lunedì 29 aprile 2013
L'Imbecille (al-badingian)
La cornice è la storia europea (nord-americana e giapponese, a dire il vero), dentro cui trova collocazione temporale il carteggio epistolare tra George Sand e Gustave Flaubert, intelligentemente ed evocativamente intitolato da Vito Sorbello Fossili di un mondo a venire, della raffinata casa editrice Nino Aragno, un amoroso scambio intellettuale tra due personaggi, assai distanti caratterialmente ed intellettualmente, tra Aurore Dupin, baronessa di Dudevant, vissuta tra il 1804 e il 1876, e Gustave Flaubert, vissuto tra il 1821 e il 1880. Un carteggio di 13/14 anni, iniziato nel 1863 quando la baronessa aveva 59 anni e l’autore di Emma Bovary 42, e compiuto alla morte di Aurore. Un carteggio ricchissimo di implicazioni relative alla poetica, all’estetica, alla sensibilità o insensibilità politica dell’uno e dell’altra.
Il 1870 rappresenta l’anno epocale verso cui si dirige e da cui prende costituzione adulta l’umore intellettuale di questo carteggio; il 1870 è l’anno che segnerà l’inizio della prussianizzazione dell’Europa e che spingerà i Francesi ad elaborare un ideale che 40 anni dopo si realizzerà compiutamente con la prima guerra mondiale, con la rivincita antitedesca e la riappropriazione dell’Alsazia e della Lorena, cedute a Bismarck dopo Sedan: “L’assassinio in grande vuole essere il solo fine dei nostri sforzi, l’ideale della Francia”.
Ma prima di esaminare l’ Epochenjahr (nel settembre di quell’anno Flaubert scriverà: “Qualunque cosa accadrà, un altro mondo sta per avere inizio. Ed io mi sento assai vecchio per piegarmi a nuovi costumi”), è necessità piacevole soffermarsi su una notizia del 14 giugno del 1867 che la Sand ci offre a p. 127: “A proposito di zingari, sai che esistono zingari di mare? Ne ho visto nelle adiacenze di Tameris, presso delle sperdute scogliere, alcuni barconi ben riparati, con donne, bambini, tutta una tribù costiera, smilza, cotta dal sole, che pesca per mangiare, senza fare grande commercio, parlante una lingua a sé, che la gente del luogo non comprende, che non abita da nessuna parte se non in questi barconi, che vengono tirati sulla sabbia, allorché la tempesta li tormenta nelle loro anse rocciose. Costoro si sposano tra di loro, inoffensivi e tetri, timidi o selvaggi, non rispondono quando gli si parla. Non so più come li chiamano [...]”. È un riferimento centrale e che supporta la scelta del titolo. Fossile o zingaro o rinoceronte prossimo alla morte sono sinonimi in Flaubert, autodichiaratosi rappresentante dell’aristocrazia legittima (il termine “fossile” si riscontra tre volte nel carteggio per significare “sopravvissuto”. Lo vediamo per la prima volta nella missiva del sabato notte-domenica mattina del 15-16 dicembre del 1866. Poi viene ripreso un sabato notte, il 21 maggio 1870, qualche mese prima dello scoppio della guerra franco-prussiana che è del luglio e che si conclude subito a settembre con la sconfitta e la resa di Napoleone III a Sedan. Quella notte scrive a Sand: “Mi sembra di diventare un fossile, un essere senza rapporto alcuno con la creazione circostante”. Due anni dopo, aprile 1872, scriverà alla sua amica: “Siamo fossili che sussistono, dispersi in un mondo nuovo”. Flaubert si sente un fossile, uno zingaro anche, un beduino errante per i deserti della modernità.
