lunedì 29 aprile 2013

La Costituzione del 1812 in Sicilia: i baroni e una melanzana

Leggevo di Alexandre Dumas la traduzione italiana per l’Einaudi (2004) di Viva Garibaldi! Une odyssée en 1860, resoconto al 1862 di una crociera al seguito dei Mille. Fra le tante cose notevoli che l’immaginifico padre dei Tre moschettieri sottolinea, a sua insaputa, c’è foltissimo il numero di aristocratici che accolgono le “camicie rosse” all’ingresso dei paesi a mano a mano conquistati. A fronte dell’incredulità popolare, dello scarso credito che sulle prime viene accordato ai Mille, della paura per la prevedibile rappresaglia della feroce e vendicativa gendarmeria borbonica, a fronte dei timori che paralizzavano gli auspicati moti di insorgenza delle masse, a fronte, in buona sostanza, della scarsa partecipazione della gente comune che mostrava agli sbarcati da Quarto, fiacchi e debilitati per il mal di mare, la “freddezza di Marsala” con le porte, finestre e balconi chiusi, si fecero subito vedere i baroni, il barone Mistretta di Salemi, il barone Morcarda con i loro campieri e gabelloti armati, con pecore, galline, formaggi, vino. E pian pianino spuntarono gli altri, la fungaia nobiliare, una distesa di nomi e doppi cognomi a cavallo, tutti i protagonisti del saggio di cui parla Cettina Laudani ne L’appello dei Siciliani alla nazione inglese (Bonanno editore 2011), vale a dire, il marchese di San Martino, il principe Corrado di Niscemi, il barone Giovanni Colobria Riso, il principe Francesco Giardinelli, il cavaliere Notarbartolo di San Giovanni, il conte Tasca, il barone Trabonella, il principe di Fitalia, Ruggero Settimo, “il patriarca della libertà siciliana”, il figlio maggiore del duca di Legiaro, il duca Della Verdura (il marchese Della Frutta, il conte del Dessert e il Cavaliere della Melenzana erano altrove indaffarati). Ovviamente (ovviamente per la naturale teatralità degli abitanti di quella Medina dell’Elefante ricostruita teatralmente dopo il terremoto del 1693) a Catania a farsi notare o a monopolizzare l’attenzione dell’equipaggio della Emma, la goletta di Dumas, non è l’aristocrazia. E’ un signore, un tizio che aveva portato l’arte del nuoto al suo stadio di perfezione — racconta Duma: “Stava seduto in acqua più o meno come un turco sul suo divano o un sarto sul suo banco da lavoro. Quel signore non faceva alcun movimento. Si sosteneva naturalmente in acqua, o piuttosto l’acqua lo sosteneva naturalmente”. Galleggiava come una melenzana prima di essere affettata per essere fritta a condire la pasta alla Norma: la melenzana Normante, che è Norma, ché è normale accostarla al genio di Vincenzo Bellini, del Cigno, fattosi piatto di identitari spaghetti.

