite. La vita aveva perso ogni valore». Per trovarne o ritrovarne uno, bisogna andarsene da quel melenzanaio che è la Sicilia. Lontano. «Per dove? Da dove?» mi chiedo con il titolo di uno straordinario mai invecchiato saggio di Claudio Magris dedicato al suo Joseph Roth, cantore, ciantro della fine del mondo che fu la dissoluzione dell’impero austro-ungarico!

Tino Vittorio

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