lunedì 29 aprile 2013
Ei fu: la melenzana del giudice
Leggiamo Le regole dei giornalisti di Caterina Malavenda, Carlo Melzi d’Eril, Giulio Enea Vigevani (Il Mulino 2012) per trovarvi il diritto all’oblio, identificato il 9 aprile del 1998 dalla Cassazione civile, e che risponde all’aspettativa di ogni persona, “pure in passato coinvolta in fatti di cronaca negativi, a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata…”. E’ un testo – quello da cui è tratta la citazione – per operatori del Diritto e per operatori dell’informazione, non solo giornalisti ma anche storiografi che per statuto deontologico conoscono l’oblio come il medico la malattia, ma non riconoscono il diritto all’oblio come il medico non riconosce alcun diritto alla malattia. Questo saggio, firmato da avvocati e postfato dal giornalista Francesco Merlo, è un testo “scandaloso” per un semplice dato: vi si narra del conflitto tra giudice e giornalista, disputanti la preda dell’informazione, vi si sostiene che la disinformazione ha un alleato – a sua insaputa, credo – nel Diritto, vi si racconta che il giudice è l’unico antagonista del giornalista o del filosofo heideggeriano, di quello che ritiene la verità, l’a l è t h e i a, (αληθεια e non αλητεια, a l e t è i a) entità fondata, strutturalmente, ontologicamente sulla vocazione alla guerra contro l’oblio. Il Diritto, quindi, contro la ricerca dei giornalisti e, ribaltato il ruolo che ha nella filosofia platonica, il giudice si fa filosofo, si fa il filosofo di Platone frequentante l’Iperuranio delle Idee di cui gli uomini cavernicoli, i giornalisti, posseggono di esse la larvalità come l’amante il cadavere dell’amata, subendone o percependone la proiezione di mostruose ombre. E così non si dà evento vero che prima non possa o debba essere visto dal giudice. Nulla accade se non visto dal giudice che autorizza – previa la sua visione – la visione degli altri, quella del giornalista, nel nostro caso. Video ergo Iudico ergo est aut sum aut es. Dalla conoscenza per anamnesi dal mito della caverna del settimo libro de la Repubblica – di Platone (e non di Ezio Mauro) – ogni buon giornalista dovrà passare al Pirandello de La giara dove si apprende che, per non avere noie con il mondo, per non stare storti con il Diritto, bisogna pur fare come don Lolò Zirafa, omaggiato dal suo avvocato, Scimè, di un libriccino rilegato in tela rossa. Non era il messale, ma il Codice civile dove don Lolò “ha imparato a leggerci e a lui non la fa più nessuno, neppure il Padreterno! Contemplato tutto, qua: caso per caso”. Ma ad onor dell’evidenza resta da dire che per i Greci e per Heidegger la verità è la negazione dell’oblio di cui pare – per quanto leggiamo in Malavenda – che il Diritto si faccia difensore contro l’informatore professionista, giornalista o storiografo o sociologo o… fate voi. Ma è anche vero che se da sdrucciola, alètheia, diviene piana e la sua dentale (θ) perde l’aspirazione trasformandosi in τ, la verità si fa errore, aletèia. Tra la verità e l’errore corre una piccola differenza: di accento e di aspirazione. Importa però – altra raccomandazione del Diritto – l’essenzialità argomentativa e scrittoria (della Tecnica Retorica) che può pure correre il rischio di sostanziarsi in reticenza. Insomma, se uno muore per cause accidentali, per violenza altrui o propria, per cause naturali non è necessario saperlo: dinnanzi alla morte tutto è uguale! Essenziale per parteciparne l’informazione è dire: Ei fu. Come ci insegna Alessandro Manzoni che era, ahimè!, un poeta il quale non doveva preoccuparsi di informare che la cosa riguardava Napoleone Bonaparte. La manifestazione di quella preoccupazione un complemento di notizia esorbitante sarebbe stato, atto a sommuovere l’ordine pubblico! E così non successe niente.
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