Torniamo ai baroni della Laudani che, con alle spalle il bagaglio del discepolato con Enzo Sciacca, autore di molti lavori (e di quello più importante a rifrazione sullo studio dell’allieva Laudani e che si intitola Riflessi del Costituzionalismo europeo in Sicilia, del lontano 1966) assume a pretesto di storia politica della Sicilia una doppia versione, una inglese e un’altra francese, dell’Appello dei siciliani alla nazione inglese, un libello di una ventina di pagine, pubblicato nel 1817 a Londra e attribuito dall’autrice a Niccolò Palmeri. Nella traduzione dei due appelli, vergati verosimilmente nell’originale lingua italiana dal Palmeri, la Laudani rimarca la differenza tra “popolo” e “nazione” — che poi è la differenza tra “Parlamento di popolo” e “Parlamento di baronaggio” — ed è una differenza che segna la diversità delle istituzioni nella storia della Francia e dell’Inghilterra. Da questi due termini opposti prende l’abbrivio della ricerca che si fa rassegna della storia istituzionale della Sicilia con i Normanni, protagonisti positivi. Per la Laudani e per chi scrive ma anche per Pasquale Hamel e per un gruppo vivace e qualificato di Normannisti palermitani Ruggero è il primo costruttore dello Stato in Sicilia, di uno Stato che “affermava l’autorità regia sugli altri poteri [per] consentire a rex Rogerius di mettere in atto il suo, programma di espansione verso le coste africane e verso l’impero d’Oriente”. E in un colpo la Laudani ci libera della sicilianista e melenzanata retorica rumorosa dentro cui è stato messo a galleggiare Federico II, presunto fondatore dello Stato in Sicilia per consegnarlo alla sua dimensione reale di protagonista di una medievale strategia imperiale sostenuta dal feudo siciliano, amministrato come un bancomat, in funzione antagonista degli elettori imperiali tedeschi, dei Comuni settentrionali e del Papato. Quindi lo Svevo e quinci il rapporto di identità tra Autonomia siciliana e privilegio baronale. La Laudani sostiene che questa è una terra che non ama pagare le tasse e che è disposta a fare cose da pazzi — più gravose delle tasse stesse, se si dà il caso — pur di non pagarle. D’altra parte la nobiltà francese inscientemente inaugurò con la sua “rivolta nobiliare” una politica antifiscale e di sfiducia verso la Corona, destinata involontariamente a consegnare la Francia al Terzo Stato e ai giacobini. E’ una terra quella dei Siciliani che trasforma in allodio (vale a dire che libera, privatizza, aliena ai privati) tutti i feudi concessi in devoluzione al demanio, è una terra che trasforma i feudatari a tempo, i possessori di beni per concessione feudale, in proprietari senza tempo. E’ una terra che ha avuto la disgrazia della reazionaria occupazione inglese, antifrancese e antinapoleonica. Una terra dove — pare — l’illuminismo arrivò diffusamente ma che per mano dei suoi intellettuali ebbe la ventura di giustificare e di coonestare privilegi baronali ed ecclesiastici e, perfino, di giustificare la pratica della tortura. Sono note le considerazioni di Romeo: “La classe intellettuale era la sola che avrebbe potuto accogliere con favore l’illuminismo. Senonché, essa in Sicilia continuava a reclutarsi in gran parte, come per il passato, fra l’aristocrazia e il clero, che per secoli avevano avuto il monopolio della cultura, un po’ per la loro posizione economica, un po’ perché erano le sole categorie che avessero un proprio mondo ideale da esprimere, e fosse pure il mondo del provincialismo, della feudalità e della Controriforma […]. La religione cattolica permaneva cioè come limite continuo alle indagini della ragione” (Il Risorgimento in Sicilia, Laterza Bari, 1973 pp. 36 e 42).

L’autonomismo è una rivendicazione di autonomia proprio perché è assente una reale autonomia, è il peccato originale di questa isola che da soggetto motore della storia italiana grazie ai Normanni mediterranei divenne (e diviene, rinnovandosi) ricettacolo di istanze rivendicazioniste che seppelliranno in querela lagnosa l’autonomia reale e dinamica dopo i Vespri. Gli Angioini spostarono a Napoli l’anima del Mediterraneo peninsulare, per terragnizzarlo, lasciando che la Sicilia divenisse l’inferno dei baroni, il motore a ritroso dello sviluppo, la marcia indietro del vettore storico.

