domenica 28 aprile 2013

Solo l'intellettuale è un cretino

Chiunque ha una scemenza da dire si alzi e parli di calcio, meglio, si alza e parla
di calcio. E così fu che Marco Travaglio mise insieme nello Stupidario del calcio e di altri sport (Mondadori 1993), con una prefazione di Indro Montanelli, un monumenticchio alla scemenza degli intellettuali, alla loro cretineria. In vero, la cretineria è abitacolo esclusivo degli intelligenti, di quei ricchi di Geist, di Spirito che sono gli intellettuali. Un minus habens — per dire — un manuale (s’intende, lavoratore: dal macellaio al pescivendolo, dallo spazzino al proletariato di fabbrica, dal tecnico laureato all’impiegato di banca o di una qualsiasi amministrazione pubblica o privata) non può essere cretino, come un povero non può essere miserabile: la povertà è uno stato, la miseria una scelta, quella del ricco che vive come un povero perché è appunto un miserabile cordialmente e intellettivamente. E, pertanto, solo un intellettuale, ricco di concetti e di letture, di facoltà di intendere, può essere e lo è cretino, in alcuni casi. In quello del calcio anzitutto. In alcuni casi, ad esempio, quando intercala il suo eloquio di termini tratti dal gergo english-informatico o english tout court o dal francese (tout court, ad esempio) o dall’irto tedesco che è un poco unheimlich per noi italioti, in questi casi  — dicevamo — l’intellettuale scala una posizione e dal cretino tout court passa a Il Cretino Cognitivo come deliziosamente scrisse Daniela Maddalena (Carabà Edizioni, 1997). Così andavamo riflettendo sullo spunto della lettura di Tutto il Catania minuto per minuto di Antonio Buemi, Roberto Quartarone, Alessandro Russo e Filippo Solarino (Geo Edizioni, 2011), un libro che è una ricca enciclopedia di storia del costume di una città al tempo del suo… tempo libero, quello del gioco e del tifo calcistico. Tempo libero? Non tanto: il calcio in Italia è un’invenzione del fascismo, la sua nazionalizzazione delle masse e il bolognese Leandro Arpinati ne fu il profeta (dal “Bologna”, in segno di omaggio, il “Catania” mutuò i colori, rosso azzurro e la verticalità delle bande sulla casacca). E si costruirono stadi ( a Catania intitolato a Italo Balbo), teatri di massa contro quelli drammaturgici, borghesi. Qui cade in taglio una, sia pure lunga, citazione tratta dal bel libro di Simon Martin, Calcio e fascismo, (Mondadori, 2006): “Ben lungi dall’essere luoghi di ritrovo esclusivi che avrebbero avuto un’influenza negativa sulla società, gli stati moderni erano i teatri di massa del presente e del futuro, nuovi per dimensioni, aspetto e capacità di accogliere un enorme pubblico che contribuiva allo spettacolo. Descrivendo l’esperienza del tifo per una particolare squadra come un atto collettivo di abbandono, di generosità, Bontempelli sottolineava la crescente importanza dei tifosi, anche se non teneva conto a sufficienza del ruolo fondamentale dei nuovi stadi. Più che semplici campi d’allenamento e teatri per la massa, gli stadi erano indubbiamente mezzi di propaganda con cui il regime puntava a creare una cultura e una comunità nazionale. Fa notare Tim Benton nel suo studio dell’architettura sotto il regime: in ogni località in cui si radunava un gran numero di persone, edifici, statue e dipinti erano utilizzati per trasformare il cameratismo in tribalismo, l’orgoglio in senso di superiorità, il senso di appartenenza nell’odio dei diversi… Le costruzioni ebbero un ruolo fondamentale in questo processo politico”. Il calcio e gli stadi (se ne costruirono tanti tra il 1926 e la vigilia della seconda guerra mondiale) si imposero come strumenti privilegiati per la propaganda con cui il regime puntava a creare una cultura e una comunità nazionali, mezzi portentosi della politica che resistettero fino e oltre l’avvento della modernità, dell’imprenditore puramente calcistico, oltre il modello Agnelli. A Catania l’imprenditore moderno del calcio, quello che cacciava i soldi fuori dalle proprie tasche e non dall’erario comunale, l’imprenditore che liberò il calcio dalla politica postfascista, ma intrinsecamente fascista quanto alla strumentalizzazione, della Democrazia cristiana fu Angelo Massimino che non parlava bene l’italiano (una volta pare che — come racconta Montanelli nella suddetta prefazione del libro dove Travaglio coglie in fallo persino Giampiero Mughini — il presidente del Club Catania Calcio si disse pronto a comprare “Amalgama”, visto che qualcuno denunciava l’inesistenza dell’amalgama nel gioco di squadra). E giù risate di minor peso, però, di fronte a quelle che sbommicano, svampano, divampano in eruzione alla lettura di un libro che raccoglie le riflessioni di due che l’italiano lo parlerebbero bene, per professione innanzitutto, Carmelo, appunto, Bene ed Enrico Ghezzi nel Discorso su due piedi (il calcio), Bompiani 1998. Una chiacchiera da bar sportivo, dove l’uno parlava di teatro, l’altro di blob, l’uno di Deleuze che esamina Nietzsche, l’altro di Kiarostami e di Edgar Allan Poe. Pensavano di discorrere per dare un calcio al cinema e invece finirono con il parlare del cinema (e della televisione) del calcio. Fino alla massiminizzazione del calcio, all’amalgama di tutti luoghi comuni e sconosciuti del calcio. E il Brasile “più che l’eterno ritorno, è il ritorno dell’eterno”. E l’altro: “quando il Brasile perde, piango”. Ma pianse anche per l’uscita del Manchester da una partita di Coppa. E Tardelli “è uno che insegue atleticamente l’impossibilità di essere ovunque, l’impossibilità di farsi palla” . E per finire rischiando di brutto, come Massimino i suoi soldi, Ghezzi: “Comunque, mentre parlavi di Van Basten, mi è venuta in mente una domanda. Non esiste una sorta di cinema pornografico, nel calcio, che si avvicina ai momenti più sublimi?” Bene: “Il porno come l’intendo io, cioè come superamento dell’eros, oppure come porno spicciolo?”. Ghezzi: “No, il porno inteso come cinema automatico, che non ha bisogno di farsi per intervento demiurgico, perché c’è un altro demiurgo. E’ il cinema che è il demiurgo. E’ il cinema che fa l’intervallo”. Bene: “Dove non c’è soggetto e non c’è l’oggetto. Sono la stessa cosa, insomma. Questo per me è il porno: l’osceno. O-sceno: fuori scena”. Ghezzi: “Be’, io non intendo esattamente questo”. E così di eccesso in eccesso, in sovraddose, senza amalgama.

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