Scriveva Nietzsche in Al di là del bene e del male che “parlare molto di sé può anche essere un modo per nascondersi” e l’autobiografia non si sottrae alla tendenza a sottrarre, a nascondere la biografia… con evidenza, come l’invisibile, perché evidente, lettera rubata di Edgar Allan Poe. (Recentemente è uscito un bel saggio sull’argomento di Ivan Tassi, Storie dell’Io. Aspetti e teorie dell’autobiografia, Laterza 2007). Un autobiografia sciasciana quella di Milazzo, Un italiano di Sicilia (Bonanno editore, 2009), ma più radicale Milazzo che non Leonardo Sciascia. Più radicale per due motivi: il primo, perché porta alle sue estreme conseguenze la domanda retorica di Sciascia (come si può essere siciliani?) alla risposta che neppure in Italia per un siciliano è semplice vivere in Italia; l’altro, ben più radicale, conclude e risolve l’insopportabilità della sicilianità e poi sicilitudine facendo pensare alla de-sicilianizzazione quale soluzione del problema. Sciascia come Marx nella questione ebraica che propose di risolvere, l’uomo di Treviri, con l’auto-eliminazione dell’ebraismo, dell’identità ebraica, dell’identità fondata sulla religione o superstizione dei Padri.
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Incontravo in questi giorni in via Penninello a Catania un “trans” il quale aggressivamente sosteneva di essere orgoglioso della sua sessualità, del suo genere. Mi pareva che facesse necessità virtù del gay-pride. Ma può degli uomini una caratteristica naturale o casuale essere fonte di orgoglio? Si può essere orgogliosi del proprio genere, del proprio naso, della propria chioma o calvizie, della propria vescica mingitoria? Può essere orgogliosa di sé una melanzana o un pomodoro di Pachino solo perché hanno avuto i natali, il nutrimento nel territorio, nella terra di Pachino? La sicilianità in tal senso è melanzanità: una convinzione che traggo pari pari e consequenzialmente (spinto alle ultime conseguenze) da Leonardo Sciascia, un siciliano (vale a dire un abitante di Sicilia) che ha trattato Racalmuto o la Sicilia come l’ermo colle leopardiano che chiude la visione vicina per aprirne una infinita. Sciascia appartiene all’infinito della letteratura mondiale; la Sicilia è un ermo colle, una montagna di pretesto. Sciascia è spagnolo, è francese, è italiano, è arabo, è americano (per la giallistica, come Dashiel Hammett). E Milazzo non ha nulla di siciliano. La riprova per tutti coloro che non ne hanno familiarità o non ne condividono l’amicizia è L’Indipendente, un suo giornale “inglese” cioè imperiale, planetario fin dalla grafica (prima di cadere nella trappola leghista di Vittorio Feltri).
Quella di Milazzo è un’autobiografia drammatica, scritta e soppesata in diciassette anni, tra il 1992 e il 2009. Da leggere con intelligenza e con il sorriso da ignoto marinaio come è da vivere la vita di ognuno che abbia avuto la sorte o la malasorte di abitare l’Italia o la Sicilia (abitare in un luogo non significa che si è, si appartiene a quel luogo, abitare non è essere: in una casa abitano uomini e topi, ma gli uomini non dovrebbero essere topi).
Avevo da poco chiuso le pagine di un romanzo di mare, Corsair, tradotto La rotta dei corsari e scritto da un indiano, Tim Severin. Il protagonista di Severin è un irlandese del XVII secolo, Hector Lynch che da un villaggio costiero dell’Irlanda papista finisce per una scorreria dei Barbareschi in un “bagno” di Algeri dove si trova ammassata tanta umanità (e disumanità) europea: greci, russi, spagnoli, francesi, inglesi. I peggiori captivi della Barberia sono due: un italiano sodomizzatore e un siciliano, ladro impenitente, dalle orecchie e dal naso mozzati. E non bisogna essere o fare l’indiano per tenere distinti l’italiano dal siciliano, per non riconoscere l’italiano in un siciliano. I siciliani non si sentono italiani. Insomma, Garibaldi si è fermato ad Eboli, delegando a Bronte Nino Bixio. L’aveva capito, al battesimo della stagione indipendentista di Mario Turri/Antonio Canepa, il Maresciallo d’Italia, Roatta, quando, non sapendo che pesci pigliare sotto l’attacco delle armate alleate, proclamò un invito ai siciliani all’unione con gli italiani e con i tedeschi contro gli anglo-americani dell’operazione Husky (“Strettamente fiduciosi e fraternamente uniti, voi fieri siciliani e noi militari italiani e germanici della FF.AA. Sicilia, dimostreremo al nemico che di qui non si passa”). Avevo da poco chiuso le pagine de Il vulcano spento di Piero Isgrò che in gemellaggio inconsapevole scrive dell’Italia/Sicilia, vale a dire, di Catania che è “un delitto perché è una città che dorme come su un vulcano spento, senza l’intimo ribollire delle colate laviche nelle sue vene, priva d’attive necessità, votata più al sonno, e al sogno, che al risveglio, schiava della furbizia e dell’imbroglio e che non riesce a riconoscere il suo male invischiata com’è nel calcolo e nel distinguo”.
L’ho letta questa autobiografia, il più difficile dei generi storico-letterari, come se l’autore fosse Beppe Fenoglio o Italo Calvino, come un romanzo da collocare, specialmente per i primi capitoli, tra Una questione privata e Il sentiero dei nidi di ragno. L’ho letta con diffidenza una prima volta, con spirito festoso una seconda volta.