Una veloce contestualizzazione del dibattito relativo alla Costituzione siciliana del 1812: l’isola vive di un regime a sovranità limitata. E’ occupata dalle truppe inglesi che difendono e sussidiano Maria Carolina e Ferdinando, scappati per la seconda volta da Napoli. In Sicilia comanda Lord Bentinck che sogna e briga di annettere all’Inghilterra, dopo averla costituzionalizzata all’inglese, in senso conservatore rispetto ai dettami dell’ingegneria istituzionale della Francia rivoluzionaria, la Sicilia. All’Inghilterra bastano le isole ionie, l’isola di Malta, già sottratta al Regno di Napoli con la pace di Amiens, basta Gibilterra, basta la presenza armata in Egitto per assicurarsi il dominio incontrastato del Mediterraneo insidiato un po’ da tutti. (È un bastevole alluvionale quell’inglese controllo a spizzichi sapienti del Mediterraneo!). In quegli anni l’Inghilterra che cinquant’anni prima aveva ottenuto il predominio sugli Oceani da cui aveva espulso con il Trattato di Pace di Parigi seguito alla Guerra dei Sette Anni (1756-1763) l’antagonista francese, era in guerra con le ex colonie britanniche dell’Atlantico, costituitesi in Stati Uniti. E la Francia napoleonica stava organizzando la rivincita con una guerra a tutto campo per l’Europa. Nel continente peninsulare si mettono in piedi regni e repubbliche napoleonidi. La guerra francoamericana-inglese si andava facendo sempre più pesante e costosa. Il re e la regina napoletani ai quali non basta il sussidio inglese, chiedono soldi ai baroni, beneficiari della “legge eversiva” della feudalità sia pure in ritardo di oltre un lustro rispetto a quella napoletana ma che trasformava — come detto — in allodio i beni, concessi in usufrutto sotto forma di feudi e che in qualsiasi momento o all’estinzione del rappresentante del casato infeudato dovevano essere devoluti o integrati al demanio regio. I Reali vogliono soldi per apprestare — dicono — eserciti e protezioni difensive, impongono la tassa dell’1% su ogni transazione commerciale, alimentando rivolte e malesseri sociali anche nei sudditi della potenza alleata. I baroni non ne vogliono sentire e tirano in ballo la trovata linguistica secondo cui le tasse sugli averi dei baroni sono doni, “donazioni”, al Re ma che per questi doni (con il dono, secondo Mauss, si imprigiona l’anima del donato su cui si insignorisce) ci vuole un Parlamento contro il quale il re non può fare nulla, non deve fare nulla, essendoci chi lo rappresenta. I baroni non vogliono pagare le tasse e vogliono l’Indipendenza da Napoli. I baroni non vogliono pagare tasse e vogliono il re privato delle prerogative assolute, sciolte, absolutae, cioè, da altri poteri. Si discute della Costituzione con baroni che, come nell’iconografia dei bari (micro baroni come le mele per il melone) del tressette, sotto il tavolo prendono accordi con gli Inglesi, con la regina che trama contro gli inglesi a favore dei francesi, con deputati di Sinistra filo-francesi provenienti dalla Sicilia a-feudale della parte orientale. Una grande confusione in cui è chiaro il ruolo protagonista dell’antica ruling class siciliana, la classe della grande proprietà terriera latifondistica isolana che rivendica un regno autonomo. Ecco l’Autonomia!

Perché l’Autonomia? Non per restaurare la progettualità imperiale e mediterranea dei Normanni, ma per tenere chiusa la saccoccia e frignare. E anche nelle argomentazioni costituzionaliste dei migliori non si va al di là del sapere giuridico, non si individua al di là della formula giuridica la cosa, vale a dire, il senso storico di quell’espressione geografica che è la Sicilia. Allora, come in seguito, l’Autonomia e l’autonomismo sono stati strumenti preservativi o letargici rispetto al fuoco del mondo. Dietro gli avvocati e i giuristi… il nulla o la presunzione che la politica surroghi l’economia, i valori politici quelli economici. E ovviamente la colpa non è del Diritto e non è della politica. Nessuno ha colpa, ma nessuno che non abbia interessi è interessante. Allora come ora. Dove erano gli imprenditori siciliani che avrebbero dovuto dettare o suggerire la scrittura della Costituzione? I baroni erano sazi di avere senza colpo ferire allodializzato i loro beni. Un margine di discussione s’era aperto sul fidecommesso e sul maggiorasco. Ma l’essenziale era stato ottenuto. Dove sono oggi gli imprenditori normanni, imperiali, lanciati alla conquista di un ruolo interno al motore del grande flusso economico che si forma in Cina, in India? Melanconia… melanzania! Baroni… bari!

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