La Sand ha una visione femminile, godereccia del mondo, socialisteggiante, di un cattolicesimo paganeggiante. Non si percepisce come un fossile e, se deve fare una concessione al suo tesoro, al suo zingaro lo fa alla sua maniera, senza afflizione, senza autocommiserazione, con gioia panteistica, con goduria sensuale. Lei ama la vita, lui la odia e la vuole eludere con l’inchiostro, con la letteratura. Il punto è che in questo epistolario il protagonista è Flaubert, un uomo che assiste alla nascita della modernità e della democrazia, cioè dell’Idiozia o della reificazione marxiana. E idioti erano un po’ tutti: lo era Napoleone III, per 4 lustri imperatore dei francesi, “un cretino” (un cretino che fece l'Italia, l'Italia l'ha fatta un cretino?) a sentire Adolphe Thiers (1797-1877), orleanista, che fu più volte capo del governo. Ministro degli interni, ministro degli esteri e poi sostenitore del suo "cretino", Luigi Bonaparte, da questi temporaneamente proscritto e, poi, capo dell’esecutivo della Repubblica francese del febbraio del 1871 ed anche Presidente della Repubblica. Uno che non doveva essere cretino, che aveva pubblicato tra il 1823-1827 dieci volumi della “Storia della Rivoluzione francese” e altri 20 volumi tra il 1845 e il 1862 della “Storia del Consolato e dell’Impero”. Capita anche ai "cretini" pubblicare libri ma Thiers non doveva essere cretino, ma lo era per Flaubert che conia per lui il termine stronziforme, variante di un “trionfante imbecille, crostoso assai abietto”, p. 154 . Ad aggravare la sua posizione, a rendere più pesante il quadro diagnostico del povero Thiers c’è la sua attività giornalistica, fondatore, Thiers, del National. E il giornalismo ha una grande colpa: dispensa dal pensare (“la stampa è una scuola di abbrutimento, poiché dispensa dal pensare”; “il sogno della democrazia consiste nell’elevare il proletario a livello dell’idiozia del borghese. Il sogno è in parte realizzato! Egli legge gli stessi giornali e ha le stesse passioni”). Il monumento all’imbecillità che è un po’ un autoritratto è Bouvard e Pécuchet (“i miei due deliziosi imbecilli”, 31 maggio 1873, p. 528).
Secondo Impero di Napoleone III e Terza Repubblica con il battesimo della Comune di Parigi (26 marzo 1871) sono — per usare un'immagine pasoliniana — gli eventi che determinano la “scomparsa delle lucciole”, dove si enuclea una sorta di degenerazione antropologica che un altro francese Alexis de Tocqueville alcuni decenni prima aveva cantato come una sorta di resurrezione dell’uomo nella Democrazia in America. Cosa stava avvenendo, cosa avveniva nella seconda metà dell’Ottocento dell’emisfero occidentale? Per Flaubert è chiaro: “Il nostro si avvia a diventare un grande paese piatto ed industriale come il Belgio. La scomparsa di Parigi (come centro dell’amministrazione) renderà la Francia incolore ed opprimente. Senza più cuore, più centro e, credo, più anima…”. Sembra una contrapposizione polemica ed irriverente ad un testo che aveva conosciuto a quell’epoca una quindicina di edizioni, sembra una contestazione di quanto aveva scritto nel capitolo terzo del Libro primo di Démocratie en Amérique (1835) intitolato “La libertà di stampa negli Stati Uniti”, Tocqueville: “Gli Stati Uniti non hanno una capitale: la cultura e il potere sono disseminati dappertutto in questo vasto paese; i raggi dell’intelligenza umana, invece di partire da un centro comune, vi si incrociano in tutti i sensi; gli Americani non hanno collocato da nessuna parte la direzione generale del pensiero. Esattamente come quella degli affari”. E mentre per Tocqueville la democrazia era la nuova religione della politica, per Flaubert è il contrario: “Odio la democrazia” (p. 396).
Questo è il periodo dell’industrializzazione di tutti i paesi europei, degli Stati uniti e del Giappone della restaurazione del Tenno Meji. Quelli del carteggio di cui stiamo parlando sono gli anni del Secondo Impero, anni di preparazione della grande depressione del venticinquennio 1870-1895. La industrializzazione si internazionalizza, immettendo sul mercato una incredibile quantità di prodotti che porteranno alla caduta dei prezzi, alla crisi internazionale della domanda, alla costruzione degli imperi dei paesi industrializzati, alla creazione di mercati riservati, all’adozione di pratiche neo-mercantilistiche, di protezione doganale, alla istituzione di cartelli, di trust, di monopoli e monopsoni. Per Flaubert questa straordinaria trasformazione che investì la sostanza antropologica del pianeta si con-densò nella morte di Théophile Gautier “crepato della Comune [...] Il 4 settembre ha inaugurato un nuovo ordine di cose, per cui persone come lui non avevano niente da fare al mondo. Non bisogna chiedere mele agli aranci. Gli artigiani di lusso sono inutili in un mondo in cui domina la plebe… Egli ha avuto due odii. L’odio per i droghieri in giovinezza. E l’odio per la canaglia nella maturità”. Giudizio condiviso da Flaubert che dirà “[dei comunardi] m’importa assai poco”.
Amava la Storia, non sapeva di starci dentro. Odiava il suo tempo, la sua Storia. Detestava la politica, perché arte dei mediocri che avevano impestato, mediocrizzato la Storia presente. Aveva scelto come antidoto la Cartaginese Salambò. Contro se stesso, monsieur Bovary.
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