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C’è da diffidare dei Siciliani che scrivono. Pensano di essere speciali, di avere uno stile speciale anche quando o proprio perché non hanno stile. Il guaio è che Nino Milazzo è speciale, lo è per me, per i suoi amici. E per i suoi nemici. Ogni capitolo di questa sua lunga confessione merita una discussione puntuale, puntigliosa. Un’autobiografia dominata da due protagonisti, uno vero e, per questo, vitale, un altro falso e, per questo, mortale. Il primo protagonista è la vecchiaia di un uomo ben vissuto, l’altro è la Sicilia. Un uomo ben vissuto non è un uomo giusto (sono giusti i Santi. Ma sono giusti i Santi?). Vive bene un uomo ricco di esperienze, di curiosità, di errori e di erranze. Si può dire di Nino Milazzo: ha molto errato. Ed erra chi si muove senza punto di riferimento o con un falso punto di riferimento, come quello del dolore sordo ad un fianco che non ti permette di avere pace, girandoti ora da una parte, ora da un’altra.
La Sicilia/Italia di Nino Milazzo è la Grenoble di Stendhal, la Parigi di Baudelaire, del Cigno, dell’Andromaca baudaileriani, la Francia di Flaubert dopo il 1870 popolata da intellettuali stronziformi (il termine coniato da Gustave Flaubert si trova nel carteggio epistolare con George Sand, tradotto mirabilmente e pubblicato con la casa editrice Aragno da Vito Sorbello con il titolo Fossili di un mondo a venire).
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La Sicilia è l’ibi di un alibi, è una sorta di Itaca, di luogo del ritorno e della ripartenza, inconsistente come un espediente affabulatorio quanto è consistente vitale, invece, il viaggio, l’odissea, il vuoto da colmare tra l’andata e il ritorno.
Nella periegesi mercuriale di Ulisse, Itaca è inconsistente, come lo è un pre-testo che rimanda al testo, è inconsistente come una rappresentazione fredda, un deserto dei tartari. Insomma la Sicilia è il giornale La Sicilia o i giornali che la rappresentano o i giornalisti o i viaggiatori o le vecchiette che mentre fanno la calza se la coltivavano come un luogo comune. Solo se leggiamo dal rovescio l’autobiografia (lettura consigliata dallo stesso Nino Milazzo a pag. 207), scopriremo che la desolazione della pagine siciliane è la distesa indeterminata del mondo da cui è assente la Sicilia, il mondo deserto della Sicilia: è quell’andare su e giù per l’Italia secondo gli umori paterni, è il Veneto, marginale come la Sicilia ma senza l’oppressione dei paesaggi e del dialetto verghiani, è il fascismo giovanile, è la Germania, è Milano 1 e Milano 2, è l’America, è la Milano 3 della condirezione de La Sicilia, è la Milano 4 della direzione di Telecolor, è la Milano-mondo.
L’alibi di Nino Milazzo, il suo bovarismo, il suo volere essere altrove è il suo ivi; la sua seconda o, meglio, la ricerca della seconda patria è la vera patria. Anche perché la Sicilia è un capriccio geofisico, un’espressione geografica. E non se ne può fare — dice giustamente Francesco Merlo nella Prefazione — una categoria dello Spirito. La Sicilia è determinante alimento per l’identità degli ortaggi (il pomodoro ciliegino di Pachino, il carciofo di Raddusa), per la frutta (il pistacchio di Bronte o il ficodindia di San Cono), per il caciocavallo ragusano o la provola di Casal Floresta o il salame di S. Angelo di Brolo. Un uomo può essere un salame? La questione meridionale, pertanto, non riguarda gli italiani di Sicilia, essendo quistione che vuole coinvolgere l’antropologia partendo dall’assenza del mercato o dalla perdita di quote di mercato dello zolfo, degli agrumi. Non vendevano più il vino e ne fecero una questione meridionale, e tutti, anche gli astemi, divennero vignaioli e medici e scrittori, proprietari terrieri e filosofi, tutti a lutto per il vino che non partiva più dal porto di Riposto. Questo ammanco di cassa è la questione meridionale. Un ricatto ideologico su cui, mutatis mutandis, aveva scritto pagine importantissime Stendhal in un suo pamphlet, pubblicato in Italia/Sicilia (1988) da Sellerio su suggerimento sciasciano: Di un nuovo complotto contro gli industriali. Pensate: era il 1825! Che ha da spartire — si domandava polemicamente e sarcasticamente Henri Beyle — un uomo con il prezzo di una pecora, che c’entra un uomo con gli affari di un contadino, di un industriale, dell’industriale del ficodindia?
Noi di Sicilia/abitanti di questo pianeta siamo deplacierten, “fuori posto” come cantava nel 1924 Kurt Tucholsky, un ebreo berlinese socialdemocratico e poi comunista della Repubblica di Weimar, a 45 anni suicida nel 1935: “Ci han fatto nascere, credo, fuori posto. /Ora per colpa dell’epoca e del luogo/ tutti sperduti e tremanti ce ne stiamo, /maledicendo la nostra solitudine/ (in tedesco è Einsamkeit, in italiano è sicilitudine). Nino Milazzo, di forte carattere, è un fuori-posto come ogni intelligenza viva di questo pianeta (“ce ne ricorderemo di questo pianeta”). Ha litigato con mezzo mondo, con Vittorio Feltri e con Mario Ciancio, dove l’uno non è settentrionale e l’altro meridionale, ma sono tutt’e due ermo colle, a prospettiva bassa. Nino ha una visione religiosa dell’informazione. Lo racconta con chiarezza signorile, sacerdotale. Litigherebbe, litigherà con il Padreterno che osasse, che oserà mettersi di traverso al suo, ad un suo giornale. E non sarà assediato dai tartari della solitudine o similitudine.
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